domenica 26 settembre 2010

EROS E CORRUZIONE


Sandro Sproccati
Eros e corruzione. Un saggio di Baudelaire su Laclos

(pubblicato in «Corposcritto», n.2, Bari, 2002)



Le savant qui lui fait de l’or n’a jamais pu 
de son être extirper l’élément corrompu...


Il motivo della “corruzione” accampa all’interno delle Fleurs du Mal diritti di cittadinanza mai rivendicati prima con tanta forza nella poesia europea. Le sue figure (metaforiche e metonimiche) e le sue varie declinazioni morali, teorico-religiose, persino chimico-biologiche, si ergono pressoché a ogni pagina del testo, ricollegandosi per lo piú ai due luoghi tra loro contigui del desiderio represso e del tempo che trasforma (in negativo, cioè nella direzione del “male”) un originario e perciò mitico “stato di grazia”. Tant’è. In Baudelaire il positivo è sempre altrove (nel tempo) ossia è sempre in un prima, in un passato che viene sentito e descritto come irrecuperabile, che per definizione è “mitico”, giacché inattingibile se non tramite un ricordo forzato e illusivo, e il cui desiderio inappagato (inappagabile) genera lo spleen, il sentimento sinistro della malinconia[1]. Infatti, a ben guardare, il passato è sempre e solo l’infanzia: l’unico luogo in cui la felicità è data, ma altresí lo stadio in cui l’individuo non è ancora in grado di darsi (ossia di dirsi) come tale, di pronunciare la parola che lo istituisce — anche a causa di quell’intima unione con il corpo della madre che per Baudelaire è il fondamento stesso di ogni piacere. In quel luogo, la non-parola, l’impossibilità del linguaggio, essendo risvolto dell’incompiuto grado di maturazione della coscienza, agisce come garanzia della presenza del “bene” e non di meno della sua inconsistenza in sede percettiva. Si tratta, infine, del medesimo rapporto che intrattengono tra loro il mithos e il lógos agli albori della storia, o del modo in cui il lógos — nella storia — vive il mithos che ha superato. Il che significa che all’io in quanto tale, ossia all’io-pensiero e all’io-linguaggio, non è concesso altro rapporto con il bene se non nel desiderio frustrato e nel ricordo mitico.
Bene è in Baudelaire la “madre dei ricordi”, la compagna originaria che l’eros adulto cerca disperatamente in ogni amante attuale (“Mère des souvenirs, maîtresse des maîtresses”) e la cui reviviscenza potrà avverarsi solo nell’utopia della rigenerazione dopo la morte: nella riemersione, dunque, “d’un gouffre interdit à nos sondes”, e pressoché junghianamente “comme montent au ciel les soleils rajeunis / après s’être lavés au fond des mers profondes” (Le Balcon)[2]. Si legge infatti in un passo di Jung che tra le analogie dell’utero materno vi è “il mare nel quale il sole si inabissa per rinascere”, e che l’immagine esprime

l’anelito a pervenire alla rinascita attraverso il ritorno all’utero materno, cioè a divenire immortale come il sole. [...] Specialmente il mito solare mostra che il desiderio ‘incestuoso’ si basa non tanto sulla coabitazione quanto sull’idea singolare di ridiventare bambino, di ritornare sotto la protezione dei genitori, di rientrare nella madre per essere nuovamente partorito da lei (Jung 1952, trad.it.: 212-213 e 224).

E del resto, sempre in Le Balcon, il poeta formula, alla “madre dei ricordi”, una domanda che traduce l’edipismo latente in acclarato disegno incestuoso: “Car à quoi bon chercher tes beautés langoureuses / ailleurs qu’en ton cher corps et qu’en ton cœur si doux?”[3].
Inevitabile, allora, che il ricordo stesso si renda fallace e fraudolento (“Je sais l’art d’évoquer les minutes heureuses”[4], si noti: l’arte), o quanto meno proiezione allucinata di un desiderio cui è dato conoscere solo per via utopica l’oggetto che desidera:

J’aime le souvenir de ces époques nues,
dont Phœbus se plaisait à dorer les statues.
Alors l’homme et la femme en leur agilité
jouissaient sans mensonge et sans anxieté[5].

