giovedì 13 giugno 2013

AMOUR: A MORT (HANEKE)


AMOUR: A MORT
Riflessioni su un tema di Haneke e sulla sua rappresentazione cinematografica



La morte è irrapresentabile, inenarrabile, indicibile... Non solo la propria morte, ché sarebbe fin troppo facile, ma la morte in generale, la morte altrui, la morte che ti sorprende, la morte che ricordi a lungo, i pensieri della morte che ti incombono vicini, l’ala della morte che fin dalla nascita muove freschi brividi dietro il tuo capo, gli effetti della morte sul corpo (che non è piú corpo ma cadavere) di chi hai amato e anche di chi non conoscevi affatto... La morte è l’indi­ci­bile. Giacché, con il pensiero e l’ardore di chi muore, annienta la parola di chi assiste, e rende memoria – vale a dire costruzione ingannevole di immagine, rappresentazione artificiosa, fasulla – il soffio ardente di colui o colei che ha vissuto, di chi è stato nel contatto della vita, presente in essa e ad essa.
La morte in Dostoëvskij è intravista, accarezzata, allusa, quasi rappresentata, ma solo perché Dostoëvskij ebbe l’orrendo privilegio di guardarla negli occhi: le canne dei fucili spianate contro di lui, la spada alzata del comandante di plotone, un attimo ancora e lo schianto luminoso che si abbatterà per sempre come un’esplosione cosmica, facendo sprofondare il tutto nel nulla... Poi nulla: solo uno scherzo “atroce”, degno letteralmente (questa volta sí) dell’infamia di Atreo. E tutta la vita che permane, che si riapre... ma per cosí dire: segnata per sempre da una morte conosciuta e dunque riconoscibile. Chi non ha provato questo, almeno questo, è in verità salvo, in quanto è “fuori” dal cerchio (dal buco nero) della morte e, per sua grazia, non la conosce affatto.
«D’altra parte sono sempre gli altri che muoiono», fece scrivere sulla propria lapide Marcel Duchamp («D’ailleurs c’est toujours les autres qui meurent», cimitero di Rouen), perfetta risposta al lascito funerario di John Keats: «Qui giace uno il cui nome era scritto sull’acqua» («Here Lies One Whose Name Was Writ in Water», cimitero protestante degli inglesi a Roma). Sono sempre gli altri che muoiono. E ciò non significa soltanto che della propria morte niente è dato sapere e nemmeno significare, e che di essa nessuna coscienza potrà mai realizzarsi, in nessun caso e in nessun modo, ma altresí – stante l’inconoscibilità della morte in assoluto – che solo se pronunciata da chi è già morto (sulla lapide, come emergente in superficie dal profondo della tomba) quella frase dice qualcosa. E infatti, in tal caso, dice che gli altri persistono a vivere, nulla di piú. Vivere è poter morire, morire non è (piú) nulla. L’istante in cui emana il soffio, l’ultimo singulto, il fiotto che svanisce, è quello in cui il nulla prende il sopravvento, e del quale – in definitiva – niente si può dire.
«Inspirò profondamente, si fermò a metà del respiro, stese le membra, e morí.» – sono le parole con cui si chiude il racconto di Tolstòj Morte di Ivàn Ilíč (1884-86), il quale tuttavia, un capoverso sopra, attribuisce al moribondo la seguente mozione psichica: «Finito! – disse, su di lui, una voce. Egli percepí quella parola, e la ripeté nel suo intimo. Finita la morte! – disse tra sé. – Essa non c’è piú.». Morire significa infatti far finire la morte... Ed è per questo che il racconto di Tolstòj non tematizza la vicenda di Ivàn Ilíč come atto del morire, come momento del trapasso (al quale, in effetti, il racconto non dedica che una riga e mezza di non detto, esattamente quel capoverso finale citato), bensí tematizza l’estenuante progressivo avvicinamento di Ivàn Ilíč verso quell’istante, cioè il suo muoversi in vita in quella direzione, il suo terrore del tutto vitale della morte, il suo chiamarla a sé con tutte le forze della vita che pulsa in lui: dato che soltanto questo è “morire”, solo questa è la morte di cui si può parlare. La mancata rappresentazione (la rappresentazione impossibile) si rovescia in rappresentazione della mancanza, ossia del terrore-desiderio dell’assenza estrema e finale. Poiché, d’altra parte, sono sempre gli altri che muoiono e, appunto, la morte è solo mancanza, assenza, vuoto definitivo.
