domenica 26 settembre 2010

MONTAGGIO SCOMBINATO


Macrostrutture della narrazione cinematografica: il racconto multiplo a montaggio scombinato

 (pubblicato in «Rifrazioni», n.3, Bologna, 2010)




Nella letteratura dell’Occidente la prassi delle acronie narrative è reperibile fin dalle piú remote origini. L’Odissea, ad esempio, inizia platealmente in media res, vale a dire con il protagonista già prigioniero di Calipso, cosí che solo giunto al Canto IX il lettore – grazie a un’ampia e potente costruzione analettica –potrà apprendere dalla bocca dell’eroe il resoconto (proferito a beneficio dei Feaci) che gli consentirà di risalire all’inizio della storia, vale a dire alla partenza di Odisseo da Ilio e alle prime avversità del suo tormentatissimo viaggio verso Itaca.
Nello sviluppo della narrazione cinematografica, invece, il flash-back – che è la piú semplice e primitiva forma di acronia – deve essere considerato una conquista relativamente tarda, collocabile in epoca comunque post-griffithiana, se è vero che per trovarne un primo esempio compiuto ed efficace occorre attendere il 1919, ossia Il gabinetto del Dottor Caligaris (Robert Wiene), nel quale alcuni eventi sono immaginati come annotati sopra un vecchio taccuino, e pertanto vengono visua­lizzati da una sequenza filmica che li restituisce allo spettatore dopo che questi ha già appreso il loro séguito[1].
La narratologia genettiana[2] affronta i problemi di ordine del racconto muovendo dal principio secondo cui esiste una “normalità di stato”, ossia un grado zero a livello narrativo che coincide con la condizione per cui il tempo del racconto e quello della storia si muovono in parallelo tra loro[3]. Si tratta di una condizione – per cosí dire – del tutto naturale, dato che risponde alla tendenza, nella vita di tutti giorni, a riferire una serie di eventi accaduti iniziando dal principio (della successione cronologica dei fatti) e procedendo verso la fine (della medesima). Una simile inclinazione produce ciò che è da indicarsi come linearità del racconto, una sorta di vincolo aprioristico rispetto a cui dovranno essere considerate acronie (nien­t’al­tro che figure retoriche[4] di tipo narrativo) tutte le diversioni (trasgressioni) operate contro di esso o, in altri termini, tutti gli scarti (écarts) da ciò che costituisce la linearità, dunque l’ipotetico “grado zero” narrativo.
Genette ha chiamato analessi le acronie che prevedono una “retrocessione” del racconto, ossia il recupero di eventi accaduti prima di altri già narrati, e prolessi quelle che prevedono una “anticipazione”, ossia il resoconto di eventi accaduti dopo quelli che sono ancora da narrare. Le analessi in letteratura sono talmente frequenti (come del resto anche nel cinema) che non vale la pena di citare ulteriori esempi dopo quello dell’Odissea di cui dicevo, mentre il caso forse piú puro e significativo di prolessi, nel romanzo classico moderno si trova all’inizio de La morte di Ivan Ilič di Lev’ Tolstoj, dove il narratore dedica il primo capitolo alla descrizione di un fatto (Ivan Ilič è morto) di cui il racconto, in uno sviluppo diacronico che occupa tutti gli altri undici capitoli, andrà in seguito a fornire i motivi, i precedenti, i sintomi e le premonizioni, secondo un criterio di progressiva ricostruzione postuma del fatto medesimo.
Nel cinema situazioni del tutto analoghe (ossia autentiche prolessi) sono reperibili – per fare solo due esempi – in capolavori come Rebecca la prima moglie (Hitchcock, 1940) e Viale del Tramonto (Wilder, 1950). Nel primo dei due films un lungo piano-sequenza iniziale mostra l’avvenuta distruzione del palazzo di Manderley, vale dire l’esito conclusivo di una vicenda di cui poi la pellicola (dalla seconda sequenza in poi) andrà a narrare il percorso. Nel secondo – che contempla un vero e proprio guizzo di genialità elocutiva – abbiamo un protagonista che annuncia in apertura il ritrovamento di un cadavere in una piscina, e poi inizia a riferire – in prima persona (voice-over intradiegetica) – il concatenarsi delle vicende che porteranno a quella morte e a quel ritrovamento, lasciando di stucco lo spettatore con la rivelazione (finale) che il morto (iniziale) è precisamente lui stesso, ossia colui che sta narrando.
