domenica 1 ottobre 2017

POEMA-OGGETTO E DINTORNI

POEMA-OGGETTO E DINTORNI
LA SCRITTURA COME “MOTORE” DELL’OPERA VISIVA



È noto che fu Peirce a parlare per primo di linguaggio dell’immagine, introducendo cosí l’idea (per i suoi contemporanei, alla fine XIX secolo, ancora abbastanza bizzarra) che le arti figurative debbano essere intese come modalità di semiosi comunicazionale, e dunque in qualche modo aprendo anche la strada alla possibilità di contami­na­zioni tra il loro linguaggio (iconico, per usare la terminologia peirciana) e il linguaggio simbolico per eccellenza, quello verbale. Parola-immagine: esperienze di ibridazione dei processi di comunicazione estetica che risalgono, a ben guardare, ad epoche remote, ma che – per quanto riguarda lo sperimentalismo del Novecento, capace di valorizzare appieno tale collaborazione semiotica – si possono riconoscere come attive a partire dall’ulti­ma grande operazione poetica di quel genio assoluto della letteratura francese che è Stéphane Mallarmé, con il suo poema intitolato Un coup de dés jamais n'abolira le hasard
Il percorso è lungo, e ha visto anche progressive accelerazioni sul piano della sperimentazione, sia sul versante di una “concretizzazione visiva” del testo poetico, come nelle parole in libertà futuriste e nelle Tavole parolibere di Filippo Tommaso Marinetti, sia su quello dell’acquisizione degli elementi alfabetico-verbali (grafematici) da parte dei maggiori esponenti del costruttivismo sovietico, Lazar El Lisickij e Aleksandr Rodčenko su tutti. Di tale percorso ho tuttavia scelto, per questa conversazione, una fase abbastanza recente, che sentiamo quasi come attuale benché sia ormai “storica”, ovvero quella in cui – una volta fatto il punto sulle conquiste del cosí detto concretismo poetico (mi riferisco ovviamente alla “poesia concreta” in senso stretto, che è un’espe­rien­za sviluppatasi tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, principalmente in due centri lontani da loro, il Brasile del Gruppo Noigandres e la Germania di Eugen Gomringer e dei suoi immediati seguaci) – si inizia a superare una barriera che fino ad allora non era mai stata superata, se non occasionalmente e in maniera non programmatica... Intendo riferirmi alla barriera della pagina, o comunque della superficie; nel senso che la poesia visuale mantiene fissa, per un lungo periodo, e gioco forza direi, la dimensione della pagina come conseguenza inevitabile al fatto che si tratti di scrittura. Se “visualizza” o “concretizza” la scrittura, essa lo fa trasformando la pagina da supporto occasionale di una linea di grafemi che può essere continua, come ad esempio nei codici a rotolo antichi – e che dunque la pagina, in quanto spazio rettangolare, accoglie solo per motivi di economia spaziale – in un supporto semioticamente e strutturalmente organizzato, tale da poter essere assimilato, almeno per certi aspetti, al supporto dell’opera pittorica, e quindi capace di trasformare la scrittura, proprio grazie a questa sua consistenza di luogo strutturale, in fatto anche visivo. A parte certi momenti assai particolari, la scrittura non perde la sua dimensione operativa essenziale, che consiste nel veicolare senso per mezzo di una codificazione della parola orale, dato che nel­l’ambito delle scritture fonetiche il segno grafico sulla pagina è solo traduzione visiva del suono della voce, ma va tuttavia a coniugarla con una fisicità nuova che consiste nella (nuova) capacità di produrre senso anche attraverso i codici linguistici dell’immagine. Pur rimanendo scrittura, la scrittura si fa altresí immagine, combinando momento visivo e momento simbolico-verbale; e per farlo deve realizzare una nuova strutturazione della pagina in quanto necessario presupposto (fisico supporto) della comunicazione visiva. Si tratta di una “pagina-quadro”, o anche di una “pagina-finestra”, muovendo dal senso che al termine “finestra” dà Leon Battista Alberti quando teorizza lo spazio pittorico come «uno rettangolo, di retti angoli, grande quanto io voglio, el quale reputo essere una finestra per donde io miri quello che quivi avrò dipinto» [De Pictura, 1435]. Matisse diceva che i quattro bordi del dipinto sono le parti piú importanti del medesimo, e che tutto ciò che c’è sul dipinto deve dipendere da essi. Questo è concepire il quadro come struttura, e questo è anche (piú o meno) il modo in cui la poesia visuale, da Mallarmé in avanti, intende la pagina.
Le esperienze di cui vi voglio parlare oggi, però, sono quelle che superano appunto questo limite del supporto piatto, anche nella sua nuova veste di tavola geometrica visuale, ovvero quelle che mettono in discussione il dato stesso della superficialità della scrittura. Non a caso ho fatto riferimento, per il titolo della mia relazione, alla nozione di “poema-oggetto”, estendendola, tuttavia, anche a un sorta di epilogo che verte su esperienze capaci di assorbire la scrittura all’interno di opere caratterizzate da forte fisicità tridimensionale, come nel caso nella maggior parte dei lavori della cosí detta Arte Povera, nei quali la scrittura viene appunto utilizzata come “materiale” per installazioni che hanno a che fare piú con la scultura che con la pittura, oppure che comunque si pongono il problema di un rapporto diretto con l’ambiente reale.
Tra gli anni Sessanta e i Settanta, che è grosso modo il periodo che ho preso in considerazione, abbiamo appunto una produzione di “poemi-ogget­to”, i quali possono essere definiti sostanzialmente come interventi di carattere verbo-visuale capaci di coniugare la scrittura con supporti e istanze visive che hanno tutte le caratteristiche dell’oggetto tridimensionale. Nei “poemi-ogget­to”, in un certo senso, è come se la scrittura venisse emancipata da quel vincolo che sembra derivare dalla sua natura stessa, il supporto superficiale, che nella sua veste di pagina rettangolare (fatta di righe poste una sopra l’altra) è sí un vincolo moderno, ma poi solo fino a un certo punto, dato che risale in verità al tardo Medioevo.