«Quando aprí il settimo sigillo, ecco, si fece si fece silenzio in cielo...». Certo, anche Giovanni di Patmos (Apocalisse, II secolo d.C.) aveva tentato – senza riuscirvi – di narrare la morte. E cosí hanno fatto una moltitudine di opere d’arte, letterarie o d’altro genere, per i secoli dei secoli; ma forse, come Tolstòj, e tuttavia senza la sua consapevolezza, non hanno narrato null’altro che il terrore della morte, l’essere della morte dentro la vita che l’attende: cosí come che ciò che esiste, e per il fatto stesso di esserci, ha inscritta dentro di sé la propria fine, il proprio futuro non esserci. Proprio John Keats, l’uomo il cui nome era scritto sull’acqua, ha visto (e detto) con chiarezza, per contro, come solo ciò che non ha vita, ciò che è scolpito in un’immagine di pietra, potrà ambire alla felicità di una “stasi” che lo ponga al riparo dall’incessante movimento verso la scomparsa, il che poi vuol dire da ciò che rende la morte uno stato mentale della vita stessa. «Bel giovinetto, là, sotto le piante, tu non puoi lasciare / il tuo canto, né possono mai quelle piante esser nude; / audace amante, giammai, giammai tu puoi baciare, / pur se la meta quasi tocchi – eppure non averne affanno; / ella non può appassire, pur se la gioia tua non hai, / tu per sempre amerai, ed ella sarà bella!» (Ode sopra un’urna greca, 1819).
Il cinematografo può narrare la morte meno ancora di quanto possa farlo la scrit­tura. Le immagini vedono solo ciò che si pone dinanzi all’occhio della macchina da presa nella concretezza fisica di un oggetto vivo nel mondo; e l’assenza di vita – la sua scomparsa – si dà in immagine esclusivamente come vuoto, come omissione, ovvero non può darsi affatto... È un limite del linguaggio iconico (fotografico e non solo): la negazione gli è interdetta. Il cinema non narra certo la morte con i (finti) cadaveri stramazzati al suolo o con gli effetti speciali di sbudellamenti gratuiti! Forse può narrare la resurrezione – in Ordet di Dreyer (1954) – oppure può additare la morte come personaggio (simbolico) sulla base delle “personificazioni” medioevali, magari accessoriandola di cappuccio, scacchiera e falce da fieno, come in Il settimo sigillo di Bergman (1956)... Ed è perfino piú “onesta” quest’ul­tima scelta di quella di chi ci vorrebbe porre in presenza della morte, appunto, dopo duelli, sparatorie, massacri, carneficine varie... In quella presenza solenne, che si dà appunto solo come silenzio, in quel silente vuoto, che è presenza di un’assenza, l’immagine non potrà mai collocarci, al pari e ancor piú di quanto (non) può farlo la parola.
Amour di Haneke è un film violento. Di una violenza per cosí dire inaudita. Ha la pretesa di farci vivere la morte di una donna come se la morte fosse vivibile... Con spericolata audacissima caparbietà, il film ne segue il percorso: lo cerca, lo tenta, vi si muove attorno, quasi ne accarezza i bordi, lo assedia... Non potendo sprofondare nel suo tema, fa di tutto per delimitarlo e per aggredirlo dall’esterno. E lo fa scegliendo l’unica strada possibile, quella che mette al centro della rappresentazione il riflesso dell’agonia di quella donna, Anne, sulla vita e sul destino dell’uomo che la ama, Georges. Un lento supplizio, un declino fisico e psichico angosciante, un degrado progressivo tremendo – simile per certi tratti a quel cammino inarrestabile che già era stato di Ivàn Ilíč – viene descritto, anche senza gli eccessi di una non necessaria focalizzazione, a partire dallo sguardo dell’uomo, compagno in vita della morente e ora muto partecipe del di lei passo estremo... In questo modo, ed è indispensabile, la morte assume il nome di amore: forse proprio il nome che ha sempre avuto, l’uni­co che la individua come evento capace di accadere e che pertanto la può “pensare”; nel film di Haneke, in questa sua nuova stupefacente prova di forzatura del linguaggio, essa è nient’altro che amore, si materializza nell’a­more che piange (o forse ride) la sua assurda incombenza.