Ora, la distinzione tra analessi e prolessi è in verità meno scontata di quanto si potrebbe credere, dato che si tratta anche di una questione di punti di vista: a seconda che si consideri come “racconto primario” una certa parte del testo piuttosto che un’altra, sarà possibile, e opportuno, definire quell’altra (acronica rispetto alla prima) come una prolessi ovvero una analessi. È chiaro infatti che, di solito, è il buon senso (nient’altro che l’assai poco scientifico e poco rigoroso buon senso) a dirci quale è il “racconto primario” e quali sono dunque, rispetto ad esso – ma solo rispetto ad esso ovviamente! – le analessi e le prolessi, dato che in fin dei conti il buon senso, e nient’altro che il buon senso, impedisce di considerare come “racconto primario” le prime otto pagine di un romanzo (La morte di Ivan Ilič) che ne conta piú di sessanta.
Tutto ciò per notare che anche “moderate” occasioni di rottura della linearità (presenti in tutto il cinema classico, anche di target popolare) possono prestarsi ad aprire, in sede di analisi critico-narratologica, problemi di impervia natura, i quali corrispon­dono, com’è ovvio, a nette conseguenze fruizionali ed estetiche, dunque a pregi (e talora a difetti) del testo. Lo sbalorditivo meccanismo allestito da Bergman in Persona (1966) – in base al quale noi assistiamo per due volte consecutive alla resa filmica del medesimo monologo (stesse parole, stesso sonoro e dunque stessi toni della voce) che un’infermiera psicologa impone alla sua muta paziente, e dove ciò che varia tra la prima e la seconda volta è solo la posizione della cinepresa, dato che la prima volta è inquadrato il volto dell’infermiera e la seconda quello della malata – dimostra come la categoria delle acronie (almeno al cinema) travalichi di gran lunga il campo specifico delle analessi/prolessi, divenuto insufficiente a comprendere la vasta panoramica delle crisi del racconto lineare. Ciò almeno dal settimo decennio del secolo scorso, cioè dal­l’epoca di Persona e della Nouvelle Vague (Godard sopra tutti).
Val la pena di aggiungere che in Persona la figura di ripetizione, il fatto cioè due brani consecutivi di testo vadano a coprire una sola e medesima porzione di storia narrata, si motiva splendidamente nell’esigenza (per Bergman irrinunciabile) di “mostrare” i volti di entrambi i personaggi durante quel monologo cruciale, di fortissima intensità drammatica, senza dover per forza scegliere uno dei due o senza dover abdicare alla caparbietà di uno sguardo indagatore in primo piano. Il campo-controcampo, in un caso simile, avrebbe infatti tolto alla sequenza gran parte della sua micidiale efficacia, e Bergman lo ha evitato esattamente come si evita il banale per attingere al sublime! Tale ripetizione è ciò che gli ha consentito di “giocare” su una sorta di geometrica corrispondenza tra i due volti, arricchendo la sequenza ripetuta di un incanto ulteriore – uno splendore geometrico e meccanico appunto! – basato sulla simmetria delle due riprese, entrambe costruite (dopo l’incredibile fiat sonoro di un gong extradiegetico) secondo uno stesso processo visivo, ossia partendo dalla medesima distanza e angolazione della macchina da presa (mani delle donne), procedendo con lo stesso spostamento verso il volto di tre quarti, poi con lo stesso avvicinamento progressivo al volto in primo piano, e giungendo infine al medesimo ritratto frontale in dicotomico chiaro-scuro (mezzo viso in luce, mezzo in ombra), per chiudere con il suggello (solo alla fine del secondo brano, e dunque alla fine dell’intera sequenza) della fusione dei due volti in uno solo. Come dire: due metà della stessa “persona”!