Passerei ad addurre esempi, e dunque a parlarvi di alcune tra quelle che secondo me sono le manifestazioni piú significative dell’evoluzione della verbo-visualità in chiave oggettuale. Inizio dai lavori di un artista molto interessante, ossia di un poeta visuale collocabile in una dimensione artistica piú ampia, che ha infatti ha realizzato anche opere che non prevedono il ricorso alla dimensione della parola, sempre utilizzando, tuttavia, la tecnica del collage. Non parrà un caso dunque – come ha già ironicamente osservato Angelo Maria Ripellino – che egli si chiami Jiři Kolař, se si tiene conto del fatto che la pronuncia del suo cognome in čeko (che è la lingua del suo Paese e della sua città, Praga) è quasi esattamente la stessa della parola che in francese indica la tecnica artistica in questione, cara ai dadaisti e anche a Matisse. Ripellino per altro, nella sua analisi critica del lavoro di Kolař, pubblicata in Saggi in forma di ballate [Einaudi, 1978], osserva compiaciuto come uno dei maggiori esponenti della prima avanguardia pittorica praghese, molto legato alla lezione di Braque e di Picasso, portasse anch’egli un nome quanto mai tendenzioso: Bohumil Kubišta.
Di Kolař desidero mostrarvi due opere che definire “poemi-oggetto” sarebbe forse un po’ troppo, ma che tuttavia procedono solerti nella direzione della messa in crisi del supporto superficiale. In esse la pagina, essendo stropicciata, viene infatti tradita nella sua neutralità e in qualche modo resa “corpo” oggettuale tridimensionale. Il primo lavoro, che è del 1962, si intitola Il poeta è un serpente, e sembra nascere dal recupero di un testo poetico precedentemente rifiutato e buttato nel cestino, in quanto probabilmente ritenuto fallimentare dal suo autore, un testo che però – una volta recuperato e riproposto con tutte le relative crepe e spiegazzature – va a ricavare nuova dignità espressiva proprio dal fatto di essere divenuto illeggibile, e di conseguenza si scopre interessante per un aspetto materiale (e visuale) che pertiene principalmente alla deformazione subita dal suo supporto cartaceo. Un fenomeno simile lo troviamo anche in Allegro, dello stesso 1962, benché qui ci sia qualcosa di ulteriore, dato che il foglio recuperato è uno spartito musicale, per cui il suo essere crepato e spiegazzato conferisce al testo che contiene un inedito “ritmo”, determinato dalla rottura della linearità ortogonale del pentagramma, la quale va cosí anche a suggerire nuove possibilità di “notazione” musicale. Quasi come se un Adagio (poniamo) del tutto inefficace, e perciò cestinato dal suo autore, potesse rivelarsi un ottimo Allegro una volta che il foglio è recuperato e riproposto con tutte le plateali sincopi visive dei danni che ha subíto.
Piú tardi, Kolař giungerà al “poema-oggetto” vero e proprio, mettendo definitivamente fuori causa la necessità della pagina: per esempio con questo lavoro che vedete, intitolato alquanto sardonicamente La mela (1970 ca.), nel quale la scrittura avvolge con le sue spire un piccolo oggetto tridimensionale della forma e delle dimensioni, appunto, di una mela. La scrittura ha dunque “coperto” un oggetto, e c’è il tentativo di ottenere effetti poetici da strutture espressive che hanno ancora a che fare con la poesia (proprio perché la scrittura c’è ancora) e tuttavia si affidano all’incanto di piccoli oggetti ricreati, che possono avere perfino valenza scultorea.
Ma è un grandissimo poeta italiano – relativamente poco conosciuto data la sua oggettiva importanza (ormai) storica – a produrre forse i primi “poemi-oggetto” in senso completo. Sto parlando di Emilio Villa, che da qualche anno inizia a emergere dalle nebbie della propria (in parte voluta) clandestinità, e, anche se non si può certo dire che sia oggi popolare (ma del resto il nostro è un Paese in cui sono popolari solo gli imbecilli, e dunque è meglio cosí... è meglio che non lo sia), comincia ad essere citato, indagato, antologizzato (entro certi limiti) e comunque studiato su riviste e libri specialistici. Coro della Schola Cantorum (1965 ca.) è collage tipografico su disco di vinile, e pertanto ricorda da vicino i Rotorilievi di Marcel Duchamp; si tratta tuttavia di un aggiornamento in chiave squisitamente poetica dell’idea originaria dell’artista francese, dato che per Duchamp quel che contava era l’illusione ottica data dalle curve rotanti sul piatto del grammofono, e dunque un effetto e una grammatica in grado di anticipare semmai le esperienze della Optical Art, mentre in Villa c’è piuttosto la riscoperta – attraverso la suggestione offerta dalla presenza (come supporto al testo verbale) dell’oggetto di riproduzione musicale per eccellenza, il disco di vinile – dell’im­plicita e fondativa dimensione musicale del “canto poetico”, relazionata non al mito di Orfeo, come forse sarebbe anche troppo banale e scontato, ma piuttosto alla sfera mistica del “canto gregoriano” medioevale, le cui litanie vengono da Villa riscritte in “controcanto”, ovvero nel dettato verbale di un francese quanto mai trasgressivo e perfino osceno. Il disco andrebbe montato su un giradischi per metterne in movimento il testo... naturalmente non si ode nulla, dato che il pick-up non va usato, ma “si vede”... e si vede di piú di quanto non si veda già cosí, a disco fermo, perché il carattere estroso della costruzione verbale (che è una decostruzione della forma della scrittura convenzionale) viene incrementato dalla rotazione e reso piú dinamico.
Le Idrologie, anch’esse del 1965-66, sono invece sfere di vetro piene d’acqua, quasi alambicchi alchemici all’in­terno dei quali fluttuano lettere alfabetiche e frammenti di testi che alludono a glosse misteriosofiche sul rapporto primordiale dell’ac­qua con la vita... Uteri marino-materni forse, opere di impervia decifrazione certamente, che tuttavia occorre segnalare per la nuova grammatica verbo-visuale che allestiscono, a partire dalla già sottolineata vistosa sostituzione della pagina con l’oggetto fisico e concreto, come locus novus della scrittura. Qualcuno ha parlato per Villa di “oggetti di poesia del futuro”, di una clandestinità di pensiero e di gesto che si pone esattamente come inadeguatezza assoluta rispetto al tempo in cui ha vissuto questo artista-poeta (e anche critico d’arte, linguista, biblista e grecista... a dirla tutta). Non v’ha dubbio, in effetti, che la sua opera attenda sempre e ancora di essere compresa, nonostante i bellissimi volumi che le sono stati dedicati da Aldo Tagliaferri nel 2004 [Il clandestino, DeriveApprodi, Roma] e da Cecilia Bello [Emilio Villa, l’opera poetica, L’Orma, Roma].