La violenza è qui, nel mettere a nudo, come un cuore palpitante nella mano di chi lo ha estratto dalle viscere di un corpo, l’amore: come agonia dell’amo­re nell’agonia della vita. La vecchiaia ne è il requisito imprescindibile. Se in Funny Games (1997) la violenza trovava nell’assurda imbecillità del gioco la sola rappresentazione materiale possibile, cioè se violento era il non-senso dell’esistenza in quanto tale (esistenza borghese e tranquilla della famigliola – odiosa – vittima; esistenza sfacciatamente aristocra­ti­ca, elitaria, banalmente dandistica e perciò orribile, della coppia di giovani carnefici), qui, in Amour, è violento il volto (ossia il significato) del tragitto, poi del tracollo medesimo, della figura vitale (la donna viva e vera, il suo corpo, la sua mente) nella rappresentazione dell’altro, dell’implicato, di colui che ne è l’osservatore-amante, il marito, il compagno, il complice... in fondo nella rappresentazione di chi quella vita ha reso un fatto autentico con il proprio amore, di colui che la rappresenta nei termini di quel proprio atto libidico fondamentale. Il desiderio (libido) crea la figura e la vede fiorire, e poi deperire e distruggersi, perché essa – in quanto reale e vivente – è anche in sé. In un certo senso, la dicotomia tra il per-sé (per l’altro) e l’in-sé (per se stesso) è la base drammatica su cui Haneke ha edificato il proprio capolavoro.
In Funny Games la violenza non è mai mostrata in modo diretto, gli occhi dello spettatore ne vengono in tal senso salvaguardati – contro la sciocca propensione agli spargimenti di budella e di meningi, oggi ampiamente diffusa, che sortisce effetti piú comici che impressionanti –, oppure, nell’unico caso in cui lo è, quando la donna vittima afferra un fucile e sfonda il petto di uno dei carnefici, un celebre e mai prima arrischiato “rewind” provvede ad abolirne l’immagine, a posteriori... quindi l’annulla dichiarandola erronea: si vede ma non è stata, non c’è (piú). Del resto la violenza è per Haneke nell’occultamento stesso, nel gesto con cui la si cancella per negarla, non facendo cosí che riaffermarla. La vita stessa è violenza, ed è impossibile non accorgersene, perché essa, la vita, soggiace alla minaccia puntuale della morte. Der Tod und das Mädchen, per dirlo nella lingua stessa di Haneke, ovvero nella lingua dell’amato Schubert (che ha dedicato al tema il suo piú drammatico “quartetto”) o – anche – in quella dei primi ideatori di tale luminoso nesso psico-filosofico, rappresentato infatti nei dipinti di Hans Baldung Grien e seguaci. La morte incombe sulla bellezza femminile, sull’orgasmo sessuale, sull’estasi erotica e sulla vita in quanto piacere ed energia biologica, rendendo tutto ciò mera e ingannevole “vanitas”.
In Amour c’è di piú. La violenza è mostrabile, ed è mostrata: ma come violenza, appunto, dell’essere in vita, come superiore stato di grazia assoluto (l’esistenza), nella sciagura che incombe: non come fato o avverso destino, non come infortunio, non come iattura individuale – ciò che siamo soliti figurarci, per un conforto senza il quale non potremmo r/esistere, accanto al retro-pensiero «càpita solo ad alcuni...» – ma come sbocco ineludibile e necessario, come esito tragico e perfino agghiacciante: nella consunzione biologica a cui l’uomo è votato da natura e senza rimedio. L’ontologia torna a farsi efficace: l’uomo muore, e il suo morire è la sua essenza, un po’ come è l’essenza (o, se si vuole, la definizione) di dio a imporre il fatto (l’attributo) della sua esistenza, secondo il gioco di Anselmo d’Aosta. L’ontologia che è elaborata in Amour non esclude tuttavia l’ateismo, ed anzi lo illustra, giacché non propone riscatto dalla morte, ma semmai spalanca gli occhi sul verificarsi della morte in vita attraverso lo sguardo che dovrebbe allontanarla, e che invece la coglie e la rivela, lo sguardo dell’a­more.