Esempi splendidi di cinema a forte difficoltà narratologica, sui piani del­l’ordine e della durata del racconto[5], si trovano poi in opere come Quarto potere di Orson Welles (1941) e Rapina a mano armata di Stanley Kubrick (1955).  In Quarto potere, il pretesto narrato-strutturale del “falso documentario”, vale a dire la presentazione di una biografia operata a partire da un montaggio di frammenti che vengono dati come “ritrovati” (indiziariamente ricostruiti dalle testimonianze di coloro che hanno conosciuto il cittadino Kane), produce la grande inno­vazione di un tempo del racconto che non segue – nemmeno in maniera residuale – la cronologia delle vicende descritte (tempo della storia), ma si muove liberamente tra il prima il dopo “storici” con fare pressoché anarchico, tra l’altro parodiando (e dunque facendo esplodere) la lingua dei cinegiornali dell’epoca. In altri termini, la scelta wellesiana, ovviamente destinata (nel 1941) a lasciare sbalorditi gli spettatori di tutto il mondo, fu di proporre un testo narrativo come si trattasse di una vera e propria in­chiesta giornalistica (quanto mai adeguata al proprio oggetto: il tycoon della carta stampata Charles Foster Kane) basata tuttavia su materiali audiovisivi. Sotto tale aspetto Quarto potere non differisce da opere cinematografiche recenti, ugualmente strutturate come pseudo-reportages giornalistici, come ad esempio Grizzly Man di Werner Herzog (2005). Ciò attesta un impressionante valore fondativo del lavoro di Welles. E però, occorre dirlo, l’analogia si limita all’aspetto del rifiuto radicale della linearità del racconto, che è senza dubbio il dato di piú macroscopica evidenza per entrambe le opere. Tale analogia non può infatti mettere in ombra quanto di originale e di rivoluzionario Grizzly Man offre in proprio: Herzog non ha “inventato” la storia, come Welles, non ha finto di averla trovata e giornalisticamente ricostruita (come accade per altro anche in certi romanzi classici), ma ha invece realizzato un assai speciale reportage (in senso stretto) su una vita umana realmente esistita, tentando la fedeltà del biografo scrupoloso, ossia utilizzando materiali audiovisivi altrui e realmente documentaristici (le riprese a videocamera fatte dall’uomo degli orsi, che Herzog ha potuto acquisire dopo la morte di costui), e ha allestito quindi una sorta di ready-made cinematografico, sapientemente capace di restituire in presa diretta il vissuto autentico di un determinato individuo e tuttavia montandolo secondo l’estro di una vena narrativa (un gusto della fiction) che appartiene a Herzog da sempre. Grizzly Man è pertanto ciò che Quarto potere non poteva essere: un capolavoro di affabulazione ambigua basato su una spregiudicata contaminazione dei generi, e anche – se vogliamo – la prova (dopo i precursivi esperimenti di Dziga Vertov) che la distinzione tra cinema “narrativo” e cinema “documentario” può anche essere poco piú che un obsoleta abitudine classificatoria.
Quanto a Rapina a mano armata di Kubrick, si deve osservare che questa formidabile prova del grande regista americano[6] coniuga, nel suo capitolo narratologicamente piú importante, il “racconto ripetuto” di Persona (anticipandolo) con la costruzione “a reportage” di Quarto potere. La sequenza (o insieme di sequenze) che mi piace chiamare della settima corsa, giustamente collocata nel cuore del film, presenta la ripetizione ossessiva di un unico frammento storico-cronologico, ossia la ripetuta narrazione di un medesimo intervallo di tempo, il quale va dal momento in cui all’ippodromo (dove la rapina si svolge) viene annunciata la settima corsa della giornata[7] fino a un imprecisabile (anche perché ogni volta diverso) momento successivo... In sostanza, è come se, giunto a un certo punto del suo sviluppo, il racconto si inceppasse e non potesse che tornare indietro, per ri-descri­vere con maggior ampiezza l’accaduto (la storia), ogni volta inquadrandolo da un punto di vista diverso... Si tratta, da parte di Kubrick, di una dichiarazione di principio molto audace e destabilizzante, sebbene del tutto inoppugnabile: nessun atto testuale narrativo è cosí efficace da poter coprire in modo esauriente la complessità dei fatti (siano essi realmente accaduti o presunti tali da una finzione), dato che il reale (vero o fittizio che sia) è in sé molteplice e articolato – troppo complesso appunto – e quindi al limite indescrivibile, inconoscibile. Pertanto, laddove la restituzione (almeno parziale) di quella complessità si renda indispensabile alla minima comprensione, il narratore non potrà far altro che rifiutare la linearità del racconto e tornare piú volte sulle proprie tracce, sul proprio già detto, ciascuna volta completando e aggiungendo informazioni o anche, in certo qual senso, correggendo interpretazioni precedentemente fornite[8].