Vi propongo poi un lavoro di Mirella Bentivoglio, poetessa italiana abbastanza penalizzata, in quanto donna, dal fatto stesso di esserlo, e che tuttavia deve essere considerata una delle figure principali del panorama di cui ci stiamo occupando. Questo suo lavoro si intitola Poema oggetto: vita, è del 1968 e si avvale di una scrittura (la parola /vita/, appunto) realizzata con chiodi su tavoletta lignea (invece che inchiostro su carta, per intenderci). Volendo interpretare – o anche “sovra-interpretare” (dato che il rischio c’è sempre in questi casi) – si potrebbe ipotizzare che la durezza e crudeltà della materia del significante verbale (i grossi chiodi mal conficcati sulla tavola, che veicolano sensazioni di sofferenza, forse anche per via di rimandi subliminali a modi di tortura... e non voglio arrivare alla croce di Cristo, ma insomma: violenza e dura penetrazione, di certo) vada a predicare del significato della “vita” qualcosa che la semplice parola /vita/ non potrà mai dire; questo implicherebbe anche che la scelta poetico-oggettuale è stata fatta in modo da implementare le normali capacità semantiche della scrittura attraverso estensioni improprie, cosí rafforzando un assunto che sta alla base di tutta la tradizione verbo-visuale novecentesca, quello secondo cui la contaminazione tra i codici moltiplica la forza espressiva del testo.
Anche Arrigo Lora-Totino, grande sperimentatore di modalità inconsuete nel campo della poesia su carta o su tavola bidimensionale (in sostanza ottimo poeta concreto, si potrebbe dire), si è cimentato con forme di scrittura tridimensionale e oggettuale, come ad esempio in questo suo ée e éeilli, un lavoro che ugualmente si colloca intorno al 1968. Ma piú suggestivo e persuasivo ci appare oggi Lightitude (1970) di Mario Diacono, un “poema-oggetto” in cui la parola /lucen­tezza/ si illumina a mezzo di un interruttore, essendo formata di valvole elettriche che recano stampigliati i caratteri alfabetici della parola stessa, la quale trova in tal modo ulteriori facoltà di esprimere il significato (per altro immateriale e quasi astratto) a cui è dedita. E val la pena di notare come siano proprio significanti verbali a scarsissima vocazione referenziale (il discorso vale anche per Vita della Bentivoglio) ad essere piegati, per mezzo del meccanismo visivo, a farsi pressoché “mimetici” del concetto che veicolano... come se, appunto, la ricaduta cognitiva che la visualizzazione com­porta (la vista che coglie gli oggetti e non i concetti) potesse rendere piú forte la presa del linguaggio simbolico della parola sulla realtà fisica del mondo. Nel caso del lavoro di Diacono, che si può considerare degno seguace di Villa, vi è però anche la contro-tesi di tutto ciò. La scritta in effetti sparisce quando le valvole vengono accese, dato che la loro incandescenza rende invisibili i caratteri alfabetici, di modo che il realizzarsi fisico (e visivo) della “lightitude” coincide con l’impossibilità della sua descrizione verbale. Si tratta di un gioco che mette in discussione proprio il rapporto tra la nominazione di una cosa e la cosa in sé, ossia che sottopone a decostruzione critica l’arcaico e immarcescibile assunto filosofico che il linguaggio sia strumento di conoscenza della realtà. Un assunto che pare derivare addirittura dalla Bibbia, se è vero che nel Genesi Dio, dopo aver creato Adamo, lo invita a nominare ad uno a uno a tutti gli animali e gli oggetti già creati; e in questo modo gli consegna le chiavi dell’universo, gli dice: tu avrai la conoscenza, perché tu sai nominare, perché – solo tra tutti gli esseri viventi – possiedi il linguaggio; e si tratta, poi, dell’assunto che sta alla base dell’episteme dell’Occidente. In tal senso, mettere in discussione la possibilità di un rapporto efficace tra la cosa in sé e la possibilità della sua conoscenza attraverso la sua nominazione (noi sappiamo cos’è la luce perché ne possediamo il concetto, dunque perché il linguaggio lo elabora per noi, e dunque solo perché siamo in grado di dire “luce”) non è un giochino da bimbi, benché quasi come un giocattolo si presenti il lavoro di Diacono, ma piuttosto un’operazione che muove da una riflessione teorica profonda e importante.
Passando attraverso Ugo Carrega, Piccola Liguria, del 1970-71 (non lo commento per ragioni di tempo), andiamo a Kitasono Katué, che è un interessante poeta visuale giapponese, il quale, con il suo Plastic Poem, realizzato intorno al 1970, ci presenta una sorta origami verbo-visale. Ovviamente – come tutti gli origami – esso ha natura di oggetto ed è fatto di carta, e poiché la carta impiegata dall’artista proviene dal­l’am­bito della stampa (giornali o riviste), va da sé che si tratta di un “poema-oggetto”. Vediamo anche un bellissimo lavoro di Giulia Niccolai, Poema & Oggetto (1971 ca.), che presenta una macchina da scrivere – strumento fondamentale dell’attività poetica – sui cui rulli è stato reinserito un foglio di carta stropicciato (un po’ come quelli di Kolař) che reca la scritta /poema/. Da un lato è quasi una tautologia: c’è il poema in quanto c’è la parola che lo nomina, e c’è l’oggetto perché c’è la macchina che serve a scrivere i poemi; dall’altro si potrebbe supporre che vi sia stato in precedenza una sorta di simbolico pentimento operativo: il poeta voleva scrivere un poema fatto di parole su un foglio di carta A4, e dunque voleva realizzare un normale testo di poesia lineare, ma poi ha con rabbia strappato via il foglio dalla macchina – dopo aver scritto il titolo – e si è quindi reso conto che la relazione visiva tra quel foglio spiegazzato (con quella parola carica di promesse) e la macchina stessa poteva essere già in sé un’opera d’arte compiuta.
Molto suggestivo è secondo me uno dei primi lavori di Maurizio Nannucci, un artista che personalmente stimo molto. Egli realizza nel 1966 una specie di gioco per ragazzi, intitolandolo Poema idroitinerante: rosso, che è costituito, come vedete, da una scatola dai bassi bordi riempita con un velo d’acqua, sulla cui superficie galleggiano dieci biglie rosse di plastica. Ciascuna pallina mostra allo spettatore una lettera dell’alfabeto stampigliata sulla sua calotta superiore, e piú precisamente tutte le biglie insieme recano due volte le lettere che servono per scrivere la parola /rosso/ (due «r», quattro «o», quattro «s»). Come è facile intuire, il gioco consiste nel soffiare sulle palline spingendole ad accostarsi in modo tale da costruire la parola in questione, e giungere – per cosí dire – a “realizzare” il poema. Facile da intuire, ma pressoché impossibile da giocare… Si comprende bene, in effetti, che infinite sono le possibilità di elaborare il testo, che potrà assumere un qualunque lay-out sulla superficie del­l’acqua, e che sarà, oltre tutto, sempre estremamente precario nella propria struttura, già pronta a mutare non appena trovata; ma è chiaro, altresí, che tali possibilità sono solo teoriche, e che in pratica nessuno ci riuscirà mai, oppure ci riuscirà soltanto grazie un intervento miracoloso del caso. Tale testo in fieri è comunque qualcosa di fortemente “creativo” proprio in chiave visuale, essendovi in gioco la forma e il colore delle biglie, il loro movimento sull’acqua, l’in­terazione operativa tra opera e fruitore, il moto delle vibrazioni d’aria (soffiata) e i minuscoli fenomeni ondosi che ne derivano.