Gioia immemorabile, ricordo che non può essere tale se non in senso mitico-archetipico, che assume infine una “costituzione ontologica”, tale da produrre l’identificazione del poeta con esso:

J’ai plus de souvenirs que si j’avais mille ans.
Un gros meuble à tiroirs encombré de bilans,
de vers, de billets doux, de procès, de romances,
avec de lourds cheveux roulés dans des quittances,
cache moins de secrets que mon triste cerveau.
              (Spleen)[6]

Voglio dire che se in Baudelaire il ricordo è sempre (e quasi per definizione) “millenario”, quindi nasce dallo sforzo di sentire come mnemonico e infinitamente desiderabile ciò che non può essere ricordato, tutto questo è dovuto al suo agire sulla psiche con l’effetto di una epifania, nella quale desiderio (dell’infanzia, dell’incesto) e archetipo mitico si sovrappongono.
Il cosí detto “progresso” (anch’esso mito, e piú che mai falso mito dell’epoca di Baudelaire) è nient’altro che il progressivo allontanamento da un bene primigenio[7], dallo stato di grazia infantile (che è infanzia dell’umanità, in questo caso). E tutto ciò che cambia — allorché “tutto cambia sempre” per legge ineludibile (e “la forme d’une ville / change plus vite, hélas, que le cœur d’un mortel”[8]) — non fa che corrompersi: come nella Parigi di Le Cigne, nella quale l’uccello, “avec ses gestes fous / comme les exilés, ridicule et sublime”[9], assiste (disperato) al degrado del suo antico ambiente vitale. Ma è perfino il soggetto desiderante e nostalgico, l’io che parla e che invoca il ricordo, e che riesce a vedere il carattere degenerativo del tempo, a farsi emissario della corruzione — forse per ripicca dinnanzi alla propria impotenza, forse perché tale è il destino di chi partecipa al tempo e non può sottrarvisi in alcun modo, in quanto essere vivente. Cosí per punire “l’insolence de la Nature” il mostro pervertito orina “sur une fleur”, cosí l’amante tradito nelle attese (che sono quelle di chi attende invano dall’amore il regresso benefico verso il corpo materno) insinua il proprio “veleno” nel fianco o ferita della donna amata-odiata:

Ainsi je voudrais, une nuit,
quand l’heure des voluptés sonne,
vers les trésors de ta personne,
comme un lâche, ramper sans bruit,

pour châtier ta chair joyeuse,
pour meurtrir ton sein pardonné,
et faire à ton flanc étonné
une blessure large et creuse,

et, vertigineuse douceur!
à travers ces lèvres nouvelles,
plus éclatantes et plus belles,
t’infuser mon venin, ma sœur!
    (À celle qui est trop gaie)[10].

Il veleno-sperma come il veleno-orina: sicché è proprio il pene, lo strumento e il principio della continuità vitale, a ergersi solenne come il vessillo della corruzione incarnata!