«Visioni sí funeste, se non son degne di Atreo son degne di Tieste» (per parafrasare Poe, e dunque Crebillon: «Un dessein si funeste / S’il n’est digne d’Atrée, est digne de Thyeste»). Solo una grande ingenuità, uno sguardo assai superficiale, forse anche il bisogno di facili consolazioni, possono produrre equivoco fino al punto da far leggere Amour come un’apologia dell’amore e della bellezza dei sentimenti che vengono per solito riassunti tra le stecche dell’ombrello (in verità pieno di buchi) di tale parola. L’amore nel film omonimo è la pre-condizione che consente non la vittoria sulla (schema cristiano) ma la visione della morte. Vale la pena di riflettere, allora, intorno alla critica che questa formidabile prova cinematografica innesca (quasi un “parallelo” tentato e poi mancato) a fronte delle posizioni drammaturgico-ideologiche di Ingmar Bergman: per sottolineare, innanzi tutto, che la “morte di dio” su cui Bergman fonda le proprie analisi umanistiche è oltrepassata dal luogo in cui si installa Haneke come uno stadio ormai obsoleto, una logora incognita, una impasse che non è piú tale lungo il processo millenario della coscienza verso l’ateismo: alle latitudini della “fase estrema” dell’umanità, quella in cui oggi siamo gettati. Se Bergman poneva la questione, ancora nietzschianamente, nei termini di un “lutto” – il silenzio di dio quale segno della sua scomparsa – Haneke si dispone (e ci dispone) oltre, laddove il fatto si è per cosí dire definitivamente compiuto. In Nietzsche e poi in Bergman, sentire l’assenza di dio non equivale infatti a negarne l’esistenza: il lutto è possibile solo là dove c’è la persuasione di una perdita, ossia di un evento di morte; ma un conto è, appunto, assistere alla morte di qualcosa che è stato, che si è visto (o sentito) morire, e un altro conto è prendere atto della semplice inesistenza di ciò che non è (neppure) mai stato. “La morte di dio” grida ovunque la disperazione di un’eclissi, di un silenzio inaspettato, ed è uno stato di rimpianto, un lutto pervicace, forse anche definitivo ma proprio e solo in quanto lutto. E cosí in Bergman (si veda Luci di inverno, 1962, ad esempio) quello è il nodo alla gola da cui muove la rappresentazione dell’u­mano. In Haneke l’assenza di dio è invece la sua totale insussistenza nell’uomo e nelle sue ragioni esistenziali: dio non c’è piú perché era un inganno, una costruzione artificiosa, un prodotto dell’uomo e dei suoi terrori... Come se Orfeo, dopo la discesa agli inferi per riavere l’amata sposa, nell’atto di girarsi a controllare il buon esito della propria impresa, perdesse non già Euridice testé risorta, ma la semplice e pura speranza di averla (anche solo per un attimo) fatta risorgere. Orfeo si volge, e non vede nulla... ciò che ha perduto è soltanto un’illusione.
Quel che muore in Amour non è dio, ma l’uomo. E l’uomo muore veramente solo allorché dio non è mai esistito. Nessun sentimentalismo: si tratta semmai di affondare con la freddezza di un carnefice la lama dello sguardo (il cinema è sopra tutto sguardo) ossia della coscienza (il linguaggio artistico genera coscienza) nella dimensione atroce del prodursi della morte come dissipazione definitiva; e per farlo – con Amour – si deve mostrare il disfacimento della vita nel suo essere ciò che la morte determina e alla morte prelude, ciò che la rende quindi rappresentabile. Alla crudeltà dei “fatti” occorre rispondere con la crudeltà del linguaggio.
Haneke allestisce la diegesi (di Amour, de la mort) mimando in parte Tolstòj, ovvero aprendo il film sul post-factum della storia, poiché pone in incipit Anne già defunta, e dunque il suo corpo ritrovato da un’irruzione “sociale” e “legale” dei vigili del fuoco, nell’appartamento sigillato e deserto che ne è divenuto la bara; e mette in evidenza – proprio all’inizio della pellicola, quasi come un risvolto di copertina – la ieratica politezza del cadavere, che è circondato da petali di margherita sul letto-catafalco, già in avanzato stato di decomposizione. Salvo poi non recuperare tutto l’avanzamento temporale e pertanto non chiudere affatto con l’evento che il film aveva inaugurato. A parte ciò, il movimento a ritroso imposto dallo schema prolettico funziona esattamente come nella Morte di Ivàn Ilíč: subito dopo la prolessi (la morte è avvenuta, essa è qui tra noi fin da subito, ed è il tema principale: «Signori, – disse a un tratto, – Ivàn Ilíč è morto»), uno stacco cospicuo sposta indietro di qualche mese il fuoco del testo, andando a districare il bandolo giusto di quella complicata matassa che è l’esistenza di due persone nella loro vita di anziani coniugi e complici. Nell’ellissi, il titolo del film si impone su fondo nero: «Amour». Poi le immagini descrivono l’evento in cui si manifestano i primi sintomi della malattia di Anne, seguendo il ritorno dei coniugi a casa dopo un concerto di musica a teatro (Schubert, Impromptus D 899, primo movimento, do minore) e la loro colazione del mattino. Ma ecco che, immediatamente, Haneke mette in campo tutta la potenza di una scrittura