Tale lavoro giovanile di Maurizio Nannucci ci introduce ad altre opere di natura verbo-visuale dell’artista, in cui egli utilizza però la fotografia, e che dunque non sono esattamente “poemi-oggetto”, ma che io trovo assolutamente interessanti e anche assai pertinenti rispetto all’argomento di cui ci stiamo occupando. Ve ne mostrerò due. La prima si intitola Leggere, parlare, scrivere, ed è del 1973. Si tratta di una tavola fotografica riconducibile a una “performance”, la quale tuttavia è stata eseguita sostanzialmente per ottenere la fotografia, nella quale vediamo l’artista di spalle che tiene di fronte a sé un libro aperto (dalla parte della mano sinistra) e una sorta di blocco per appunti (sotto la mano destra): egli visibilmente si accinge a ricopiare sul blocco la scrittura a stampa del libro che sta leggendo... Nannucci stesso ha sempre tenuto a precisare che quello che per lui conta non è la “performance” in sé, bensí la tavola fotografica che ne ha ricavato. È bene distinguere con estrema nettezza quelle azioni performative che esistono come opere (solo) esattamente nel momento in cui vengono eseguite – il modello è in questo caso il teatro, dato che rispetto ad esse un’even­tuale “documentazione” audiovisiva, o anche fotografica, è solo indice di memoria – da quelle che vengono invece eseguite con il chiaro ed esplicito scopo di ottenere l’opera definitiva, che coincide proprio con l’audiovisivo che se ne ricava – e il modello sarà in questo caso il cinematografo. Ma in Leggere, parlare, scrivere, c’è una situazione ancora piú particolare, perché qui la fotografia funziona come una specie di scrittura, dato che essa sta al gesto dal vivo, di cui è “ricaduta grafica”, esattamente come la scrittura starebbe alla parola parlata. Il rapporto tra scrittura e parola parlata è però anche il tema dell’opera: il titolo ci dice infatti che nel testo fotografico c’è la scrittura (letta e scritta) – visivamente percepibile – e che c’è anche la voce, la parola dell’artista che legge ad alta voce – visivamente non percepibile. La fotografia “scrive” l’azione per intero, anche se (a differenza di come potrebbe fare un video) non può che restituire sensorialmente solo una parte dell’evento. E nel suo “scrivere” un’azione che ha a che fare con la scrittura, è chiaro che l’opera si fa momento di riflessione profonda sul rapporto tra la scrittura e l’immagine: la fotografia è appunto (infatti) immagine che scrive l’immagine della scrittura nel suo essere (in qualche misura e a sua volta) immagine della voce. Poesia visuale, dunque? Probabilmente sí, anche se decisamente al limite...
Altrettanto interessante, secondo me, è altro lavoro di Nannucci, sempre del 1973: Scrivere sull’acqua. Si tratta di un’opera capace di una “poeticità” miracolosa. Scrivere sull’acqua, lo sappiamo, è un’utopia; le parole scritte sull’acqua sono quelle che nessuno può leggere, sono quelle che sono già perdute nel momento stesso in cui vengono scritte. Ma la scrittura, sappiamo anche questo, è esattamente ciò che nasce, presso gli esseri umani, ad un certo punto della loro storia sulla terra, proprio per porre rimedio alla dispersione e alla precarietà della parola parlata («verba volant, scripta manent»)... Un grande poeta romantico, John Keats, fece scrivere sulla propria tomba «Qui giace uno il cui nome era scritto sull’acqua», e ovviamente lo fece scrivere, con profonda incisione definitiva, su una lapide del Cimitero degli Inglesi a Roma, non certo sul­l’ac­qua del Tevere che scorreva (e scorre tuttora) lí appresso... Nell’opera di Nannucci, che anche in questo caso prevede una “performance” propedeutica a un testo che è solo fotografico, un individuo tenta di tracciare dei caratteri alfabetici sulla superficie di uno stagno; è chiaro che man mano che il suo dito procede per dar forma al segno, l’acqua cancella – quasi istantaneamente – ciò che egli ha tracciato un attimo prima... Nessuna scrittura è possibile sull’acqua! A meno che un fotografo non scatti via via immagini di quelle (tentate e impossibili) azioni, cosí finendo per cogliere, in istantanea, il formarsi e l’esistere precarissimo dei segni alfabetici. Di fatto la fotografia – che anche in questo caso (e piú che mai in questo caso) si dà come modalità nuova di scrittura – riesce, almeno in parte, ad annullare la precarietà proverbiale della scrittura sull’acqua e a renderla possibile. L’immagine della scrittura impossibile diviene una scrittura possibile. E non è un caso che le sei tavole fotografiche del­l’o­pera (le sei istantanee del dito in azione) siano montate in una sorta di “polittico” che riprende – con la propria struttura ortogonale – esattamente la processualità consequenziale (da sinistra a destra e dall’alto in basso) della scrittura verbale. Cosí se la “scrittura acquatica” non sarà mai riducibile alla necessaria dimensione della pagina, perfettamente impaginata diviene viceversa la “scrittura fotografica” di quella scrittura e di quella pagina mancate. La fotografia tenta di “narrare” (lettera dopo lettera, riducendo la dimensione cronologica a dimensione spaziale, esattamente come fa la scrittura) l’azione di scrittura che c’è stata, di farci ricostruire – o quanto meno intuire – che cosa è stato scritto sull’acqua... Tenta, ma temo che non vi riesca... E la “poesia” di questo lavoro di Nunnucci sta proprio nel suo proporci quella scrittura fotografica come qualcosa di pragmatico e di utopistico in un sol tempo, poiché neanche la scrittura fotografica riesce a vincere la vocazione all’autodissolvimento che è prerogativa radicale dello scrivere sull’acqua... e pertanto nel suo proporci il desiderio come qualcosa di piú forte di qualsiasi ostacolo, l’idea di un tentativo (che è tentativo di conservazione, di memoria, di comprensione) messo in campo nonostante la piena consapevolezza del suo carattere fallimentare.

