LO SPETTACOLO È LO SPETTACOLO
Appunti su Il divo di Paolo Sorrentino
di Sandro Sproccati
(pubblicato in «Rifrazioni», n.1, Bologna, 2009)
Una atteggiamento assai comune che la critica ha assunto nei confronti dell’ultima opera di Paolo Sorrentino tende a valutare il film, o anche solo a discuterlo, muovendo dalla questione della verità e della attendibilità storica del ritratto che esso offre di Giulio Andreotti. Data la scottante rilevanza politica del tema (ineludibile per chiunque) anche interventi specialistici – dico da parte di critici cinematografici e su riviste di settore – e dunque non solo i contributi dei liberi pensatori politologi, arrischiano sovente quello che appare a tutti gli effetti un esiziale passo falso. Che è tale non tanto, e non solo, perché si tratta evidentemente di un’opera d’arte (vi sono film che ambiscono ad esserlo e non vi riescono, ve ne sono che non vi ambiscono affatto, e vi sono pure i cosí detti documentari, che mirano in genere a tutt’altro scopo) e dunque di un testo che per sua natura non ha l’obbligo di porsi certi problemi (certi limiti), ma anche e sopra tutto perché il film di Sorrentino dichiara in ogni suo dettaglio – e fin dall’inizio – di non voler conseguire o ricostruire alcuna verità oggettiva, di non porsi affatto il problema della credibilità storiografica, e in sostanza di non voler per nulla tracciare ciò che chiamiamo il “ritratto” di un uomo o delle situazioni reali che lo riguardano. Fin dall’inizio, dicevo. Fin dal titolo e, ancor piú, dal sottotitolo. Il divo. La vita spettacolare di Giulio Andreotti: termini ed espressioni (divo, spettacolare) che pongono giustamente l’accento sulle mire artistiche del racconto, vale a dire sulla marca drasticamente creativa della tematizzazione di un personaggio (sia pure) storico e (sia pure) realmente vissuto, sull’elemento appunto spettacolare e dunque finzionale del testo che va a rappresentarne le gesta (nel senso piú tecnicamente fondato delle parole “rappresentazione” e “gesta”). Ora, misconoscere questa vocazione e questa natura estetica del Divo – porre cioè al centro dell’analisi il problema della veridicità del ritratto di Andreotti e della miserabile lunga stagione politica italiana di cui egli fu protagonista – costituisce appunto un errore preventivo e dunque rovinoso, cosí rovinoso da far cadere coloro che lo compiono nel baratro dell’incomprensione e perfino della denigrazione di un’opera che è in realtà uno dei capolavori del cinema del nuovo secolo.
D’altra parte, un ritratto ha sempre a che fare con una esecuzione (elaborazione del testo) dal vero. In pittura, nella pittura classico-moderna, il ritratto si dà nella presenza, nella centralità e nella messa a nudo di un essere umano vivente che si è prestato, posando di fronte all’artista, a trasferire la propria identità fisica – altresí psicologica, da Lorenzo Lotto in poi – in una immagine che possa rappresentarla (re-praesentatio, re-tractum), che sia cioè in grado di trarne la presenza oltre i limiti spazio-temporali in cui essa si compie, in definitiva prolungandola oltre i suoi logici confini. Il ritratto ha a che fare con il calco, con la maschera mortuaria, con il ricordo e con il culto dei morti. E non a caso, alle soglie della nostra epoca, la fotografia è venuta a proporsi come mezzo eccezionalmente adatto alla sua realizzazione, dato che la fotografia – esattamente come la maschera mortuaria, e pur producendo immagini vere e proprie a differenza di quella – elabora il proprio significante (l’immagine) a partire dall’assolutamente necessaria presenza dell’oggetto fisico dinnanzi all’occhio della macchina, il cui sguardo si sovrappone a quello umano dell’artista. Tale è infatti è il presupposto del ritratto: che il “ritrattato” possa vedere l’occhio che lo ritrae allo stesso titolo e nel medesimo istante in cui quest’occhio lo vede. Il ritratto, per definizione, guarda in macchina, e ciò al fine di stabilire una relazione di dialogo, e di reciprocità, nella compresenza (comprovata) che lo fonda[1].
