sabato 2 febbraio 2013

BRESSON – «Une femme douce» (1969)
Prima sequenza: il “volo a velo”...



Quadro fermo sul dettaglio di una porta a vetri. Al centro geometrico: la maniglia di ottone che permette di aprire. Nell’attesa, passi risuonano nella stanza, e una mano giunge a dare un senso alla maniglia. Lo sguardo subisce, di spalle, l’ingresso della donna, invece di cercarla frontalmente per ruotare con lei nello spazio. Da sinistra: il braccio della donna, una mano che preme verso il basso: la prima spaccatura della visione. Immobile, persistente. La porta viene aperta, la donna indugia, vi transita e poi si blocca. Il quadro stretto (camera fissa) è ora diviso in due dalla schiena massiccia: la testa è fuori campo in alto, le gambe fuoricampo in basso. La mole dell’abito scuro, sbarrato dalla croce obliqua delle bretelle, sembra notificare una preclusione. Invece la domestica riprende il movimento ed esce dal campo verso destra, restaurando la visibilità totale. Stacco. Il quadro, avanzato in ripresa di qualche metro, mostra ora il balcone, dove un dondolo oscilla a vuoto mentre un tavolo sbanda e poi cade, senza una ragione, crollando e facendo crollare un vaso di fiori. Il rumore incrementa il disagio dell’ellissi: omissione d’atto d’ufficio, omissione dell’accaduto. Quadro fisso e rumore protagonista: rumore del vaso, del tavolo, e poi – a suggerire l’idea disastrosa – la pugnalata feroce di una frenata d’auto sulla strada (invisibile)... Al contempo la donna rientra in campo, ancora da sinistra, e di nuovo si ferma, interdetta quanto lo spettatore. Altro stacco. Veduta esterna, con il balcone in alto. Soave, morbido, indicibilmente persuasivo, il volo-a-vela di uno scialle bianco che fluttua in aria contro il cielo, disegnando un aprile crudele quanto un suicidio, e lentamente perde quota. Il quadro è questa volta mobile, dacché, vacillando, asseconda il candore per mantenerlo al centro. E altre brucianti frenate sulla strada stridono in ossimoro, duramente, sfregando contro quest’immagine, tentando di sfregiarla con il suono, ma senza riuscirvi. Ultimo stacco. Due automobili ingombrano il quadro, ora orizzontale, e abbordano il marciapiede dopo le frenate. Sono inquadrate una dietro l’altra: al bianco dell’una si aggiunge il rosso dell’altra. Come a preannunciare un schiaffo bicromo sui nostri occhi esterrefatti, ossia quando la cinepresa, ruotando verso destra e seguendo le gambe (nuova sineddoche) degli automobilisti, raggiunge il corpo di una donna prona sul selciato: il bianco della camicetta, il rosso del rivolo di sangue. Prospettiva mantegnesca, ma due volte a rovescio: il corpo è veduto dal lato della testa, ed è prono invece che supino. Gli apostoli sono ritti in piedi, ma non se ne vedono che i piedi. Ugualmente a rovescio il tutto si spiega: la stanza, la domestica, il balcone, il tavolo che oscilla, la sciarpa che cade, le frenate... Una sciarada della tragedia, costruita su immagini parziali, frammentarie, spietatamente allusive e mai prensili, sui quadri di una non-rappresentazione... e su un tempo che è sempre in ritardo, su un affannoso inseguimento dell’accadere che vale come un fallito tentativo di salvataggio.

[in “Rifrazioni”, n. 7, 2011]