giovedì 24 gennaio 2013

EROS E THANATOS IN MIZOGUCHI



Mizoguchi Kenji – Eros è Thanatos


Il classicismo cinematografico giapponese trova in Kenji Mizoguchi il suo esponente forse piú rappresentativo... sempre che per classicismo si voglia intendere una situazione di piena maturità (congiunta a perfezione estetica) entro le coordinate di uno storicamente conseguito valore di esemplarità assoluta – il che è quanto la nozione, in fin dei conti, prevede e impone. Ciò significa che le opere di Mizoguchi sondano la via di un paradigma linguistico che, in sede cinematografica, si offre come squisitamente nipponico, un modello al quale, a controprova, per molti anni non potrà e non vorrà sottrarsi neppure il grande Akira Kurosawa. Ed esse lo fanno sia affidandosi a “soggetti” totalmente affogati nella dimensione favolosa e tetra del Giappone feudale premoderno (dal decimo al diciasettesimo secolo), sia ricercando per quei soggetti cosí faticosamente tragici una peculiarità espressiva le cui atmosfere trasudano da ogni immagine e da ogni sequenza dei films di Mizoguchi, ovvero una sorta di “panneggio formale” complesso e ardito, a pieghe multiple, capace di restituirne il climax ineffabile (la proiezione immaginosa a ritroso) prima ancora che la presunta verità oggettiva: mai riducendo a storia – infatti – ciò che alla storia non si acconcia poiché antistorico per condizione intima.
Nato nel 1898, Mizoguchi ha iniziato a produrre opere cinematografiche già poco piú che ventenne, ed esattamente dal 1922, dapprima dedicandosi ad adattamenti di testi narrativi letterari, poi – dopo l’avvento del sonoro – a films di carattere realistico-biografico. Insieme a Yasujiro Ozu e Mikio Naruse, per tutti gli anni Trenta e Quaranta ha tenuto ben saldo tra le mani il monopolio della qualità nel cinema della sua terra, benché sia il caso di specificare che i capolavori piú persuasivi sono in verità da collocarsi negli ultimi dieci anni della sua vita, cioè in quel periodo davvero “aureo” che va dalla fine della catastrofe bellica alla morte del regista, distrutto dalla leucemia il 24 agosto 1956. Il suo ultimo film, La strada della vergogna, pur di apprezzabilissima fattura, certamente risente della fase terminale della malattia, ma negli anni immediatamente precedenti Mizoguchi aveva messo in fila una serie di lavori di straordinaria potenza linguistica, come Vita di O-Haru, donna galante (1952), I racconti della luna pallida di agosto (1953), L’intendente Sansho (1954), Gli amanti crocifissi (1954) e L’imperatrice Yang Kwei-fei (1955).
In tali testi – i quali, con i pressoché coevi Tarda primavera (1949) e Viaggio a Tokio (1953) di Ozu, hanno contribuito in maniera determinante alla “scoperta” del cinema giapponese in Occidente – troviamo appunto irrobustita al massimo grado, e quasi portata all’incandescenza, la temperie delirante dell’opera di Mizoguchi, che si intrica intorno al fulcro tematico di uno sprofondamento nell’irrazionalità “scatenata” del medioevo nipponico e che in parte vien fatta propria anche dai primi films del giovane Kurosawa, da Rashomon (1950) a I sette samurai (1957). La condizione letteralmente disumana a cui è piegato l’intero universo femminile, il malinteso e quasi paranoide senso dell’onore nel contesto di un classismo spietato, banalmente orrendo, sempre declinante nell’idolatrico culto del potere e del denaro, ossia nell’annichilimento di ogni plausibilità degli affetti e nel continuo precipitare del sesso nella morte, sono la marca specifica di interpretazione che Mizoguchi elabora intorno al proprio atroce abisso arcaico: come una chiave di accesso al rapporto altrimenti impoetico che in sede di linguaggio cinematografico viene a istituirsi, per qualsiasi soggetto, tra soggetto e sua rappresentazione.