Chiaro che con tutto ciò il flash-back classico ha pochissimo a che vedere, e anche parlare di analessi pura e semplice sarebbe erroneo... Una figura di questo tipo – dico il “racconto inceppato” di Rapina a mano armata – non è infatti compresa nello schema fornito da Genette, dato che ogni frammento (ogni ripetizione della sequenza) è al tempo stesso risarcitivo e anticipatorio, inestricabilmente analettico e prolettico, e neppure gli aggiustamenti operati da Christian Metz in materia di macro­sintagmatica del linguaggio cinematografico[9] riescono a renderne conto in modo apprezzabile, ossia a dare di tale figura una definizione chiara e comprensibile, assestandola all’interno di una precisa elaborazione teorica.
Relativamente recente è l’idea di costruire un film raccontando in parallelo piú storie tra loro separate, non comunicanti, e dunque vagando dall’una all’altra senza apparente coerenza diegetica, per costringerle poi magari a ricongiungersi tutte in un unico esito successivo, vale a dire facendo in modo che situazioni (trame) dapprima autonome si scoprano interconnesse – magari grazie a un evento il quale, con il suo inverarsi, le metta tra loro in comunicazione – e dunque risultino far parte, ma solo a posteriori, di una trama unica, la quale sarà in grado di restaurare (di conseguenza) la dimensione tem­porale della storia[10].
L’esempio cinematografico piú persuasivo di racconto cosí concepito si trova nella pellicola di Robert Altman America oggi, che è del 1994 (solo quindici anni fa). Tale prassi, tuttavia, generatrice di quel che si potrebbe chiamare “racconto multiplo”, non implica vere e proprie rotture della linearità, dato che da un lato (a) nulla permette di evincere dal passaggio da una trama all’al­tra, e dai continui ritorni su trame già intessute – da questo nomadismo dello sguardo dell’autore, insomma – sicure inosservanze della successione temporale della storia complessiva, e (b) nessuna delle trame, se presa in se stessa, ossia se ricostruita nella sua integrità sommandone gli spezzoni uno dopo l’altro (nello stesso ordine in cui il film li presenta), prevede al proprio interno aspetti analettici o prolettici o qualsiasi altra inversione dell’ordine cronologico.
I films di Alejandro González Inarritu – dove è per altro ben visibile il contributo creativo di Guillermo Arriaga, soggettista e sceneggiatore con ampie corresponsabilità – pongono in evidenza un ulteriore salto di qualità in materia di complessità strutturale della narrazione, e dunque di costruzione macrosinta­gmatica. Il che a mio avviso, sia chiaro fin d’ora, non implica necessariamente un parallelo salto di qualità in sede estetica... E anzi, proprio quest’ultimo aspetto, vale a dire il pregio di tali opere cinematografiche – ma solo dal punto di vista narratologico di cui sto trattando – è ciò che vorrei di cercare di discutere: non tanto per formulare giudizi sul lavoro di Inarritu, quanto piuttosto per capire fino a che punto scelte di quel tipo (che si potrebbero riassumere nel concetto di “racconto multiplo a montaggio scombinato”) contribuiscano a rafforzare il potere espressivo e l’inte­res­se artistico dei suoi film.
Tra di essi prenderò in considerazione solo Amores perros (2000), la prima e credo il piú interessante tra i lavori finora realizzati dal duo Inarritu-Arriaga. Per rendere conto dello speciale profilo narratologico (macrosintagma­tico) di questo film, si dovrà innanzi tutto osservare che esso si apre con il racconto anticipato (prolessi) dell’incidente automobilistico intorno al quale tutto il testo ruota, grazie al quale cioè le diverse linee di sviluppo degli eventi tematizzati si incontrano e danno corpo alla storia complessiva della pellicola. Esso, infatti, mette in comunicazione i dapprima lontani e incomunicanti “dati” relativi alla vita delle coppie Octavio-Susana, Daniel-Valeria, El Chivo-Maru, ovvero tre vicende umane separate che non si sarebbero mai potute tra loro congiungere altrimenti. E qui interviene un’ambiguità formale che è il caso di sottolineare. La pellicola presenta titoli diversi per ciascuno dei tre “episodi”, con veri e propri stacchi e diciture a tutto schermo su fondo nero, come avviene tradizionalmente nelle pellicole comprensive di piú  opere (magari firmate da diversi autori, come Rogopag o Capriccio all’italiana, per citare solo sue esempi). D’altronde, si tratta pur sempre di “storie” relative a persone che non si conoscono, anche perché appartengono a classi sociali non conciliabili tra di loro, tanto che la regia (incrementando l’effetto d’ambiguità) applica registri stilistici differenti a ciascuno degli “episodi”, quasi fossero messi in gioco tre diversi autori oltre che tre diversi testi. Ciò che raccoglie tali capitoli, ricucendoli nella prospettiva di un solo film a trama omogenea, è esattamente quel­l’evento catastrofico (l’incidente d’auto) reso possibile da un quadro di convivenza antropologica che comprende tutte le separatezze e può finire per ridurle (talvolta, cioè in questo caso) a destino comune: lo sterminato contesto megalopolitano di Città del Messico.