Concludiamo con alcuni esempi tratti dall’ambito dell’Arte Povera, nei quali si possono rinvenire interessanti occorrenze di un felice rapporto tra scrittura e oggetto artistico. Non possiamo qui parlare di “poemi-oggetto”, dato che l’ambi­to non è quello della poesia visiva, ma siamo comunque di fronte a modalità di espressione verbo-visuale declinate – per cosí dire – partendo dalla logica di arti plastiche (piú nei pressi della scultura che in quelli della pittura) che utilizzano elementi di linguaggio verbale quasi come se fossero materiali aggiuntivi. Ciò, precisamente nel contesto piú generale di quel tripudio di materiali insoliti, ossia tradizionalmente estranei alle attività estetiche, che caratterizza l’ultima importante stagione dell’avan­guardia artistica italiana. Si possono citare opere come Ping Pong di Alighiero Boetti (1966), in cui le due parole del titolo si accendono (rendendosi visibili) in modo alternato sul muro, a breve distanza l’una dall’altra e secondo un ritmo preciso, dando cosí luogo a una sorta di “ping pong” verbo-visuale. Oppure si possono ricordare molti dei lavori di Mario Merz (Sitin, del 1968, le varie versioni di Objet caché toi, dello stesso anno, o anche Città irreale, del 1969), tutti decisamente ispirati, nella loro ideazione, da quelle forme di scrittura luminosa che inglobano nelle proprie trame polimateriche, e che rendono operative anche in chiave sinestesica... In Sitin, ad esempio, la scritta al neon ha il compito anche di intiepidire lo strato di cera d’api su cui riposa, producendo l’esa­lazio­ne del forte profumo dolciastro della cera riscaldata, cosí che al segno iconico (visivo) dell’istallazione oggettuale vadano ad aggiungersi il segno simbolico (verbale) della scritta e perfino il segno (para)indexicale del profumo sprigionato.
Affascinanti sono ancora le opere di Pierpaolo Calzolari, che utilizza il ghiaccio artificiale (ossia le serpentine gelate dei frigoriferi) per comporre frasi nel­l’am­bito di istallazioni in cui le scritte stesse fanno la parte del leone, come Impazza angelo artista, Il mio letto cosí come deve essere, Un flauto dolce per farmi suonare, tutte del 1968. In esse la scrittura si dà in un sol tempo come dato materiale forte (il tubo della serpentina) e come evento fisico concreto a grande impatto visivo (la glaciazione della medesima). E c’è anche un piccolo capolavoro di Giovanni Anselmo che mi preme segnalarvi, Invisibile, del 1973, che come vedete (o forse non vedete, data l’invisibilità) è formato da un parallelepipedo di metallo che sembra essere stato spezzato in due, o meglio da due parallelepipedi di metallo che sembrano provenire da uno solo. Il sentimento di questa ambiguità tra il blocco unico e i due blocchi deriva direttamente dal rapporto che agisce tra il fatto che i due solidi hanno le basi identiche, allineate in perfetta continuità spaziale, e il fatto che su quello piú lungo, a destra, campeggia la scritta /visibile/. Naturalmente è il titolo (“invisibile”) che agisce ai fini di realizzare l’effetto: perché la distanza (il vuoto) che separa i due blocchi corrisponde esattamente allo spazio che occuperebbero i caratteri alfabetici del prefisso /in/ se ci fossero; e se quella porzione assente – che cosí però viene ad essere ugualmente letta! – ci fosse, ecco che la scritta /invisibile/ si farebbe (sul blocco unico) tautologia del titolo; benché sia poi proprio il fatto che il prefisso non c’è, e che dunque manchi un frammento, ovvero il fatto che i blocchi siano effettivamente due, a rendere realmente “invisibile” il prefisso. Volendosi accanire ulteriormente, si potrebbe ipotizzare che l’opera venga a sostenere che la parola /invisibile/ non potrà essere vista (e quindi nemmeno scritta) se non qualora sia preventivamente orbata di ciò che la renderebbe cosa “invisibile”, ovvero proprio quel prefisso “in” che non può far altro che precipitare nel nulla. Ma l’accanimento è necessario a comprendere un altro aspetto del lavoro in questione: e cioè che esso tratta la parola (la scrittura) come qualcosa di materiale, oltre che di simbolico, dato che è solo in una dimensione materiale, e non simbolica, che l’invisi­bile è ciò che “non si vede”. Contaminazione tra la parola e l’oggetto spinta ai massimi livelli, dunque, e materialità della scrittura presa “alla lettera” (per cosí dire, ossia per pasticciare fino in fondo con il linguaggio), e pertanto realizzazione trionfale delle ragioni di fondo che sostengono la logica del “poema-oggetto”. Il tutto poi, se si parla di logica, giunge a scatenare un paradosso gödeliano: visibilità e invisibilità giocano tra loro un gioco inestricabile di smentite reciproche e di ritorni pleonastici sul nulla che c’è da dire, per mezzo della parola, e che c’è da vedere, quanto al corpo della parola stessa e dell’oggetto che la comprende. Indecidibile, potrebbe essere allora il titolo (taciuto) di quest’opera.
Infine, ecco un lavoro di Gilberto Zorio che mi sembra degno di rappresentare l’epigrafe di questa chiacchierata: Odio (colpi d’ascia sul muro), 1969. Un’opera oggettuale che è al tempo stesso una performance, e della quale, infatti rimane oggi solo una foto di documentazione. Sul muro di una galleria d’arte Zorio ha espresso tutto il proprio odio (forse per la mercificazione degli oggetti estetici, forse in generale per l’umanità, forse per una persona particolare che non conosciamo, o forse anche solo per se stesso) scrivendo la parola /odio/ con un’ascia, ossia con l’unico attrezzo che può lasciare nel muro profonde ferite, in forma di caratteri alfabetici stravolti dall’ira, e che simultaneamente può rendere bene l’idea di violenza furiosa a cui il concetto di “odio” si lega. E anche qui siamo di fronte a una perfetta esaltazione della forma materiale della parola – che si spinge fino a farsi effetto fisico (e perfino istigazione operativa) del concetto che simbolicamente esprime – come realizzazione piena della poetica della verbo-visualità.