L’originalità dell’arte di Mizoguchi si fonda su una rilettura del nesso di eros e thanatos nel quadro della violenza posta in atto dal potere in una società barbaramente feudale com’è quella del Giappone antico. Il sesso vi precipita di continuo nella morte in quanto le motivazioni di ogni atto individuale, entro tali coordinate culturali, rendono assurda la vita stessa e la deprimono in non-vita. E andrò poi a spiegare come una simile impostazione ideologica, che alligna in ogni film come un traurig motiv unificante e imprescindibile, si ripercuota sullo “stile” del regista sovradeterminandolo e rendendo – appunto – esclusive e inconfondibili le scelte estetiche della sua produzione terminale. Ciò che tiene insieme le opere di tale fase è una sorta di idee fixe, una costante tematica la quale, ben oltre la varietà delle situazioni letteralmente e in superficie tematizzate, e dunque ben al di là (o al di qua) delle storie narrate, è sempre presente e sempre incombente sul significato ultimo che i diversi films propongono, da cui dipendono e a cui si assecondano, in esso e da esso (soltanto) trovando il loro scopo e traendo la loro forza. Il “significato” si crea, insomma, in tali opere, quasi per condensazione di pensieri (e di esempi) che la costante tematica in oggetto coagula attorno a sé e al tempo stesso “illustra”, facendosi carico di risolvere simbolicamente – con la propria sempre rinnovata epifania, con il proprio ergersi a conclusione finale inevitabile – ogni accusa e ogni denuncia circa l’insostenibilità della vita in generale, circa la tragedia delle vite vissute in particolare, nel luogo tragico dell’arcaismo dei secoli feudali.
Va da sé che tale costante, tale idee fixe, è proprio e precisamente la ricaduta letale di ogni tentativo di amore, la morte come destino che segue e perseguita ogni slancio erotico che non sia stato preliminarmente sottomesso a una regolamentazione precauzionale, sterilizzante e dunque ugualmente mortifera, a una mortificazione, pertanto, preventiva e castrante, entro regole sociali di casta (e di famiglia) che non sembrano avere altro senso se non quello di impugnare le categorie dell’onore e dell’obbedienza come armi capaci di inibire ogni libertà erotica, ovvero, evidentemente, di scongiurare la pericolosità devastante – per la conservazione ad aeternum del potere – dell’amore in quanto tale.
Forse in maniera del tutto indipendente dall’archetipo europeo del nesso amore-morte (archetipo greco, mitologico, melodrammatico, poi infine anche psicanalitico) Mizoguchi arriva a una propria deliberata e matura elaborazione del concetto. Ma vi arriva, con ogni probabilità, appunto perché libero dall’archetipo e dalle sue implicazioni dialettiche... Voglio dire che il nesso in lui è il risultato di una riflessione e di un’analisi critica, ed è altresí il prodotto di una scelta di metodo interpretativo effettuata: sicché, nella sua visione, nulla mette al riparo, nulla giustifica, nulla attenua, nulla fornisce alibi. La punizione dell’amore con la morte (Gli amanti crocifissi) o la sottrazione dell’amore da parte della morte (Vita di O-Haru), l’abbraccio mortifero o il coitus morti interruptus, sono qualcosa che distrugge l’armonia della vita, niente affatto ribadendola.
Mi spiego meglio, o almeno ci provo. In Occidente l’archetipo (lo chiamo cosí per comodità terminologica, quindi senza mettere in campo o dover difendere alcuna professione di fede junghiana) agisce nel “bene” e nel “male”. Il suo fondamento greco lo sottrae a qual si voglia accezione sbilanciata, a qualunque monopolio del negativo. Del resto, esso non fa che ridurre la morte a evento funzionale alla vita e alla sua riproduzione incessante e necessaria. Cosí Narciso si riscatta ed è glorificato in un fiore (rinasce) attraverso la morte che la sua maldiretta (eterodiretta?, omodiretta?) sessualità gli ha procurato; cosí Isotta muore e trova nella morte la propria estasi, il piacere sessuale piú sublime, una felicità definitiva (non diversamente dalla Santa Teresa della cappella del Bernini); cosí si ricongiungono nella morte, in un amplesso eterno, Paolo e Francesca, «quali colombe dal disïo chiamate / con l’ali alzate e ferme al dolce nido», in un inferno tutto sommato tollerabile se Francesca, rimarcando l’unificazione, può dire che «amor condusse noi ad una morte». Cosí, infine, per Georges Bataille «l’erotismo è conferma della vita fin dentro la morte».