Ma Il divo non vuole affatto ritrarre Giulio Andreotti e le sue azioni, e i suoi pensieri, e i suoi seguaci, e i suoi complici. E ha piena ragione Jonny Costantino[2] a parlare per questo film piuttosto di “caricatura”: a ritenere cioè che la critica politica attuata da Sorrentino nei confronti della classe di potere italiana degli anni settanta-ottanta-novanta sia assai piú vicina all’attacco ferocemente ingiurioso messo in campo da George Grosz contro la borghesia tedesca proto-nazista degli anni venti che non a qualsiasi seria e responsabile ricostruzione storica di tipo giornalistico o accademico. In Grosz le armi della satira e della caricatura vanno a deformare ogni verità oggettiva (di volti, abiti, comportamenti) per rivelare il ceffo piú autentico di una società che utilizza la verità oggettiva solo come maschera della propria anima tetra e disgustosa. Un paradosso, un bisticcio di parole? Non direi: perché tale, a saper guardare, è il senso di una tecnica dello smascheramento che già Marx iniziò a promuovere dinnanzi alle ideologie culturali della rivoluzione capitalistica e della società da essa prodotta; e perché proprio l’esperienza di questi nostri tempi piú recenti – tra guerre di liberazione, deposizioni e fucilazioni di dittatori, esportazioni di democrazia, estirpazioni di terrorismi, nonché legittime difese di “imprescindibili” interessi economici – ci ha insegnato come funziona la verità oggettiva; e perché lo smascheramento di quest’ultima è una delle funzioni che da sempre l’arte può assumere come necessarie. Mostrare l’inautenticità dell’oggettivo (del vero) equivale infatti a denunciare il vero e l’oggettivo come superfetazioni ideologiche, ossia come brutali mezzi di oppressione dei quali il potere politico si serve: in una fase di coscienza, o di gioco linguistico, in cui (Wittgenstein e Gödel non avrebbero dubbi in proposito) il concetto stesso di verità si è irrimediabilmente corrotto.
Perché mai, allora, esigere che Sorrentino si comporti con Andreotti diversamente da come Eschilo, ad esempio, si è comportato con Agamennone o Shakespeare con Macbeth? Forse perché Andreotti è meno “mito” di Agamennone e di Macbeth, essendo una persona reale e addirittura vivente? Ma regge tale argomento? Voglio dire: si può essere certi che Andreotti sia reale e vivente? Forse che non si è formato nelle coscienze degli italiani (e non solo degli italiani) un vero e proprio “mito” di Andreotti? L’Italia dei misteri ha nel volto impenetrabile, nello sguardo senza oggetto, nel sorriso ironico, e infine nella gobba stessa, del divo (il gobbo, la volpe, il mandarino, il papa nero, belzebù) il suo mistero piú misterioso e piú doloroso. E se migliaia di indagini giornalistiche, tonnellate di carte processuali, centinaia di testimonianze e di presunte ricostruzioni storiche (ah, le ricostruzioni storiche!), nonché decine di sentenze regolarmente sconfessate da altre sentenze, non hanno saputo dire nulla di certo e di oggettivo sulla vita e sulla figura di Giulio Andreotti reale e vivente, perché mai dovremmo pretendere che qualcosa di simile voglia e riesca a fare un’opera d’arte? Il film di Sorrentino si occupa, con ogni evidenza e applicando un minimo di buon senso estetico, di un mito, non di un uomo in carne ed ossa.