[pubblicato in in Aa.Vv., Verbovisioni, atti del convegno di Venezia 2015 (a cura di Riccardo Caldura), Mimesis, Milano 2017]




LA SCRITTURA DELL’IMMAGINE

LA SCRITTURA DELL’IMMAGINE

Riflessioni su un auspicabile progresso – nel rapporto tra parola e immagine – dall’immagine de-scritta all’immagine scritta, e sulla scrittura di Marcel Proust, dove la genialità di parola giunge a creare l’immagine dell’immagine (ovviamente) servendosi dell’immaginazione.


Io in questa sede scrivo di visioni – di cinema, di teatro, di pittura – e pertanto di immagini, ben sapendo la subalternità della parola (scritta, sopra tutto) all’immagine che va a descrivere, e conoscendo il fatto che un’immagine tutt’al piú si può de-scrivere e niente affatto scrivere. La scrittura storico-artistica, quella della critica d’arte, le scritture tutte della de-scrizione dell’immagine, si dànno nella migliore delle ipotesi come viatico alla conoscenza dell’oggetto di cui parlano, blande didascalie che servono a poco o a nulla, e (oppure) comunque servono, letteralmente servono, dato che sono all’immagine comple­tamente asservite.
Tale implacabile sottomissione, per non dire schiavitù, fu del resto ampiamente evidenziata da René Magritte, il quale mise sotto l’immagine di una pipa la dicitura “Ceci n’est pas une pipe”, e ottenne il risultato di suddividere il proprio pubblico in due opposte fazioni: il partito di coloro che pensavano che la frase è erronea perché l’immagine mostra esatta­mente una pipa, e quello di coloro che pensavano (e ancora pensano) che la frase sia veritiera, dato che non si tratta affatto di una pipa bensí (soltanto) dell’immagine di una pipa. I secondi (per quel che ne capisco assai piú stolti dei primi) si affannarono in séguito, onde avvalorar la tesi, a dichiarare che quell’immagine non scotta tra le dita, che non è fatta di radica e di bachelite, che non si può riempire di tabacco, che non si può fumare... ossia – in definitiva e per farla breve – sostennero con forza che non è affatto una pipa pur assomigliandole per certi aspetti non propriamente funzionali. Ma Santo Iddio, la questione era e rimase ostinatamente quella: la frase verbale, che nega che si tratti di una pipa, mente o dice il vero? E a nessuno transitò mai per il vestibolo anteriore o posteriore della più minuscola delle sinapsi neuroniche, neppure per un attimo, il mini­mo dubbio che potesse essere invece l’immagine a mentire... A nessuno, ripeto! Dico, nessuno che abbia mai provato a formulare il seguente ragionamento, politi­ca­mente assai corretto: un segno iconico esprime il concetto che c’è una pipa e nel mede­simo contesto un segno verbale nega che di pipa possa trattarsi, pertanto una delle due proposizioni è erronea (oppure, peggio, menzognera) e non abbiamo nessuno strumento, in base ai dati di cui disponiamo, per acclarare chi dei due stia dicendo il vero e chi il falso, chi sia in errore e chi no.
Il fatto è che la potenza eidetica (e referenziale) dell’immagine ha sempre la meglio sulla vaghezza simbolica (e astratta) della parola. E non c’è dunque da stupire della sudditanza psicologica che da sempre la seconda vive nei confronti della prima. Terreno di coltura di tale irreparabile secondarietà è il campo della critica d’arte e – fin dai tempi del Vasari – della storiografia artistica, dove la penna o la tastiera dell’autore saggistico per lo piú si dichiarano (quasi a-priori) incapaci di restituire pienamente ciò che l’immagine produce e acconciano il proprio testo al ruolo di glossa o di postilla, tutt’al piú di chiosa esplica­tiva, senza mai giungere a una scrittura vera (e a sua volta artistica) come cosí spesso succede alla critica letteraria, la quale riesce a porsi come scrittura dotata d’argomento ma senza patemi di inferiorità rispetto alla scrittura di cui parla.
Il massimo d’autonomia creativa fu raggiunto in Italia dalla formidabile scrittura di Roberto Longhi, capace quasi di competere con le immagini (i dipinti, per lo piú) che esaltava, e dunque due volte “scrittura d’arte”: per l’oggetto di cui tratta e per il modo con cui lo fa. Una qualità evocativa immensa, un accento sempre visionario, una caparbietà inventiva nel dar corpo visivo all’immagine per tramite verbale, un “dono divino” si potrebbe supporre, che lo sottrae ad ogni piatta didascalia filologica e sto­riografica, quan­do argomenta degli amati “primitivi” quattrocentisti, Piero e i veneziani, e del Caravaggio, e anche d’altre stagioni della pittura della grande tradizione, anche contro – io credo – quei seguaci i quali, difendendolo come storico e filologo, non solo non hanno saputo realmente coglierne e mostrarne la grandezza, ma hanno finito piuttosto con l’esporre il loro (pre­sunto) maestro a troppo facili ironie, e perfino a condanne senza appello, da parte di un mondo di accademici a cui egli mai appartenne e i suoi discepoli invece sí. Basterà leggere un passo dal Viatico per cinque secoli di pittura veneziana (1946), dove Longhi, premesso che il lavoro storico l’han già fatto i curatori della mostra che commenta, si lancia nella scrittura (“descrizione” sarebbe qui davvero un concetto riduttivo) della Pietà del Buonconsiglio che si trova al Museo di Vicenza: «L’accordo straziante tra la spoglia livida del Cristo, come corazzato dalla morte, e il picco immobile della Vergine impietrita che sovrasta i monti lontani; il funereo pennacchio e lo sterpo attoscato sulla roccia levata di quinta a stringere l’intarsio freddo e rigato del cielo dopo la tempesta d’autunno; i monti di verde lavato presso il borgo pallido; ogni cosa si rilega in una lettura netta e crudele, senza comparazione a quei tempi.». [ed. Sansoni, pp. 18-19]. Qui la parola dà prova di una capacità di ingiunzione di senso presso i caratteri for­mali di un testo pittorico che è “senza comparazione a quei tempi” (e non solo a quelli), benché facile sarà per un filologo dalle dita paralitiche osservare, ghignando, che la Pasqua di Resurrezione non cade propriamente in autunno. Ma – a marzo o in ottobre, o in qualunque altro periodo dell’anno – si potrà pur sempre cadere in ginocchio dinnanzi un altro brano dello stesso Viatico, dedicato questa volta al genio di Giovanni Bellini: «Uomo di meditazioni instancabili, mai pago di evocare l’antico, d’intendere il nuovo e di provarli, egli fu tutto quel che si dice: prima bizantino e gotico, poi mantegnesco e padovano, poi sulle tracce di Piero e di Antonello, in ultimo fin giorgionesco; eppure sempre lui, caldo sangue, alito accorato, accordo pieno e profondo tra l’uomo, le orme dell’uomo fattosi storia, e il manto della natura. Accordo fra le masse umane prominenti e le nubi alte, lontane, e cariche di sogni narrati; tra le chiostre dei monti e le absidi antiche, le grotte di pastori e le terrazze cittadine, le chiese color tortora del patriarcato e il chiuso delle greggi, le rocche medievali e le rocce friabili degli Euganei. Una calma che spazia fra i sentimenti eterni dell’uomo: cara bellezza, venerata religione, eterno spirito, vivo senso; e una pacificazione corale che fonde e sfuma i sentimenti, dall’alba di rosa al tramonto di viola, secondo l’ora del giorno.» [idem, pp. 15-16].