Va rimarcato: vita, e non morte, fin dentro la morte eros produce e procura! Laddove in Mizoguchi, al contrario, thanatos perseguita eros come un nemico, come una punizione, come una nemesi preordinata e invincibile, niente affatto necessaria e tuttavia puntualmente incombente come per un meccanismo di causa-effetto, e altresí per un’incidenza solo deducibile a-posteriori: cosí accade perché cosí è (senza dover essere) alle latitudini (anti)storico-culturali del Sol Cadente medievale.
Sarà bene qui aprire una parentesi. Parrebbe di capire (ammesso di poterci capire qualcosa guardando il tutto, ossia entrambi i “poli”, dall’Europa) che la valenza archetipica, psico-antropologicamente motivabile, del nesso eros-thanatos, presso la cultura, che muovendo dall’agorà greca, si è sviluppata nel cristianesimo (cultura della morte di dio stesso, a ben guardare), sia esattamente quanto pone al riparo l’Occidente dalla declinazione totalmente catastrofica che agisce in Mizoguchi. Non è facile comprendere – infatti – la dinamica scellerata che nei films del giapponese tiene le redini del gioco e determina la tragedia, e sicuramente non è facile proprio perché entro le nostre coordinate culturali quel nesso sussiste in una dimensione psico-antropologia profonda e ha una certa valenza: caduta sí, ma anche riscatto. Per la cultura cui apparteniamo, l’erotismo – negazione dell’atto sessuale riproduttivo – ribadisce la continuità vitale esattamente là dove essa, se si presta fede alle apparenze, sembrerebbe abolita: cosí è la morte, in quanto implicita trasgressione del vivente e del perpetuo tramando, in quanto pura utopia nel seno di una natura in incessante rigenerazione, è la morte come atto simbolico e assoluto, che la pulsione erotica cerca di raggiungere, attraendo chi ne è posseduto nel suo luogo misterioso, in un luogo prossimo a quello che la morte, come verità ultima ma inesperibile, presidia: luogo della perdita dei sensi e della caduta del senso, del cedimento e della vertigine, dell’esperienza panica (dionisiaca) come fuoriuscita dall’io, luogo sempre adombrato e quasi allegorizzato dall’emozione irrapresentabile dell’orgasmo. Per dirla con la stupefacente “rivelazione” del Tasso, nel luogo del compianto forse piú alto che la scrittura italiana abbia mai concepito:
    
Non morí già, ché sue virtuti accolse
       tutte in quel punto e in guardia al cor le mise;
       ...
       Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse,
       colei di gioia trasmutossi, e rise:
       e in atto di morir lieta e vivace
       dir parea: “S’apre il ciel; io vado in pace”.

Estasi, orgasmo, morte. La rinascita («a dar si volse vita con l’acqua») è tutta compresa nel cerchio magico dell’estinzione e della rinuncia. Il culmine del possesso carnale, o meglio la spirale ascendente dell’erotismo, è all’origine psicologica di ogni mito di redenzione, di ogni esperienza estatica: ossia di ogni proiezione di immediatamente percepiti e indissolubili legami tra la manifestazione massima della vita e il suo contrario: l’amore, la morte.
Ma questa, appunto, è cultura (sensibilità psichicologica) europea, che poco ha da spartire con il Giappone di Mizoguchi. Quando gli amanti vengono crocifissi, nel racconto loro dedicato, e vengono crocifissi per il solo fatto di essere amanti, non v’ha ombra di redenzione che aureoli i loro corpi legati insieme sulla carretta del supplizio, e non c’è estasi che tenga in quei paraggi. La morte si dà sí come effetto dell’amore, ma esattamente ed esclusivamente in una chiave di destino perverso, e umanamente (per volontà tutta umana, per agghiacciante dovere sociale) pervertito. Qui la morte rammenta piuttosto – volendo ricorrere a un luogo topico del nostro immaginario poetico – il pozzo di sangue in cui Lady Macbeth tuffa mani che niente e nessuno potrà mai mondare. Si tratta insomma di quella morte che contrasta e abbatte la vita, negandola, annientandola. Non c’è riscatto, non c’è motivo, non c’è schema – se non falso e opprimente – che possa legittimare il rapporto: eros produce distruzione perché a mezzo della distruzione della vita viene grottescamente punito, e il “nesso” è infatti da Mizoguchi interpretato come un increscioso esito della stupidità umana.