La struttura del Divo, formidabile a livello di disposizione del materiale diegetico – nonché di manipolazione dei “fatti” in termini narratologici – è quanto c’è di piú lontano dalle forme linguistiche di un’inchiesta o di un documentario. Il tempo è trattato in quest’opera in modo non meno anarchico che in un film di Godard. Si passa dalla diacronicità di una rassegna pressoché ex-temporanea di crimini ed eccidi (un riassunto preliminare dei cosí detti misteri d’Italia) al momento denso della formazione del settimo governo Andreotti (l’arrivo di una “brutta corrente” annunciato dalla segretaria Enea, la salita al Quirinale per l’investitura – 1991), alle non cronologizzabili feste in casa Pomicino, a un primo richiamo all’uccisione di Salvo Lima (marzo 1992), a una successione rapida e con salti di tempo (analessi non sostenute da flash back) di eventi temporalmente irrelati tra loro: telefonata di Giulio alla moglie Livia dalla Russia (con foto di Marx dietro il letto), Aldo Moro nella prigione del popolo (1978), dialogo di Andreotti con Pomicino su Cossiga («è meglio tirare a campare che tirare le cuoia!»), telefonata ad Amintore Fanfani (presente il fido Evangelisti), raccomandazione negata al telefono a un interlocutore ignoto, corse dei cavalli e di nuovo i killer di Lima sulla motocicletta. Quindi si trascorre direttamente alla fine del settimo (e ultimo, deo gratias) governo del gobbo e all’elezione di Oscar Luigi Scalfaro a capo dello Stato in concomitanza con la strage di Capaci (maggio 1992). Strage anch’essa per altro citata in modo ricorrente, come per puntellare il racconto con una specie di leit-motiv negativo – il ralenti, lento e bellissimo, dell’auto che si schianta dopo l’esplosione della bomba – che ha la funzione di ricollegare lo schianto dei fatti al loro sfondo di “motivazione unitaria”. L’inchiesta Mani Pulite avanza: i (presunti) suicidi dei grandi corrotti sono mostrati quasi per effetto di flash fotografici in altrettanti quadri fissi: Moroni (settembre 1992), Gardini (luglio 1993), Cagliari (idem) e altri ancora – in una impressionante mitragliata di immagini istantanee. L’intervista rilasciata da Andreotti a Scalfari, che segue immediatamente, si colloca in un futuro da resa dei conti (mancata) o non si colloca affatto. La narrazione retrocede, quindi, alle “rivelazioni” dei pentiti di mafia che hanno consentito a Scalfari, e ovviamente ai magistrati, di formulare le accuse. Piani cinematografici come foto segnaletiche (e infatti mostrano l’esecuzione delle foto segnaletiche). E poi una portiera inceppata sotto la pioggia... Le guardie del corpo che non riescono ad aprirla... Voce fuori campo, mentre la pioggia lava il vetro dietro al quale sta il busto lugubre di belzebù: «Tenetevi forte alle sedie», è l’esortazione di un pentito davanti ai magistrati. Dissolvenza in nero. Stacco. Caselli ascolta Mannoia che parla dei rapporti tra lo Ior e la mafia, e poi di Sindona, di Gelli, di Bontade e di Inzerillo. La segretaria Enea conferma di aver conosciuto Gelli e Sindona. Buscetta parla del finto suicidio di Calvi (qui le immagini visualizzano le parole, in modo piú canonico). Calò, mandante dell’omicidio di Calvi, è descritto come in ottimi rapporti con tutti: la mafia, la camorra, il Vaticano, i politici. Il pubblico ministero: «Quindi se Calò parlasse...». Buscetta: «Se Calò parlasse, signor giudice, morirebbe dopo aver detto buon giorno». Dalla Chiesa e Pecorelli erano a conoscenza dei segreti rapporti di Andreotti con la malavita organizzata: si vede il pentito che rende tale testimonianza e subito, con stacco brutale, le uccisioni dei due personaggi (colpi di mitra, vetri