Corruzione e sessualità sono elementi strettamente interconnessi nella poesia di Baudelaire. E d’altra parte il tempo corruttore gioca la partita dell’incessante trasformazione (come allontanamento progressivo dall’origine) avvalendosi della sessualità, cioè del meccanismo che assicura la vita. In tal modo, è ancóra il desiderio (erotico) che finisce per corrompere e per essere corrotto, e nulla si salva dallo sfacelo, nemmeno quel moto psicologico (desiderio —> ricordo mitico) che opera per contrastarlo. Innumerevoli sono gli esempi della centralità del plesso eros-corruzione nelle Fleurs du Mal, e superfluo sarebbe qui citarne taluni. Ma una cosa va detta, ed è che l’interesse sviluppato da Baudelaire nei riguardi del capolavoro di Choderlos de Laclos — proprio in prossimità della prima pubblicazione delle Fleurs — si spiega esattamente in tale chiave. Nelle lettere spedite all’editore Poulet-Malassis tra la fine del 1856 e il marzo del 1857 si trovano molteplici allusioni a un saggio destinato a non essere mai compiuto, ma che sembra potersi ugualmente annoverare fra i piú importanti progetti del poeta francese: uno studio, da realizzarsi in poco tempo, sulle Liaisons dangereuses[11]. Intorno a ciò, infatti, il corpus degli scritti baudelairiani offre una sezione non irrisoria di appunti e idee (Baudelaire 1976, II: 65-75).
Nel libro di Laclos il nesso eros-corruzione è descritto in tre figure principali, ciascuna assegnabile al rapporto che si instaura tra due personaggi: corruzione della virtú (Valmont-Tourvel), corruzione dell’innocenza (Valmont-Volanges), corruzione dell’amore (Merteuil-Valmont). Le prime due figure, tuttavia, sono per cosí dire comprese e riassunte nella terza, che tutto domina: esattamente come il visconte di Valmont (attore delle prime due) è in buona sostanza oggetto di dominio (e non è che uno strumento, quasi un giocattolo nelle mani) del vero demonio del libro, la sorgente stessa della corruzione, la marchesa di Merteuil. A costei (Baudelaire: “qui, come nella vita, la palma della perversione rimane alla donna”, ivi: 69) sarà destinata la punizione piú aspra — e non a caso una pena “teologica”: il vaiolo, il morbo che ribalta all’esterno l’orrore dell’anima rendendolo manifesto — perché è precisamente lei che, contaminando l’amore, si rende colpevole della perdita di ogni bene: dell’innocenza come della virtú.
Lo schema ideato da Laclos è ammirevole, anche se non perfettamente simmetrico (e proprio in ciò sta la sua eccellenza). Valmont — che è giusto sospettare fin dall’inizio come un “prodotto” della Merteuil, una sua proiezione al maschile, il fallo di cui ella ha bisogno per l’esercizio della corruzione (“poiché Valmont è prima di tutto un vanitoso, egli è infatti generoso tutte le volte che non si tratta di donne e del suo prestigio”, annota Baudelaire, ivi: 69) — agisce in due direzioni: inquina l’infanzia di Cecilia Volanges e annienta la rettitudine di Madame Tourvel. Nel primo caso non fa che eseguire un esplicito mandato della Merteuil, che intende vendicarsi in tal modo di un torto patito dal promesso sposo della fanciulla, un non piú giovane signore in cerca di moglie illibata e ingenua. Certo la condotta di Valmont è esecrabile:

Proprio cosí: le ho insegnato ogni cosa, non escluse le raffinatezze, ho tralasciato solo il capitolo delle precauzioni (Choderlos de Laclos 1782, trad.it.: 407, Lettera CX). Come se fosse meno di niente il rapire in una sera sola una ragazza [...], il farne tutto l’uso che si vuole come si trattasse di cosa propria e senza la minima resistenza, l’ottenere infine da lei ciò che non si osa pretendere nemmeno da una sgualdrina di mestiere... (Ivi: 424, Lettera CXV).