In Vita di O-Haru, donna galante (da un romanzo seicentesco di Ihara Saikaku) assistiamo alla disperante continua capitolazione della protagonista, che di vicissitudine in vicissitudine è sempre piú umiliata nella propria condizione di donna e nella propria sensualità femminile, la quale viene descritta – in sé e per sé – come una sorta di colpa naturale e ciò nonostante (o perfino proprio per questo) drasticamente irredimibile. Quello che a mio avviso è il capolavoro piú intenso di Mizoguchi muove da una prolessi che coglie in incipit la matura età di O-Haru (Kinuyo Tanaka), ovvero la sua estrema decadenza: quasi come una derelizione e uno schianto prefigurato nella morte che incombe, in quella morte decretata, cioè, per la donna non piú giovane dalla società dell’epoca. Una lunga sortita analettica (in sostanza il racconto primario) consente di ripercorrere l’esistenza pregressa della cinquantenne, che ebbe il torto – proprio al momento della consacrazione come cortigiana imperiale – di innamorarsi di un maschio di bassa condizione sociale (Toshiro Mifune) e la pena di veder subito applicata, a eterna vergogna dei due amanti, la nemesi inesorabile: l’uomo viene decapitato e la donna è esiliata da Kyoto e declassata al rango di puttana. Il via alla rammemorazione che il testo si accinge a tematizzare è dato dalla pressoché mistica visione subita da O-Haru in un tempio, dinnanzi a una statua buddista, nei cui tratti ella crede di scorgere il volto di Katsunosuke, l’innamorato ucciso, e di cogliere – pertanto – l’intero tragico senso della propria esistenza. Cosí quel che si era poco prima rifiutata di narrare alle compagne di meretricio («Come ti sei potuta ridurre cosí? Ho sentito che lavoravi alla Corte da giovane... come sei arrivata cosí in basso?» – «Non chiedetemi niente del passato!») O-Haru prende a viverlo nel ricordo... e con lei lo ripercorre, come un inesauribile tragitto di sciagura, anche lo spettatore. Data la propria origine aristocratica e la fama di donna dai facili costumi, O-Haru verrà chiamata da un feudatario potentissimo a partorire per lui un figlio che poco dopo le sarà sottratto, per essere cosí espropriata della maternità e subito ricacciata nella melma. L’arroganza della ferocia maschile non cesserà di perseguitarla nemmeno quando la donna tenterà di farsi monaca, poiché sarà sufficiente un attentato sessuale da parte di un profittatore a ripiombarla nell’infamia e a riadditarla al pubblico ludibrio.
Occorre però mettere innanzi, a questo punto, un’osservazione che a me pare assai importante. Il rocambolesco susseguirsi di vicende sciagurate, di cui O-Haru è protagonista e vittima, non sembra poter scalfire in nessun modo la dura, misurata e quasi glaciale neutralità formale con cui Mizoguchi tali vicende narra in immagini e a parole. Una specie di impassibilità dello sguardo, una grammatica della visione scandita da un ritmo estetico di pura contemplazione, una oggettivazione estrema – pur nell’afflato pressoché onirico del presupposto rammemorativo – sottrae al film la partecipazione emotiva dello spettatore (dato che gli nega di fatto l’immedesimazione dell’io-narrante), mettendolo in condizione di valutare tutto con un distacco che nel cinema occidentale – fatta forse eccezione per pochissimi autori, Robert Bresson ad esempio e solo in parte – sarebbe pressoché inconcepibile. E qui sta forse la marca piú autenticamente originale di Mizoguchi, nonché la sua grandezza.