La sequenza della fuga in automobile – i cui motivi remoti sono per altro correlati al ruolo che presso tutte e tre le situazioni-coppia gioca l’amore per i cani – funge dunque da collante per una solamente “plausibile” trama unica... Quasi piú un’ipotesi, insomma, che un dato di fatto, poiché per giunta non è possibile stabilire fino a che punto l’unitarietà sia relativa agli elementi presunti reali della storia o non sia piuttosto tutta situabile al livello del racconto, il quale in tal modo li forzerebbe alla propria logica sovrana. Come dire: è la vita che mette in comunicazione le persone tra loro (i cani, gli incidenti d’auto causati dall’amore per i cani) o non è invece la volontà di chi la vita osserva – in questo caso: del narratore extradiegetico – a scorgere e a costruire con i mezzi del linguaggio, e cioè a posteriori, un’unità a tutti i costi, e dunque a conferire senso (ordine, direzione...) al non-senso e al caos della realtà?
Dopo il prologo di cui si diceva, la narrazione della fuga si ripeterà altre due volte per intero (identica, se non fosse per sottili variazioni di punto di vista e code di completamento) e ancora altre due volte per mezzo di ulteriori richiami parziali, dato che tutto ciò a cui assistiamo conduce lí oppure parte da lí. Ma questo tutto è a sua volta spezzettato in molteplici frammenti, che si susseguono nel testo secondo un ordine temporale (quello del testo stesso, ossia dello svolgersi della pellicola nel proiettore) che solo in parte rispetta il desumibile sviluppo cronologico dei fatti narrati. Desumibile, ho detto. Perché solo tramite l’aiuto di una logica che si applica dal di fuori, ossia che lo spettatore è chiamato a mettere in campo, diventa possibile mettere ordine (ancora una volta: conferire senso) a ciò che “accade”, o piuttosto a ciò che “si ritiene che accada”.
Ci sono i fatti – sembra sostenere il film, i fatti nella loro brutale e immediata occorrenza – privi di tempo narrativo giacché in sé privi di racconto. Essi vengono prima del racconto! E poi c’è un narratore che li concatena, che li sistema, che dà loro un senso. E per farlo il narratore chiede la partecipazione attiva di un fruitore complice, capace di collaborare alla buona riuscita dell’operazione artistica. Senza tale complicità nemmeno la piú banale delle analessi sarebbe in effetti ammissibile... Il narratore non è l’unico responsabile, dato che il lettore deve collaborare con lui, e Amores perros non fa altro che chiedere al lettore una collaborazione quanto mai robusta, una partecipazione intellettuale di livello alto, perché – in fondo – è precisamente una facoltà del fruitore dare senso al testo. Certo Inarritu-Arriaga forniscono appigli, aiuti alla ricostruzione (ma si potrebbe anche dire che allestiscono esche, trappole perfino, che giocano sporco), dato che sovente lasciano trapelare all’interno dei uno dei racconti eventi appartenenti a un altro: qualche volta semplicemente inserendo una breve sequenza estranea tra due sequenze che sarebbero omogenee (contigue) se la prima venisse espunta, altre volte creando vere e proprie zone di osmosi, in cui per un breve tratto le storie si incontrano e i personaggi irrelati si incrociano tra loro. L’effetto è di per sé altamente fastidioso, dato che è impossibile – a quel punto del film e non conoscendo il resto – capire che cosa accade. Ma appunto, allo spettatore è concesso e richiesto di formulare ipotesi, di misurarsi con il proprio stesso desiderio di capire (di con-prendere, di tenere insieme), e anche di esercitare facoltà mnemoniche e deduttive che in seguito verranno utili. In seguito, appunto: quando il mosaico comincerà a comporsi e dal caos inizierà ad emergere un ordine, meglio ancora: un destino. Quello straordinario e inopinabile destino che costringe un auto a schiantarsi contro un’altra, e tre storie diverse a incontrarsi, e da quel­l’incontro a ricevere (ciascuna di esse) una “spinta” che ne muterà il significato.