ma l’idea di guastare l’innocenza di Cecilia non è sua, e d’altra parte solo con una certa riluttanza, e dopo molte tergiversazioni, egli si dispone a farlo. Nel secondo caso, Valmont agisce per una volta — e di sua libera iniziativa — nella direzione dell’amore: allorché si innamora (di fatto, e sia pure senza ammetterlo) di Madame Tourvel. Egli ne distrugge sí la virtú, la lealtà coniugale e la fede religiosa, ma lo fa (a ben vedere) spinto da una causa moralmente apprezzabile, il proprio entusiasmo, e ciò non dà luogo ancóra a vera corruzione. Solo quando Valmont deciderà di abbandonare la Tourvel, riassumendo presso di lei il ghigno del libertino impenitente e la cupa allegria del traditore, solo quando le metterà innanzi la propria perfidia e la rivelazione abominevole della frode subíta, solo allora la corruzione avrà riscosso un pieno trionfo. Ma — appunto — non già grazie alla relazione (in sé) tra Valmont e la Tourvel, quanto piuttosto per quella tra la Merteuil e Valmont, dato che è solo la pressione esercitata dalla marchesa sul visconte (con la minaccia del ridicolo, il grande spauracchio dell’alta società francese del XVIII secolo) a produrre il raggiro dell’amore e la sua completa disfatta. Vittime ne divengono in un sol colpo il seduttore, che rinuncia alla propria passione e si riveste di cinismo, e la sedotta, che crede di aver perduto la virtú a causa di un inganno ignobile, di essersi donata a un lestofante. Gli stessi atti compiuti materialmente dalla Tourvel (“è mia, tutta mia, e da ieri non ha piú nulla da concedermi”, ivi: 453, Lettera CXXV) sono la santificazione dell’amore, quando ella è ancóra persuasa di aver fatto la felicità del visconte, poi l’osceno crimine che la dannerà in eterno, quando le viene rivelata la truffa. Come dire che il momento in cui si scatena la violenza della corruzione coincide non con la lunga fase della conquista, persino commovente nel suo sviluppo, ma con l’atto brutale e secco dell’abbandono. E poiché nelle Liaisons dangereuses è sempre la scrittura ad agire, qui (a ulteriore dimostrazione di dove si situi il vero sicario del male) è una lettera della marchesa — un “modello di stile epistolare” (ivi: 514, Lettera CXLI) — a venir ricopiata e spedita dal visconte alla propria martire (ivi: 518, Lettera CXLII).
Val la pena di osservare, quasi in limine, che il libro di Laclos è doppiamente un “romanzo epistolare”, che lo è — intendo — in due sensi diversi: giacché, in primis, appartiene al suo genere (assai diffuso all’epoca) e questo è niente piú che un dato pleonastico; poi perché fa di tale appartenenza la propria forza, la propria impressionante originalità. Nelle Liaisons dangereuses le lettere non sono soltanto il mezzo attraverso cui il lettore prende coscienza dei fatti, esse sono piuttosto (e prima ancóra) la causa dei fatti, il luogo in cui i fatti vengono progettati, messi in opera, portati a compimento, e infine il luogo in cui vengono analizzati e riempiti di senso. La scrittura è lo strumento impiegato dai protagonisti per agire, è il medium attraverso cui lavora la seduzione, e di conseguenza la corruzione, grazie a cui si esercitano gli influssi reciproci e le mutazioni psicologiche, le liaisons insomma... Dalle lettere parte ogni azione e ogni azione non è che il risultato di una lettera; dalle lettere (delle vittime) i protagonisti attivi traggono deduzioni per stabilire la via delle proprie successive mosse, le quali si concretizzano in nuove lettere capaci, a loro volta, di produrre vittime. E cosí la scrittura dispiega in magnificenza il proprio potere assoluto, all’incirca come l’Illuminismo (la scrittura, sempre) si accinge a riversarsi in piú grande prevaricazione e in rinnovata barbarie.
A corollario dei tre vincoli principali, un poco decentrata rispetto ad essi, è la vicenda (minore) del rapporto Merteuil-Danceny, che vede il giovane cavaliere, già innamorato della tenera Volanges, distolto dalla propria devozione e sedotto dalla marchesa. E’ questo, in effetti, il solo atto di malvagità cui la Merteuil partecipi in prima persona e materialmente. Ma è un diversivo, un episodio di secondo piano. Nell’economia del libro è tuttavia ciò che diverrà utile al male perché il male possa realizzarsi fino in fondo. Cosí a questo episodio si aggrapperà, in epilogo, il desiderio di rivalsa del visconte — che nel frattempo ha ottenuto la tanto paventata taccia di ridicolo[12] in premio al sacrificio dell’amore — quando deciderà di distruggere la Merteuil ben sapendo che, in tal modo, rovinerà anche se stesso. In sostanza, il visconte riesce a sottrarre Danceny dal letto della marchesa con gli argomenti che ogni libertino ben conosce:

Caro amico, mi pare che anche coi vostri nuovi principii (che, sia detto tra noi, sono anche i miei) le circostanze mi indurrebbero a scegliere l’amante piú giovane [ossia Cecilia Volanges]. Anzitutto è una di piú [rispetto alla Merteuil]; poi è nuova; poi avrei paura di perdere il frutto della lunga corte che le avete fatta, trascurando di coglierla adesso che è matura. [...] Che cosa arrischiate, invece, dall’altra parte [quella della Merteuil]? Nemmeno una vera e propria rottura. Tutt’al piú un piccolo bisticcio, nel quale, con un po’ di abilità, c’è sempre modo di pescare un piacere di piú, quello di fare la pace (Choderlos de Laclos 1782, trad.it.: 558, Lettera CLV).

E la marchesa súbito restituisce la botta, rivelando a Danceny l’uso che il visconte ha fatto — proprio presso la piccola Volanges — della fiducia che questi gli aveva accordata, ma omettendo di citare la parte da lei avuta, e spingendo quindi il fervido cavaliere a intentare contro Valmont un duello mortale.
Le cause del dissidio tra Valmont e la Merteuil, che porteranno al duello, poi alla morte e al testamento rivelatorio di Valmont, costituiscono probabilmente il tema psicologico piú forte del libro. Baudelaire vi dedica una sezione di appunti (intitolata Intrigo) assai perspicace ma laconica:

Come giunge il dissidio tra Valmont e la Merteuil. — Perché doveva giungere. — La Merteuil ha ucciso la Tourvel. — Ella non ne vuole piú sapere di Valmont. — Valmont è uno zimbello. Egli dice alla sua morte che rimpiange la Tourvel, e di averla sacrificata. Egli non l’ha sacrificata se non al suo Dio, alla sua vanità, alla sua gloria, e la Merteuil glielo sottolinea cinicamente, dopo aver ottenuto il sacrificio (Baudelaire 1976, II: 70).