infranti delle auto, esplosioni). Badalamenti mi ha detto – narra un teste – che l’omicidio Pecorelli è stato ordinato dai cugini Salvo per fare un piacere ad Andreotti. E la pellicola va a sondare tutti gli intrecci del divo con la mafia (molto denso, quasi solo parlato, le immagini emblematizzano le parole e ne commentano il senso). Infine, si torna a una narrazione cinematografica ortodossa (o quasi) e al dialogo in campo-controcampo (mai classico, però) quando Bontade ricatta la volpe ciociara (siamo a prima del 1989) e quando Di Maggio (dopo il 1995) riferisce a Caselli l’episodio del presunto bacio a Riina. Bacio in bocca a Totò! Che subito viene mostrato dalle immagini come davvero accaduto (settembre 1988), ma in uno strepitoso passo di minuetto teatralmente inscenato dal senatore e dal boss mafioso, coordinati in perfetta “armonia” (coreografica). Quindi un postfactum lasciato volutamente nel mistero: Riina e Di Maggio in una villa abbandonata, con interruzione del racconto su Totò ammaliato dai frutti dell’orto e Di Maggio pronto a svignarsela in automobile (forse il tradimento che consente la cattura del boss; e siamo a gennaio 1993). Il divo annuncia alla moglie che la Procura di Palermo chiede l’autorizzazione a procedere contro di lui per associazione a delinquere di stampo mafioso (1994), e da qui in poi il racconto seguirà una certa linearità cronologica, toccando le varie fasi del dibattito parlamentare e poi giudiziale, Palermo e Perugia (per il delitto Pecorelli) ma con ampie ellissi ricoperte da altrettante pause di commento: dialoghi, testimonianze, interviste, opinioni di uomini importanti... E sopra tutto il superbo monologo autoaccusatorio (del quale dirò oltre) che precede il finale. Ed ecco Andreotti sul banco degli imputati, chiamato a rispondere alle accuse piú infamanti che abbiano colpito uno statista europeo dopo il processo di Norimberga: lento inesorabile zoom verso il volto del mandarino, assiso al suo scranno e come mummificato. Ancora, fuori campo, alcune frasi dall’articolo di Scalfari: «Che significava, in presenza di tutto questo, il dolore insanabile di una vecchia sposa, lo sfascio di una famiglia? Che significava tutto questo per Andreotti? Una volta conquistato il potere per fare il male, come sempre ha fatto il male nella sua vita, tutto questo... non significava... niente.». Il cambio di musica segnala che sull’icona del mascherone andreottesco e sulla parola niente il film potrebbe pure chiudersi, ma in luogo dei titoli di coda appaiono i resoconti delle sentenze dei processi tra il 1999 e il 2005.
Ora, basterebbe la già citata sequenza del bacio a Riina per comprendere come lo scopo del film non sia affatto la ricostruzione della realtà o della verità storica. Quello è l’episodio piú incredibile, piú pazzesco, piú diabolico della spettacolare vita di Giulio Andreotti, e del resto esso appartiene al mito di quella vita piú che a quella vita in sé (chi potrà mai stabilire, nei secoli dei secoli, se il bacio ci fu o non ci fu? E, inoltre, anche non se ci fosse stato, dovrebbe esserci – anzi c’è – comunque: dato che in esso simbolicamente si addensa, implodendovi, tutta l’inesauribile tragedia dell’Italia del dopoguerra). Ed è giusto, allora, che quell’episodio venga trattato come argomento onirico, ovvero che lo stesso Andreotti assuma dinnanzi a Riina le movenze di un attore rituale, che mima l’epicità della sventura volgendola in danza, cosí come è giusto che il narratore (se si vuole, Sorrentino) vada a sussumere nel proprio ricco delirio, in una personalissima proiezione allucinata e stravolta, ciò che alla sfera della follia evidentemente già appartiene.