Solo a titolo esemplificativo, do qui un resoconto della struttura macrosinta­gmatica della parte iniziale del film, riferendone l’esatta successione sequenziale. Si noterà che la tecnica di montaggio applicata in Amores perros prevede uno schema geometrico di sistematica interruzione e ripresa delle scene, nel senso che ciascuna delle tre sequenze su cui verte il primo episodio (Octavio e Susana) è interrotta dalle altre due uno stesso numero di volte... in un gioco di incastri ad alta precisione ludica (oltre che ritmica)! Fermo restando il fatto che occorrenze apparentemente gratuite (irrelate) che sono riferibili agli altri due episodi (Daniel e Valeria, El Chivo e Maru) vengono inserite in luoghi strategici, come per richiamare quell’esi­genza (tutt’altro che di facile soddisfazione) di aristotelica unità drammaturgica (di tempo, di luogo, di azione) che il racconto, infatti, andrà in seguito e in qualche misura a restaurare.
1. Prologo. Sequenza della fuga in auto con incidente finale. Tempo: alla metà circa dello sviluppo della storia.
Primo episodio: Octavio e Susana
2. Prima sfida di cani nel “cinodromo”, vince il cane del Biondo. Tempo: inizio della storia.
3. Susana rientra a casa, il cane di Ramiro esce, la bambina di Susana sta con la baby-sitter. Tempo: inizio della storia, in presumibile contemporanea a 2.
4. El Chivo gira con i suoi cani e il carretto in cerca di rottami (preambolo al Terzo episodio). Tempo: inizio della storia, in contemporanea presunta a 2 e a 3.
5 (2). Seguito della prima sfida cani... è la sequenza 2 che continua.
6 (3). Rientra in casa Octavio, dialoga con Susana, poi rientra anche di Ramiro, marito di Susana e fratello di Octavio, e litiga con Susana... è la sequenza 3 che continua.
7 (2–5). Il Biondo e i suoi amici , dopo la sfida, escono con il cane, per un attimo incrociano il Chivo con il suo carretto (intersezione con il Terzo episodio), quindi incontrano Cofee, il cane di Ramiro... è la sequenza 2–5 che continua.
8 (3–6). Susana si reca in camera di Octavio e lo ringrazia per averla difesa da Ramiro... è la sequenza 3–6 che continua.
9. Nuovo brevissimo inserto dal Terzo episodio: El Chivo guarda la foto dell’uomo che deve uccidere e carica la pistola. Tempo indeterminato... Non c’è continuità sequenziale con i precedenti (4 e 7). Si suppone in contemporanea a 8.
10 (3–6–8). Octavio esce dalla camera e sulla porta di casa apprende che Cofee ha sgozzato il cane del Biondo, il quale arriva e lo minaccia... è la sequenza 3–6–8 che continua, ma viene qui ripresa e portata a termine (per incrocio logico) anche la sequenza 2–5–7.
11. Octavio pranza in casa, giunge a tavola anche Ramiro. Tempo indeterminato, ma successivo alle precedenti sequenze, rispetto alle quali c’è stacco cronologico.
12. Nuovo inserto (anticipo) del Terzo episodio: El Chivo si muove nei pressi del ristorante dove sta pranzando la sua vittima, poi la uccide e fugge. Tempo indeterminato, ma successivo a 9... si può supporre in contemporanea a 11.
13. Preambolo al Secondo episodio: Daniel rientra a casa con la moglie e i figli, riceve telefonate “mute” (si saprà poi che è l’amante Valeria che lo cerca). Tempo: del tutto indefinibile rispetto a quanto precede (nel film).