Dopo aver ottenuto il sacrificio, precisamente! Che c’è, infatti, di piú crudele del far ricadere la responsabilità di una perdita (di un lutto spaventoso — “la Merteuil ha ucciso la Tourvel”) su colui il quale la patisce? Il cinismo della marchesa sottolinea la debolezza del visconte (quella medesima debolezza che le ha permesso di raggirarlo) come una colpa...
Baudelaire commenta l’epilogo — in cui si scopre tutta la malvagità della marchesa e l’illimitata ampiezza della catastrofe: la Tourvel morta di dolore, Valmont ucciso da Danceny, Danceny esule e fuggiasco, Cecilia Volanges autorelegata in un convento di clausura, la Merteuil stessa additata al pubblico abominio e sfigurata dal vaiolo — parlando di scioglimento (dénouement):

E’ il dissidio tra questi due scellerati [il visconte e la marchesa] che porta allo scioglimento. Le critiche fatte sullo scioglimento relativo alla Merteuil (ivi: 71)

Ma qui, con questo termine, si indica di piú della necessaria conclusione di un romanzo (classico), si va ben oltre l’idea che in qualche misura le vicende narrate trovino una sintesi unitaria e pacificante, la quale fornisca (magari anche) ciò che banalmente si dice una “morale”, un senso complessivo a uso benefico del lettore. Il dénouement di cui parla Baudelaire dovrebbe essere infatti, per questo libro, piuttosto un dénudement. So bene che le due parole non hanno in francese alcuna parentela, ma la stessa (mera e casuale?) somiglianza fonetica potrebbe venir adeguatamente impugnata per ribadire la qualità specifica dell’epilogo delle Liaisons dangereuses. Giacché è proprio il motivo della “messa a nudo” (delle tresche e dei patti criminosi, cosí come dell’anima nera della Merteuil) a costituire il significato ultimo dello scioglimento. E, già che ci siamo, invochiamo ancóra il termine (questa volta etimologicamente congruo) di dénuement, che si potrebbe tradurre in italiano come lo squallore che fa séguito a una spogliazione, a una “messa a nudo”: niente di diverso dalla desolazione che tutti possono riconoscere, alla fine, dietro le squisite ricercatezze e i falsi splendori della marchesa, e altresí dietro le ricercatezze e i falsi splendori della vita di corte del Settecento.
Il concetto di nudità, che sta pure alla base del sostantivo “rivelazione”, acquista un significato decisamente positivo, poiché innesca la condanna morale della “maschera” (il velo che finalmente viene strappato), ossia dell’ipocrisia che occulta la verità. Le “età nude” sono in Baudelaire quelle in cui non agisce la menzogna, lo sappiamo, e forse il loro ricordo le rende ancóra plausibili. In definitiva, il denudamento è il lampo grazie a cui la verità si svela (o si rivela, che è lo stesso), cosí come il vaiolo — forma estrema e feroce di dénudement e insieme causa di dénuement — snuda con un devastante colpo di scure l’effigie autentica della Merteuil. Il deus-ex-machina del male è finalmente a tutti noto, giacché, come nelle medioevali allegorie della lussuria, dietro lo stupendo vólto e il corpo invitante della marchesa (di cui Valmont, da buon fedele, si dice pronto a rinnovare il culto in ogni lettera) appare ora l’effetto del peccato medesimo, della malattia piú terribile, la lussuria fatta sintomo patologico, la corruzione della carne che annuncia il male dei mali, la morte:

Il destino della signora Merteuil sembra ormai compiuto. [...] Sarebbe stata una gran fortuna per lei se fosse morta di vaiolo! Invece ne è guarita, ma il suo vólto ne è rimasto orrendamente devastato, e tra l’altro vi ha perduto anche un occhio. [...] La marchesa S., che non si lascia sfuggire occasione per dire qualche malignità, parlando di lei ha detto ieri sera che la malattia l’ha rovesciata, sí che adesso ella ha l’anima al posto del viso (Choderlos de Laclos 1782, trad.it.: 603-604, Lettera CLXXV).