Alla difficoltà della struttura narrativa, all’anarchia della disposizione degli argomenti – ossia al rifiuto pressoché globale del parallelismo tra tempo del racconto e tempo della storia[3], che permette di recepire il materiale diegetico come se fosse prodotto da informazioni via via recuperate a brandelli sparsi, da un passato che rimane sostanzialmente ignoto, e via via ricomposte come tessere di un mosaico infranto per ricostruirne faticosamente il profilo – fa da adeguato contrappunto una complessità tecnico-cinematografica magistrale. Sorrentino conduce alle estreme conseguenze, dunque al coraggio della pirotecnia linguistica (coraggio davvero ragguardevole in un regista italiano, il quale, in linea di principio, dovrà pur fare i conti con un pubblico ormai totalmente assuefatto alle miserie del grand guignol berlusconiano) l’amore per l’invenzione e la scoperta già sperimentato (in parte) ne Le conseguenze dell’amore, dove persistevano tuttavia esigenze di chiarezza espositiva e di linearità del testo, dunque una certa cautela formale.
Infinite sono le trovate spettacolari che la danza della cinepresa fa esplodere nel Divo. La relazione tra personaggi-vicende e obbiettivo della macchina, ovvero l’utilizzo di quest’ultima come un elemento di presenza soggettiva, quasi come un occhio che dall’interno scruta le movenze dei fatti e con loro interagisce, è tale da restituire al mittente ogni pretesa di freddezza e imparzialità dello sguardo, e perciò (ancora una volta) da disdire ogni mediocre supposizione realistica nei riguardi della trattazione tematica. Citerò solo un esempio, ma formidabile: quello, verso la fine del film, del breve iperdinamico piano-sequenza in cui si ode dapprima parlare un personaggio invisibile – e, date le molte analoghe situazioni pregresse, si pensa alla classica voce fuori campo subendone le implicazioni semantiche – su una panoramica della facciata di un palazzo percorsa a caduta dall’alto, fino a inquadrarne il portone; il quale tuttavia, mentre conquista il campo totale, socchiude uno dei battenti, quasi fosse palpebra umana: per lasciar sbucare l’avvocato Coppi, a cui la voce di fatto appartiene (diegetizzazione a sorpresa) e che, mentre transita e continua a parlare, si gira per mantenere rispettosamente lo sguardo verso di noi, verso la mdp; che nel frattempo, e per proprio conto, si sposta abbassandosi e ruotando per seguirne la fuga, con gli esiti di un “movimento restitutorio” alla Fassbinder. Meraviglioso!
Piú in generale, il legame tra le voci e le immagini è quanto mai complesso e diversificato, sequenza per sequenza. Il montaggio a tagli assai marcati, ossia con ellissi potenti e sintatticamente ben segnate da violenti cambi di elementi fonici sovrasegmentali (musiche, silenzio, rumori) consente di attribuire enorme efficacia al parlato fuori campo (nelle sue diverse valenze, anche se per lo piú del divo medesimo) che è assai presente, ed è pseudo-narrativo. Non è analettico, dato che il divo non rammemora vicende – queste rimangono in possesso del narratore extradiegetico, e dunque sono dalle immagini coniugate in terza persona e sempre al presente – bensí organizza un commento in parallelo ai fatti, puntualizzandone piuttosto il senso (sovra-interpretandoli) per incrementare la potenza di ciò che si vede.