A livello prettamente tecnico-linguistico: l’alternarsi in tutte le scene di piani lunghi e brevi secondo un preciso impianto ritmico, la scelta di una distanza focale media per tutti i personaggi e per tutte le situazioni, con campi mai ravvicinati e conseguenti figure ogni volta inquadrate per intero, i movimenti di macchina lenti e concepiti “a seguire” gli attori nei loro brevi spostamenti trasversali o di fuga, la quasi assoluta assenza di primi piani frontali dei volti a favore di riprese di profilo, e sovente addirittura di spalle, sono tutti elementi di rappresentazione scelti come altrettanti indispensabili mezzi per la piena e adeguata funzionalità linguistica del film: una funzionalità linguistica che per Mizoguchi è garanzia di efficace produzione di contenuto critico da parte del materiale narrativo, da parte della storia allestita in spettacolo. Uno stile calibratissimo, dunque, teso a realizzare un assoluto rigore della rappresentazione, la quale viene concepita come semplice esposizione di fatti e di ripercussioni di fatti, giacché (come già sottolineato) non si tratta per nulla di contingenze soggettive, di personali emozioni e umane reazioni, di dati da descrivere entro il quadro di una casistica particolare, ma piuttosto di oggettive istanze del potere e della cultura, iperdominanti e ipostatiche, sublimate – quasi – nella loro ieratica legalità, in altre parole di inevitabili e già da sempre prevedibili meccanismi di un accadere che non potrebbe essere diverso da ciò che è, che non potrebbe manifestarsi diversamente da come si manifesta, entro quei presupposti (anti)storici dogmatici e violenti.
«Spero che arrivi un tempo in cui ci si potrà amare senza preoccuparsi della classe sociale», sono le ultime parole di Katsunosuke, pochi secondi prima che la sua testa sia mozzata; ma il colpo di spada che la recide è lí a dimostrare che quel tempo non potrà mai giungere, è lí a sancire la stasi pantocratica di una società che non conosce il divenire e il mutamento. E le parole di Katsunosuke, da quel colpo, sono messe a tacere per sempre.
L’unico concetto disponibile alla nostra psicologia che possa indicare il modo in cui gli avvenimenti accadono in Vita di O-Haru è dunque – alla fine – quello di fato, nell’accezione mitica del termine. Ma vi è ancora una differenza, una difficoltà. Nei greci antichi, nelle narrazioni omeriche, il fato è sovrumano, si muove secondo logiche impersonali perché correlate al divino, insediate in un altrove della volontà che all’uomo non compete né comprendere né mutare; mentre in Mizoguchi sono gli uomini, la vita sociale degli esseri umani (una vita che sembrerebbe addirittura da loro scelta) a determinare la stessa ineluttabile predestinazione dell’accadere... E allora qui c’è qualcosa che per noi non torna. Nulla ci è detto delle emozioni dei personaggi del film, nessuna psicologia si applica alla recitazione e alle tecniche di ripresa, che non concedono nemmeno la piena visione dei volti, degli sguardi, delle espressioni facciali. Nella narrativa cinematografica occidentale, classica e no, lo spettatore sa sempre (è di continuo chiamato a sapere) quel che i protagonisti della storia provano sentimentalmente, al di là di quello che fanno o dicono. In Mizoguchi, al contrario, apprendiamo dalle sole parole e dai soli fatti tutto quel che c’è da sapere (invero pochissimo) circa le emozioni e i sentimenti di uomini e donne. La psicologia è bandita giacché, con ogni evidenza, nulla essa conta ai sensi dei destini e delle tragedie che incombono, nella disumanazione totale di cui gli esseri umani sono vittime! Si ama per coazione disperata, si muore per conseguenza predestinata. Eros è thanatos perché né erosthanatos – nella classica ricostruzione che Mizoguchi propone della non-vita nipponica arcaica – avranno mai il benché minimo valore.

 [“Rifrazioni” n. 11, Bologna, 2013]

«IL GRIDO» DI ANTONIONI


Psicovisione del vuoto: il Grido del paesaggio


Ho ancora viva la memoria di quando, ragazzo poco piú che tredicenne, mi trovai per caso a passare con mio padre in una zona di Ferrara che amavo già allora e che ho sempre amato in sèguito, sbalorditiva per quella sua ovvia e facilmente interiorizzabile tristezza, bella come la malinconia, paese e città in un sol tempo, mesta e terribilmente nobile, arrogante nella sua delicatezza: con case basse, di epoca indefinita, antiche e semplici, uniformi, piú che sobrie... pressoché sussurrate dal tempo come in un alito di luce scialba: silenti e come vaghe nella prospettiva di strade difettose e lievemente concave al centro, dove al piede e all’occhio si oppongono ispidi acciottolati onnipresenti. Non era la bella Ferrara medievale in senso proprio, non la città dei monumenti dico, ma un’immagine piú dimessa (e per me piú vera) della magnificenza degli estensi: era quell’estremo lembo della zona vecchia che sta tra il corso della Ghiara – cosí detto perché un ramo del Po vi fu coperto da Biagio Rossetti all’alba del Rinascimento – e la via Scandiana, al temine della quale, negli stessi anni, i pittori di Borso si arrabattavano a suscitare Mesi sulle vaste pareti di Schifanoia.