Ma quali sono per Baudelaire “le critiche fatte sullo scioglimento relativo alla Merteuil”? Fatte da chi? — innanzi tutto. Nulla vieta di pensare, dato lo “stile” degli appunti in questione, che il riferimento vada piuttosto a certe critiche da farsi (cioè: già fatte, magari mentalmente, dall’autore degli appunti, e dunque da riprendere e sviluppare nel saggio progettato). Eppure la costruzione ideata da Laclos, per quanto concerne questa parte del suo libro, è inesorabilmente perfetta: il piano fisico (del male come morbo del corpo) raddoppia impeccabilmente il piano spirituale (del male come morbo dell’anima); e la Merteuil riceve da Dio, sul primo piano, il suggello di ciò che Satana le ha imposto sul secondo... dopo che ella gli ha venduto l’anima. Gli ha venduto l’anima, infatti: qui è il punto. In una lunga lettera a Valmont, la marchesa trova il modo di ricapitolare (per il lettore) la propria vita e il significato che ha voluto darle (ivi: 269-285, Lettera LXXXI). Ebbene si tratta — spiega — di un’impresa assai nobile, “politica” diremmo oggi, che asseconda un desiderio di affrancamento; si tratta cioè di redimere, in qualche modo, la donna, con i mezzi di una superiore intelligenza, dal ruolo subalterno, quasi da vittima predestinata, che la società (cristiana) le ha assegnato. Vendicare tutte le donne — per mezzo di una prolungata vendetta personale — dei torti subíti da tutti gli uomini! Ma una simile pretesa è demoniaca, per la morale corrente; ed è anche peggio che demoniaca, è semplicemente intollerabile, se essa mira (come mira) a scardinare le basi su cui è costruita la società.
Il punto di vista di Laclos è cattolico, e non potrebbe essere altrimenti. Anche il punto di vista di Baudelaire lo è. Il concetto di corruzione (corruzione della carne = corruzione dello spirito) e il tema stesso dell’inscindibile rapporto tra eros e corruzione, cosí come vengono analizzati da entrambi gli scrittori, non avrebbero patria in una cultura esente da retaggi cristiani. Persino la morte — in questa prospettiva — ha l’ambivalenza che le spetta: di destino provvisorio, di preludio alla felicità, e insieme di insulto estremo, da condannare come un peccato mortale (appunto). In Baudelaire la morte si qualifica come inevitabile guado per il conseguimento di un “nuovo” che è assolutamente ambiguo:

Ô Mort, vieux capitaine, il est temps! levons l’ancre!
Ce pays nous ennuie, ô Mort! Appareillons!
[...]
Nous voulons, tant ce feu nous brûle le cerveau,
plonger au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu’importe?
Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau!
              (Le Voyage)[13].

Per Laclos la morte è catastrofe e palingenesi in un sol tempo. E’ catastrofe perché è il prodotto estremo del male operante sulla terra, il risultato delle trame dei malvagi. Ma è anche redenzione, se è vero che la Tourvel muore per aver amato e se è vero che cerca la propria morte come una liberazione dal male. Ed è ancóra redenzione se è vero che Valmont trova nella morte il proprio riscatto: egli perdona Danceny — vale a dire colui che la morte gli ha procurato — e, nell’affidargli il testamento, lo scongiura di rendere noto il suo amore per la Tourvel, quasi cercando in esso, in quell’amore che non ha saputo difendere dal male, il perdono estremo di Dio e degli uomini.
Amore e morte, dunque, per Valmont e per la Tourvel: Tristano e Isotta in nuove vesti! La marchesa di Merteuil, invece, non muore affatto. La sua anima e il suo corpo, già decomposti, sono condannati al peggiore dei supplizi, e “sarebbe stata una gran fortuna per lei se fosse morta di vaiolo! Invece ne è guarita”.




RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Bataille Georges (1957). La letteratura e il male, trad.it. A.Zanzotto, Rizzoli, Milano 1973.
Baudelaire Charles (1857-1861). I fiori del male, trad.it. L.De Nardis, Neri Pozza, Venezia 1961.
— (1976). Oeuvres complètes, 2 volumi, a cura di C.Pichois, Gallimard, Paris.
— (1980). Lettere, 3 volumi, a cura di C.Pichois, trad.it. AA.VV., Cappelli, Bologna 1983.
Choderlos de Laclos Pierre-Ambroise-François (1782). Amicizie pericolose, trad.it. F.Palazzi, Mondadori, Milano 1970.
Jung Carl Gustav (1952). Simboli della trasformazione, trad.it. Boringhieri, Torino 1970.