Ecco, in Longhi abbiamo l’esempio di una scrittura che tenta di vincere la partita sull’immagine, quasi ricreandola piuttosto che commentarla, e che sottilmente impone all’immagine – co­me per una nemesi o per un contrappasso – di farsi chiosa del testo scritto. Esito non dissimile da quello conseguito nella magnifica “poesia critica” di Emilio Villa, ad esempio nei testi ispirati alle opere di Alberto Burri, oggi raccolti in Pittura dell’ultimo giorno, che sono dotati di una potenza d’espressione tale da emozionare ed entusiasmare anche chi li leggesse senza aver mai visto un dipinto dell’autore a cui si riferiscono.
Tuttavia lo stupore che si prova dinnanzi a certe pagine della Recherche, dove Marcel Proust spalanca per noi l’estremismo della sua parola totalizzante, e dunque finalmente vittoriosa (anche) sulle immagini, al punto da farne dipendere l’esistenza da quella parola stessa, è qualcosa su cui bisognerebbe meditare con attenzione ancora piú devota. Corrono forse alla mente di chi mi sta leggendo le pagine intorno alla Veduta di Delft, memorabili per l’accanimento con cui la pittura di Johannes Vermeer è riformata e riformulata a mezzo di un approccio decisamente allucinogeno, che rinviene miracoli epifanici pressoché invisibili (in quanto non isolabili dal contesto) se si prescinde della loro proustiana re-iscri­zione: «Una piccola ala di muro gialla, di cui non si ricordava, era dipinta così bene da apparire, a guardarla isolatamente, simile ad una preziosa opera d’arte cinese, di una bellezza che basta a se stessa.». Ma si può intendere ben altro: ad esempio l’evoca­zione di opere visuali del tutto inesistenti e quindi letteralmente create da un testo verbale che le materializza dinnanzi all’occhio (interiore) del lettore, con una forza di persuasione e di definizione del dettaglio visivo che si direbbe quasi sovrannaturale, mostruosa secondo qualunque semiotica, tanto che è come se quelle immagini vivessero di una vita materiale ed effettiva, paragonabile a quella dei dipinti o delle sculture che effettivamente esistono e si vedono nei nostri musei. Due esempi: il lungo passo sul portale della chiesa di Balbec – forse una sintesi o una proiezione di portali medievali realmente presenti sul territorio normanno, o dell’Ile-de-France, o di Borgogna – che viene narrativamente trattato come referto di una lezione critica effettuata dal pittore Elstir a beneficio del Narratore, in A’ l’ombre des jeunes filles en fleur; o ancora il brano (nello stesso libro ma poco piú avanti) in cui è finta la descrizione, questa volta da parte del Narratore in persona, di un quadro meraviglioso dello stesso Elstir (una “marina” che rimanda a quelle normanne di Claude Monet). In quei luoghi – che mi paiono unici nella storia della letteratura e (perché no?) anche nella storia delle arti visive – la scrittura si fa davvero imago-poietica: piú potente dell’immagine sul terreno dell’im­ma­gine stessa, immaginifica nel significato piú profondo del termine.
«Come, – mi disse, – siete stato deluso da quel portale? Ma è la piú bella Bibbia istoriata che il popolo abbia mai potuto leggere. Quella Vergine e tutti i bassorilievi che ne raccontano la vita sono l’espressione piú tenera, piú ispirata, di quel lungo poema d’adora­zione e di lodi che il Medioevo svolse in gloria della Madonna. [...] L’idea di quel grande velo nel quale gli angeli portano il corpo della Vergine, troppo sacro perché usino toccarlo direttamente […]; nell’incontro fra la Vergine ed Elisabetta, il gesto di quest’ultima che tocca il seno di Maria e si meraviglia di sentirlo gonfio; e il braccio bendato della levatrice che non aveva voluto credere, senza toccare, all’Immacolata concezione […]; e, anche, quel velo che la Vergine si strappa dal seno per velare le nudità di suo figlio da un fianco del quale la Chiesa raccoglie il sangue, il liquore dell’Eucaristia, mentre, dall’altro lato, la Sinagoga, il cui regno è finito, ha gli occhi bendati, tiene uno scettro mezzo spezzato e si lascia sfuggire, con la corona che le cade dal capo, le tavole dell’antica Legge…» [Ed.it. Millenni Einaudi, I, pp. 907-908].
Ed è questo solo un breve spezzone di quel lungo resoconto su un’opera formidabile che in realtà non esiste (se non nelle pagine della Recherche) e che Proust – nel fingerla oggetto della parola critica di Elstir – ha inventato per noi tramite una vis immaginativa non inferiore a quelle di Gislebertus o del Maestro di Vézelay, i campioni assoluti della grande plastica medievale della Francia del Nord. Ma non meno impressionante è, come detto, l’ideazione delle opere di Elstir medesimo, che il Narratore, dotato di una sensibilità critica a sua volta non inferiore a quelle di un Ruskin o di un Warburg, fa nascere dinnanzi ai nostri occhi stupefatti come vivide e autenticamente straordinarie:
«Effettivamente, si sarebbero detti immensi archi rosa. Ma, dipinti in una giornata torrida, sembravano ridotti in polvere, volatilizzati dal calore, che aveva per metà bevuto il mare, quasi passato, in tutta la distesa della tela, allo stato gassoso. In quella giornata, in cui la luce aveva come distrutto la realtà, questa era concentrata in creature scure e trasparenti, che, per contrasto, davano un’impressione di vita piú forte, piú vicina: le ombre. Assetate di freschezza, disertando la maggior parte il mare aperto divampante, s’erano rifugiate ai piedi degli scogli, al riparo del sole; altre navigando lentamente sulle acque come delfini si attaccavano ai fianchi di barche da diporto, di cui allargavano lo scafo, sull’acqua pallida, col loro corpo terso turchino...» [idem, pp. 969-970].
Il Poeta si è fatto pittore, non c’è dubbio: un artista che dipinge con la parola. Di questi quadri inesistenti, che mi parrebbero appartenere di diritto alla storia della nostra tradizione artistica accanto alle tele di Monet o di Courbet che li hanno ispirati, la parola autrice ci ha restituito infatti la potenza espressiva, l’originalità linguistica, l’afflato sentimentale, l’anima luminosa, e anche una serie di altre mirabili qualità che nessun artista (in quei medesimi termini) ha mai potuto allestire, in oggetti fisici, per la gioia del nostro sguardo.