Mi fermo. Si tratta dei soli primi 16’ di una pellicola che dura 2h e 23’ (titoli di coda esclusi). Sufficienti tuttavia a dare un’idea della problematicità della sua costruzione. Si deve anche notare, per completezza, che tutti gli spezzoni (le sequenze effettive) sono a loro volta “montati” ossia sono costituiti da “piani” cinematografici da brevi a brevissimi... Ma è un aspetto che qui interessa meno. Quel che importa è sottolineare piuttosto che il racconto in Amores perros avrebbe (forse) potuto essere realizzato in modo da rendere assai meno “faticosa” la sua lettura, per esempio riunendo (per ciò che concerne la parte testé analizzata) gli spezzoni 2–5–7 e gli spezzoni 3–6–8–10 in due sequenze effettive, ossia non interrotte, passando poi alla sequenza 11 (che cosí diverrebbe la 3) ed espungendo i richiami (gli anticipi) agli episodi successivi (4–9–12, terzo episodio; 13, secondo episodio) per inserirli, a loro tempo, nei rispettivi luoghi di competenza, ossia nella seconda e nella terza parte del film. Il problema è: che cosa perderebbe l’opera in valore estetico se la sua sceneggiatura fosse cosí concepita?
Tre sole osservazioni, a mo’ di risposta (certamente) parziale e provvisoria. 1°. Ricombinare tra loro gli spezzoni in modo da rendere meno frammentario il rapporto tra tempo del racconto e tempo della storia è certamente possibile, ma solo a patto di rinunciare a qualche passaggio (laddove vi sono gli incroci tra una linea diegetica e l’altra) o a patto di risolverlo in modo differente, ovvero con escamotages che finirebbero per sottrarre completezza discorsiva al film. 2°. Proprio tentando, o anche solo immaginando, una simile procedura di “restauro forzato” della linearità del testo, ci si rende conto che è una prerogativa del linguaggio cinematografico (in quanto successione di immagini) poter lavorare su simili scombinamenti e sovrapposizioni, e che altri mezzi linguistici – data la natura piú “astratta” del materiale significante di cui dispongono – difficilmente potrebbero reggere la (chiamiamola cosí) polifonia architettonica di Amores perros senza far incappare il fruitore in ben piú gravi problemi di ricezione. Da ciò consegue che (3°) il film di Inarritu-Arriaga è del tutto legittimamente proteso verso una ricerca di potenziamento delle facoltà espressive del mezzo che utilizza, e che se il risultato in prima battuta è di rendere tanto difficile la lettura da imporre al fruitore almeno una seconda visione chiarifi­catrice, ciò non vuol dire che si tratti per forza di qualcosa di emendabile o comunque di negativo, se è vero (ad esempio) quel che dicono testimonianze d’epo­ca circa la prima opera di Godard (A’ bout de souffle, 1960), un film che anche i piú smaliziati spettatori percepivano al primo approccio – per quanto concerne la trama, vale a dire la ricostruzione delle vicende narrate – come un estenuante voyage à bout de la nuit, un’esperienza al limite della piú buia incomprensibilità.



Sandro Sproccati





[1] Ancorché, a dirla tutta, non si tratti in questo caso neppure di un vero e proprio flash-back, dato che il racconto interno non è affatto sostenuto da un personaggio-narratore e dunque rimemoratore, ma proprio e soltanto di una analessi a pretesto qualsiasi, il taccuino e ciò che sopra sta scritto: una retrocessione cronologica nel senso piú generale del termine.
[2] Gerard Genette, Figure III. Discorso del racconto, ed. it. Einaudi, Torino 1976 (ed. fr. 1972).
[3] Tempo della storia: il susseguirsi cronologico (diacronico) delle vicende narrate, che dalla finzione narrativa vengono proposte come realmente accadute. Tempo del racconto: il susseguirsi dei significanti o elementi di testo nel corso della narrazione realizzata con mezzi espressivi diacronici, come il linguaggio verbale e quello cinematografico. Per i problemi di ordine del racconto cfr. Genette, Figure III cit. pp. 81-134.
[4] Da Barthes in poi la retorica è concepibile come luogo (e studio) delle eccezioni all’uso “normale” del linguaggio, ossia delle trasgressioni (intenzionalmente operate per lo piú a fini estetici) di norme stabilite dai codici linguistici. Cfr. Roland Barthes, Il grado zero della scrittura. Nuovi saggi critici, Einaudi, Torino 1982 (ed. fr. 1953), e poi Gruppo µ, Retorica generale. Le figure della comunicazione, Bompiani, Milano 1980.