scenica d’acciaio, e lo fa adeguandosi all’arduo compito di una ricostruzione dei fatti: i corpi vivi in autobus, tra altri corpi vivi... a teatro e poi in autobus, le stanze dell’appar­tamento vivificate dai corpi, e in esse il campo e il fuori campo dei corpi, di Anne e di Georges, a seconda dei loro movimenti... Tutto è inquadrato da una cinpresa immobile, severa, che nulla concede al simbolico, che tutto oggettivizza nel suo obbiettivo fermo, prospettico, gelido e ortogonale come lo sguardo di Piero della Francesca... Il tono è lento, pacato, senza drammi, senza colpi di scena, senza vedute artificiose, senza “movimenti di macchina” implicativi, affinché l’algida bellezza di un’immagine spietata possa narrare la vita, ossia la vita nel suo progresso verso la morte, oltre gli sbalzi, oltre le emozioni, oltre i sussulti sentimentali: perché cosí è la vita nella sua fase terminale, e cosí sarà il film fino alla fine. Riclassicizzare la lingua del cinematografo, contro ogni tentazione di produrre scorciatoie psicologiche con mezzi ad effetto garantito, consente dunque di mettere lo spettatore dinanzi ai fatti. Alla crudeltà dei fatti – come già dicevo – Haneke risponde con la crudeltà del linguaggio. Novello Bresson, egli agisce come Bresson ne L’argent (1983): questa è la realtà, e questo è il cinema che può descriverla.
Anche dal punto di vista della sintassi diegetica, nelle sue grandi e piccole articolazioni, la scelta neoclassica prende il sopravvento su qualsiasi altra lusinga: le ellissi separano tra di loro una serie di brani narrativamente conchiusi, dove i piani lunghi sono montati in modo ritmicamente ineccepibile (e però sostanzialmente canonico) per dar vita a “scene omogenee” che rispondono, ciascuna, a uno stadio differente della malattia di Anne, la quale viene in tal modo presa per mano dalla cinepresa, nel suo tragitto odioso, e amorevolmente accompagnata fino alla distruzione della donna. E qui si innesta il potente teorema linguistico che sostanzia l’opera e la rende immensa: lo sguardo della cinepresa assume lo sguardo di Georges come chiave di comprensione dell’acca­dere – l’unica possibile. «Amore» ha per titolo quello sguardo, perché solo il coinvolgimento esistenziale ed affettivo può giust’appunto cogliere il senso della morte che lentamente si reifica... Senza alcuna esplicita “soggettiva”, le immagini ci mostrano le immagini prodotte dalla mente di un uomo coinvolto nel disfacimento di una vita altrui che è la vita della donna che ama, ed altresí, proprio per ciò, è il disfacimento della vita propria. Qui è questione di ritmo, di polso, di pulsazioni cardiache, di potenza dello sguardo dentro il ritmo... qui è la capacità indicibile (a parole) di un cinema che si pone come mezzo d’espressione non sussidiario, non parassita di altri linguaggi.
La scelta classicista (neo-bressoniana) non inibisce al film invenzioni di fascino e di stupore: al minuto 31.46 si apre una ripresa al buio, a camera fissa, sul volto di Georges in dormiveglia, senza musica, senza suoni, una sorta di meditazione notturna, pazzesca e inaccettabile in altri contesti, qui perfettamente efficace, perché è il film, nella sua costruzione geometrica e nel suo implacabile rigore, a renderla tale. I pochi dialoghi tra Anne e Georges, sempre in bilico tra il banale (il dire di circostanza) e il significativo assoluto (il logos al suo livello piú alto) hanno in sé il veleno della parola tragica, mentre la camera fissa accoglie il campo-controcampo e i primi piani dei volti devastati dalla vecchiaia come doni finalmente pieni di senso: come nello stupendo indugio che precede la dichiarazione di Anne sull’assurdità della continuazione della vita, al minuto 43. Ma, ancor piú sorprendenti, ecco altre invenzioni: una serie di “nature morte” della casa, con stanze e oggetti inquadrati a lungo in assenza di accadimenti, sempre in veduta ad altezza d’uomo, come per sospensioni descrittive che finiscono per attribuire al testo filmico facoltà che la semiologia gli nega, in linea di principio: la pausa, appunto, tipica del romanzo ma inattuabile al cinema (dicunt); addirittura la visione di una serie di dipinti romantici e post-romantici di paesaggio, a tutto quadro, tra il minuto 91 e il minuto 92, irrelata alla narrazione e perfino al contesto scenico (quei dipinti non si vedono, altrove, sui muri dell’appartamento); i lunghissimi arresti sui volti in silenzio, che colgono forse solo le rughe espressive di misteriche sindoni (e la grandezza di Haneke si nutre qui anche della grandezza dei suoi attori, Emmanuelle Riva e Jean-Louis Trintignant, entrambi giunti, ben oltre il culmine della loro carriera, alla loro prova piú persuasiva); e infine lo strazio infinito dell’album di fotografie, sfogliato da Anne e ripreso in diretta, ancora una volta a tutto campo, dalla camera fissa che si incarna nell’occhio stesso di uno spettatore invasivo, cosí invasivo da poter riconoscere, come per un ulteriore tributo alla costruzione di senso e d’angoscia, le immagini private dei due attori da giovani.