In altri luoghi (parte relativa ai rapporti tra Andreotti e la mafia) il linguaggio narrativo classico cede il passo a un testo piú verbale che visivo, molto denso, quasi solo parlato, ma con musiche distoniche a contrappunto, dove le immagini si limitano ad allegorizzare le parole e a rafforzarne il valore. Diverso ancora è il rapporto tra voce e quadro visivo presso quello che si potrebbe definire il clou – al livello di performance attoriale – della pellicola. Dico il grandioso monologo in cui il divo idealmente si rivolge alla consorte per ascendere i progressivi scalini di una suprema autoaccusa e autoapologia, ovvero di una apoteotica proclamazione-acclamazione di se stesso in quanto Male divino sublime e necessario. Livia – dice – tu non hai idea delle immense malefatte che il Potere deve compiere per autoconservarsi e produrre il Bene. Impalato su un seggiolone, a camera fissa e campo medio: «Per troppi anni il Potere sono stato io!». Lento zoom, stacco, primo piano vicinissimo, campo medio-prossimo, lento zoom, stacco, primo piano vicinissimo, campo medio-prossimo, lento zoom, stacco, primo piano vicinissimo, e cosí via... mentre la tensione vocale cresce progressivamente di intensità. «La mostruosa inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene». L’alibi dei tiranni! Poeticamente il divo vuota il sacco: «Livia, gli occhi tuoi pieni, puliti e incantati non sanno la responsabilità. La responsabilità diretta o indiretta per tutte le stragi [si vedono per qualche secondo le lapidi tutte uguali di un cimitero di guerra con movimento lento trasversale della mdp] avvenute in Italia dal 1969 al 1984, e che hanno avuto per la precisione 236 morti e 817 feriti. A tutti i famigliari delle vittime io dico: sí, confesso, confesso è stato anche per mia colpa, per mia colpa, per mia grandissima colpa». Il tono cresce ancora in veemenza, il volume si alza, è una furia di onnipotenza e di ferocia, quando il divo parla degli amanti della verità, ossia delle «bombe pronte ad esplodere che sono state disinnescate col silenzio finale» (cita i nomi dei politici, generali, giornalisti uccisi, compreso Moro). Urla: «Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo... Abbiamo un mandato noi... Un mandato divino. Bisogna capire quanto sia necessario il Male per avere il Bene». Il tono cambia, la voce si placa in un sospiro di liberazione: «Questo dio lo sa. E lo so anch’io». Toni Servillo si erge semplicemente alla medesima altezza, vertiginosa, di Carmelo Bene. Ed è teatro puro – quello a cui assistiamo – richiamato dalla regia con lo spegnersi delle luci di scena alla fine del monologo.
La tragedia è la tragedia. Lo spettacolo è lo spettacolo. L’arte è allegoria della realtà. Muovendo dalle intuizioni benjaminiane, potremmo anche dire: critica allegorica dell’economia politica. Nessuna mediazione è possibile con il buon senso della ricostruzione storicistica e con lo scrupolo insabbiatorio della prudenza filologica. Il passato non si lascia cogliere e restaurare come un rosario di fatti infilzati uno dopo l’altro[4]. Questo lo sanno gli storici autentici, lo sanno gli artisti d’avanguardia, lo sa dio. E lo sa perfino Andreotti, che infatti non ha querelato Il Divo. Il film di Sorrentino vince la sua scommessa (e si tratta della scommessa piú difficile per un poeta) allorché riesce ad essere arte, ovvero ad essere spettacolo, mentre affonda mani tutt’altro che prudenti – piuttosto gli artigli di una pantera! – nelle carni insanguinate della catastrofe di una nazione.
[1] Tale è ad esempio il presupposto dell’operazione di ribaltamento del ritratto che Giulio Paolini ha realizzato, nel 1967, con l’opera fotografica Giovane che guarda Lorenzo Lotto. Cfr. Giulio Paolini, Idem, Einaudi, Torino 1975, pp. 29 e 74. Ma, piú in generale, a sostegno di quanto qui osservato, si vedano, tra gli altri, Roland Barthes, La camera chiara, ed. it. Einaudi, Torino 1980 e Jean-Luc Nancy, Il ritratto e il suo sguardo, ed. it. Raffaello Cortina, Milano 2002.
[2] Jonny Costantino, Estetica della caricatura, in «Cineforum» n. 476, luglio 2008, pp. 5-8.
[3] Sui problemi di “ordine” nella logica della narrazione si veda Gerard Genette, Figure III. Discorso del racconto, ed. it. Einaudi, Torino 1976, pp. 81-134.
[4] Cfr. Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, ed. it. Einaudi, Torino 1966, Premessa metodologica; Idem, Avanguardia e rivoluzione, ed. it. Einaudi, Torino 1973, passim; Idem, Tesi di filosofia della storia, ed. it. in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1976; Georges Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, ed. it. Bollati Boringhieri, Torino 2007, Ouverture.
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