[1] Su tale costellazione concettuale — che è psicologica non meno che teoretica — e sulla sua centralità nella poesia di Baudelaire, si è espresso con grande acume Bataille, invocando per essa la metafora della “statua dell’impossibile”. Cfr. Bataille 1957, trad.it.: 45 sgg.
[2] Fornisco in nota, per questa e altre citazioni dalle poesie di Baudelaire, l’insuperata traduzione di Luigi De Nardis (Baudelaire 1857-1861, trad.it.): “Le promesse, i profumi, e quei baci infiniti / da un abisso, insondabile per noi, risorgeranno / come salgono i soli al ciel ringiovaniti / dopo essersi lavati giú nei mari profondi?”
[3] “Cosa mi vale altrove / che nel corpo tuo amato e in questo cuore dolce, / cosí dolce, le languide bellezze tue cercare?”.
[4] “So l’arte di evocare ogni istante felice”.
[5] “Amo il ricordo di quelle età nude, / le cui statue a dorare indugiava / Febo. Allora sia l’uomo che la donna / senza ansia né menzogna, nella loro / agilità, gioivano”.
[6] “Ho piú ricordi in me che se mille anni / avessi. Un grosso mobile a cassetti / stipato di bilanci, versi, lettere / d’amore, di verbali, di romanze, / e di pesanti ciocche di capelli / avvolte da quietanze, non nasconde / segreti quanto il mio cervello triste”.
[7] Ancóra Bataille: “La negazione del Bene in Baudelaire è, fondamentalmente, una negazione della priorità del futuro” (Bataille 1957, trad.it.: 56).
[8] “di una città l’aspetto, ahimè, si muta / piú presto di un mortale cuore”.
[9] “coi suoi gesti folli, / ridicolo e sublime come gli èsuli”.
[10] “Cosí, quando suona / l’ora di voluttà, vorrei, una notte, / come un vile strisciare silenzioso / verso i tesori della tua persona, / per castigarti la carne gioiosa, / per ammaccarti il seno perdonato / e farti al fianco attonito una larga / e profonda ferita, e poi, o dolcezza / che vertigine dà!, attraverso quelle / nuove labbra, piú belle e piú risplendenti, / sorella, insinuarti il mio veleno!”
[11] Troviamo la prima notizia epistolare del progetto in una lettera datata 11 dicembre 1956 (“Mettetemi da parte tutto quello che vi capiterà sotto mano di Laclos e su Laclos”). A pochi mesi piú tardi — 7 marzo 1857 — risale un accenno sulla “pericolosità di certi libri” tra i quali le Liaisons. Quindi Baudelaire lamenta, il 18 marzo dello stesso anno, le difficoltà relative a “tutto il lavoro che devo fare per l’altro...” (dove l’altro è Laclos) e, in data 20 marzo, il fatto che “salvo che in favore di Laclos, non scrivo piú articoli”. Infine, il 28 marzo 1857, l’informazione: “Ho comprato l’edizione giusta delle Liaisons dangereuses”; e poco oltre nella medesima lettera: “Louandre ha promesso di mettermi in contatto con un discendente (nipote, o pronipote) [di Laclos] che possiede dei pacchetti di appunti”. Cfr. Baudelaire 1980, trad.it.
[12] Paventata fin dall’inizio del libro e della relazione di Valmont con la Tourvel: “Oh, sí, bisogna proprio che conquisti questa donna, se non altro per schivare il pericolo ridicolissimo di potermene innamorare: perché non si sa mai dove può arrivare un desiderio contrastato” (Choderlos de Laclos 1782, trad.it.: 30, Lettera IV). Il brano è riportato anche da Baudelaire fra i suoi appunti (Baudelaire 1976 II: 72).
[13] “O Morte, vecchio capitano, è tempo! / Sú l’àncora! Ci tedia questa terra, / o Morte! Verso l’alto, a piene vele! / [...] E tanto brucia / nel cervello il suo fuoco, che vogliamo / tuffarci nell’abisso — Inferno o Cielo, / cosa importa? — discendere l’Ignoto / per trovarvi nel fondo, alfine, il nuovo!”.

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