Lo sguardo del film, la sua macchina da presa, scava incessantemente il terreno dell’insignificanza, per cercarvi forse il tesoro di un lampo essenziale, e morale, qualcosa che potrebbe allignare anche nella banalità delle prese di posizione dei giovani amici e figli di Georges e Anne, ogni tanto in campo per portare aria fresca dall’e­ster­no e tuttavia capaci solo di arrecare dan­nazione alla dannazione. E alla fine è l’amore che dà la morte, è Georges che pone termine all’agonia di Anne, soffocandone sotto un cuscino a lungo premuto il rimasuglio inutile di alito vitale, il lacerto residuale di quella cosa che ancora dovrebbe essere vita e già da tempo non lo è piú. La morte metoni­mizza tutto, e infine metonimicamente descrive se stessa. Quel che Georges uccide non è piú Anne, ma solo quel respiro, quel rantolo penoso e insopportabile, quel filo assurdo d’aria che ancora si ostina ad esalare dal corpo di lei. Quel che Georges uccide è dunque la morte. La conclusione non può esserci e non c’è. Come in molti altri film di Haneke, il racconto non finisce, semplicemente si interrompe. Georges ha cosparso di petali il cadavere della moglie (lo vediamo recidere una a una le teste di molteplici margherite) e, dopo aver sigillato con nastro da pacchi le porte della stanza funebre, cattura con un panno un piccione che si è intrufolato in casa, quindi scrive una lunga lettera, nella quale narra tra l’altro di aver rimesso in libertà l’animale... Poi ode (o crede di udire) Anne che armeggia con i piatti in cucina, e con lei esce (o crede di uscire) di casa. Crede, non crede... esce, non esce, poco importa: le immagini che vediamo sono le immagini prodotte dalla psiche di Georges, e dunque “accade” esattamente quel che accade per lui. Di certo abbandona l’apparta­men­to, o almeno cosí si direbbe... Entra in casa (e nel campo visivo) la figlia dei due, Eva, la quale, dopo aver passeggiato tra le stanze vuote, siede sulla poltrona del salone, dove – forse spiandola con gli occhi Georges – la vediamo di profilo nel quadro della porta aperta.
Poi piú nulla.



Riferimenti bibliografici:
• Georges Bataille, L’erotismo, ed. it. Studio Editoriale, Milano 1997.
• Jacques Derrida, Il fattore della verità, ed. it. Adelphi, Milano 1978.
• Giovanni di Patmos (attribuito), Apocalisse (Apokálypsis), ed. it. a cura di Cesare Angelini, Einaudi, Torino 1972.
• John Keats, Ode sopra un urna greca (Ode on a Grecian Urn), in Poesie, trad. it. di Augusta Grosso-Guidetti, Utet, Torino 1967.
• Jacques Lacan, Il seminario su “La lettera rubata”, in La cosa freudiana e altri scritti, ed. it. Einaudi, Torino 1972.
• Edgar Allan Poe, La lettera rubata (The Purloined Letter), in I racconti, trad. it. di Giuseppe Sardelli, Feltrinelli, Milano 1971.
• Lev Tolstòj, Morte di Ivàn Ilíč (Smert’ Ivana Il’iča), in Quattro romanzi, trad. it. di Agostino Villa, Einaudi, Torino 1955.

[pubblicato in “Rifrazioni”, n. 12, Bologna, maggio 2013]