[5] Nella proposta di Genette i problemi di durata sono quelli relativi al rapporto tra l’estensione del testo (tempo del racconto) e l’ampiezza della porzione di storia che vi corrisponde (tempo della storia), ossia che è da esso narrata. Cfr. Genette, Figure III cit., pp. 133-161. Osserverò che per quanto riguarda il cinema è assai agevole individuare unità omogenee a livello di tempo della storia (una sequenza di un film è sicuramente tale) e valutare quale rapporto esse vengano a intrattenere con l’estensione cronologica dei brani di racconto che le rappresentano. Ad esempio, una ripresa in continuità (priva di tagli) implica necessariamente l’effettiva identità di estensione dei due tempi (a tot minuti di pellicola corrispondono tot minuti di tempo narrato – ciò che Genette per il romanzo chiama scena), e quando una ripresa in continui­tà risolve da sola un’intera sequenza avremo il cosiddetto piano-sequenza. Se invece si considera un frammento di racconto (un tratto di pellicola) capace di coprire un’intera sequenza ma non costituito da un’unica ripresa (vale a dire “montato”) saremo di fronte alla situazione che Genette chiama sommario, nell’ambito della quale il tempo del racconto è necessariamente inferiore al tempo della storia (poniamo: 35 minuti di pellicola per 4-5 ore, presumibili, di vicenda rappresentata: la sequenza del “ballo” nel Gattopardo di Visconti). Ovvio che la quasi totalità dei testi cinemato­grafici, non essendo realizzata tramite un unico piano-sequen­za, produce il sommario come condizione complessiva. Ma, ancora per esemplificare, un brano di testo realizzato per mezzo di una lunga ripresa al ralenti (è quanto accade in Arancia meccanica di Kubrick, nella sequenza in cui Alex riconquista il potere sui Drughi) andrà a costituire una situazione che è l’esatto opposto del sommario, dato che in quel brano il tempo del racconto sarà inevitabilmente maggiore del tempo della storia. Cfr. anche Robert STAM, Robert BURGOYNE, Sandy FLITTERMAN-LEWIS, Semiologia del cinema e dell’audiovisivo, ed. it. Bompiani, Milano 1999, cap. III.
[6] Si tratta del suo terzo lungometraggio, dopo Paura e desiderio (1953) e Il bacio dell’assassino (1955), ma sicuramente del suo primo capolavoro.
[7] Ed è tale annuncio, fatto dallo speaker nell’altoparlante dell’ippodromo («E ora diamo il via alla settima corsa!») ossia un elemento di natura fonica, a fornire ogni volta al fruitore la certezza che il racconto è tornato indietro. Anche in Persona (1966) sarà un elemento auditivo (ma là simbolico e non diegetico), ossia il suono del gong, a sancire la ripresa del già narrato.
[8] E si noti che non si tratta affatto di aggiunte e correzioni mosse a partire da “racconti nel racconto”, come avviene in Rashomon di Akira Kurosawa (1950), dove sono testimoni piú o meno attendibili, ma inevitabili portatori di visioni “soggettive”, che – narrati come narratori interni – espongono diverse versioni dell’accaduto. Qui, nel film di Kubrick, è esattamente e soltanto il narratore complessivo (extra-diegetico) ad assumersi la responsabilità di riferire il passato a piú riprese, e in modi diversi, sfuggendo cosí alla tipologia consueta della metadiegesi analettica, vale a dire anche a quella fortemente scioccante (giacché multipla e contrad­dittoria) che Kurosawa aveva inventato per Rashomon. 
[9] Christian Metz, La significazione nel cinema, ed. it. Bompiani, Milano 1995 (ed. fr. 1972).
[10] Qui si ha anche la piú chiara dimostrazione della differenza sostanziale – di cui nessun realismo estetico ha mai potuto o voluto tener conto – tra il piano della cosí detta realtà, con il suo accadere fram­mentario e caotico, privo di “direzione”, e la natura propria della narrazione, che è gioco forza discorso e, in quanto tale, non può che “orientare” il caos secondo logiche intellettualmente comprensibili, razionali,  ovvero in un ordine (un senso) ben strutturato, diegetico.

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