[pubblicato in in «Malacoda» [D], n. 4, Roma, 2016]

ADIEU AU LANGAGE di GODARD

A DIO IL LINGUAGGIO


Considerazioni iniziali e provvisorie su «Adieu au Langage» di Jean-Luc Godard, ultimo film dell’ottanta­quattrenne “enfant terrible” del cinema francese: per una puntualizzazione sulle possibilità espressive dell’arte dopo la caduta dell’illusione narrativa e ai fini di una critica delle forme di riproduzione ideologica del mondo spacciate per conoscenza del medesimo.


L’ennesimo “addio al linguaggio” che Jean-Luc Godard ha voluto proclamare con il suo piú recente film – uscito negli Stati Uniti il 29 ottobre 2014 e in Italia (solo in pochissime città) da qualche settimana – è probabilmente da intendere come il sunto e la conferma di quanto il lavoro del sempre giovane regista rivoluzionario francese ci ha insegnato in quarantacinque anni di vita, a partire da quel À bout de souffle (1959) che diede il via a un “respiro di invenzione” che non è mai venuto meno. E, fino all’ultimo respiro, si dovrà ribadire che il cinema di Godard si sviluppa facendo leva sulla necessità di un continuo ripensamento di se stesso, ossia su una riflessione profonda intorno alla speciale “produzione autoriale” che è il suo cinema in rapporto a ciò che l’autore è nel suo formarsi, se si forma – come il suo cinema stesso ci attesta – per mezzo di una cleptomaniaca fagocitazione di altri autori ed opere, non solo cinematografiche (letterarie, pittoriche, teatrali, musicali). Un ripensamento decisamente “critico”, nel senso piú alto e politico della parola, che trae vigore ed efficacia da acutissime modalità di incessante rielaborazione linguistica, grazie alle quali il testo – rigettando la fallace pretesa di una originalità ideologicamente romantica e ritenuta impossibile – macina e rimugina, scompone e riassembla e incessantemente ripropone materiali recuperati dall’imma­ginario collettivo e dai luoghi di comune sentimento di cui il cinema rappresenta (nella sua storia, breve ma intensa) il deposito ideale.
Mettendo a frutto in questo modo il principio del montaggio, che è la prerogativa originaria e per molti sensi “esclusiva” del mezzo cinematografico, vale a dire montando frammenti propri e altrui, delocalizzati dai testi originari o anche elaborati appositamente per interagire con quelli, ma sempre spostati in una sorta di “altrove” rispetto a una possibile successione logica, Godard riesce tuttavia a inserire forti componenti di lettura personale, di pensiero attivo e di vistosa coerenza stilistica (una coerenza che trasforma lo stile in contributo critico potente) tra le pieghe dell’ammasso di ridefinizioni, interpretazioni, riflessioni, aggiunte e commenti che si sovrappongono alla vasta congerie dei materiali montati.
L’addio al linguaggio è dunque per l’evangelista apocrifo della Nouvelle Vague il segno dichiarato di una sostanziale e profonda critica a quella “fiducia nel linguaggio” che l’età contemporanea può produrre solo come falsificazione ideologica: laddove per linguaggio essa intenda la possibilità di descrivere o narrare il mondo e le gesta degli umani che lo popolano, ovvero ove presuma che tutto ciò sia (ancora) narrabile. Non a caso l’ovvia, ma non per questo meno significativa, decifrazione della parola “addio” in “a dio” – che è esplicitata tra i titoli di testa della pellicola godardiana (à dieu le langage!) – rimanda direttamente a una condizione di pertinenza soprannaturale e dunque drasticamente illusoria (per un ateo, almeno) delle facoltà del linguaggio come rappresentazione logica e coerente di una possibile verità. Il che poi sembra potersi tradurre nell’as­sunto (di sconfitta, ma anche di positiva acquisizione di coscienza del limite che si fa occasione operativa) di Ludwig Wittgenstein: «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.» [Tractatus logico-philo­sophicus, 7].
Diciamo allora che il problema che Godard ci (ri)propone è quello degli spazi di sopravvivenza dell’arte come rappresentazione, dell’arte come conoscenza dell’oggetto-mondo; e il contributo che viene dal regista è tanto piú significativo (e perfino coraggiosamente fiducioso) se si accetta la tesi primaria che l’arte non può e non deve assumere carattere consolatorio. La vita stessa diventa vivibile solo se il caos che la domina – la sua irriducibilità a un pensiero logico abilitato a riconoscere in essa cause necessarie ed effetti conseguenti – è accolto come la condizione da cui l’arte muove, e di cui si nutre, per propiziare scintille di senso (senso estetico, innanzi tutto: ossia emozione pura) nel lungo percorso della perdita del senso che affligge lo sviluppo (o l’inviluppo) della cultura umana in generale. E c’è qui – nell’accettazione del fallimento di qualsiasi costruzione filosofica che pretenda di donare significato all’esistenza – qualcosa che riattualizza l’istanza di pensiero critico e negativo delle avanguardie artistiche novecentesche, che per Godard ancora additano a un luogo di salvezza (foss’anche utopistico) dinnanzi alla catastrofe incombente; e c’è ovviamente, sotto traccia ma in piena azione, l’idea benjaminiana di allegoria, come spostamento continuo dell’agire linguistico: dal piano della diretta narrazione a una sfera assai piú complessa di produzione del senso, per la quale il dire è sempre dire-altro, e per cui l’opera di linguaggio (l’opera d’arte) agisce non sull’oggetto di cui sembra parlare, ma su un contesto piú ampio che è fatto di allusioni ad altro “detto”, ad altre presupposizioni (illusorie), ad altre pretese di linguaggio (fallite); e in base alla quale, infine, il linguaggio parla sempre e soltanto di linguaggio: poiché – cosí facendo – dichiara che la vita stessa (il mondo stesso che viene significato) è nient’altro che quello che ancora Wittgenstein chiamava “un gioco linguistico”.
Ma prendere coscienza del gioco linguistico (o dei giochi linguistici) da cui è dominato il soggetto pensante (parlante, e perciò pensante) significa porre la sola base davvero solida da cui può muovere una critica efficace dell’esistente, poiché è il solo modo di propiziare uno svelamento necessario del falso di cui siamo circondati. E se da un lato ciò è quanto consente di riconoscere – in sede di critica estetica – la mistificazione posta in atto dall’arte di consumo, di consolazione e di intrattenimento, dall’altro ciò si pone come la sola possibile ragion d’essere (il solo grande scopo) di un’arte degna di essere praticata. Secondo Godard.

[pubblicato in «9 Novae» [D], n. 3, Roma, 2015]