E non avrei il ricordo di quel transito mio specifico – io, che in quella zona ci ritorno ogni qual volta approdo alla città dell’infanzia e del rimpianto, alla mia Ferrara odiata con amore, come si possono cordialmente odiare solo i rimorsi – se mio padre non mi avesse indicato, quel giorno, una casa in particolare – non so piú quale – come la casa di Michelangelo Antonioni... e se non avesse aggiunto, in tono tra la deferenza e il compiacimento, che si trattava del piú grande autore cinematografico nostro paesano, ovvero di un ferrarese tra i piú grandi in assoluto. Osservo qui – e anche questo partecipa ai rimpianti – che alla fine degli anni Sessanta il medico di campagna, mezzo contadino e mezzo chirurgo, già conosceva le opere del regista piú difficile e introverso, del piú complicato e anche contestato tra i creatori del cinema italiano! Io no, ovviamente, ma quel nome mi è rimasto dentro come un segno di fuoco nell’immaginario, come un mito resistente, fino alle successive visioni di Blow Up e di Professione: reporter, nella fase d’entusiasmo dei miei anni liceali e poi universitari, e quindi fino alla passione, susseguente, del recupero delle opere piú classiche, quelle cioè che dovevano aver prodotto l’alta opinione nella mente di mio padre, tra i Cinquanta e i Sessanta: Cronaca di un amore, I vinti, Il grido, L’avventura...
Quel che vorrei azzardare è che vi sia un rapporto, anche al di fuori della suggestione di cui son vittima, tra il paese che Antonioni ha sempre vissuto come irrinunciabilmente suo – ovvero anche quando soggiornava a Roma e a Londra – e le atmosfere ansiose, i cieli pallidi, gli strazi urbani, i campi deserti e sconfortanti, le rovine quotidiane, opprimenti e tormentate, che fanno da sustrato psicovisivo alle indicibili sofferenze esistenziali dei suoi personaggi. Tali “visioni”, in parte uscenti dal soggetto appositamente filmato, ossia da quei paesaggi, in parte create a mezzo di sapienti tecniche di ripresa, ossia capaci di rendere tali quei luoghi, concorrono in modo essenziale a determinare la forza mostruosa del cinema di Antonioni, ovvero a costituirne l’efficacia in relazione a ciò che egli vuole narrare. In base a una “poetica” condivisa con un’area importante della poesia del Novecento, da Thomas Stearns Eliot in poi, le immagini della desolazione sono infatti in Michelangelo correlativi oggettivi di ciò che altrimenti non si potrebbe dire affatto, a meno di dirlo in maniera letterale, banale e didattica, del tutto inefficace: la profonda disperazione che è nella vita dell’uomo (occidentale) contemporaneo, la sciagura della sua deviazione tecnicistica e consumistica, la sua perdita di spiritualità e di autenticità nel rapporto sociale e intersoggettivo. Insomma quel che, a fianco di Antonioni, anche se con mezzi assai diversi, andava dicendo nella stessa traiettoria storica – con altrettale e anche piú cupo sconforto – Pier Paolo Pasolini.
Che in Antonioni, come in molti altri registi degni del titolo, si contempli l’urgenza di spremere dal quadro visivo (qui inteso come sfondo, e dunque completamento dell’azione scenica) tutto ciò che esso può conseguire nella definizione di un senso morale, di una persuasione indotta, tale da riqualificare gli atti, i gesti, gli sguardi, le parole e ancor più i silenzi, dei personaggi, come qualcosa che ne determina – non per convenzione simbolica: per convergenza e per correlazione oggettiva, e pertanto, semmai, nel flusso potente di una produzione allegorica – la temperie psichica, è dato ovvio e che non metterebbe conto di sottolineare, in linea di massima... Ma in lui, diversamente che in altri – e in ciò è il punctum – non è tanto la ricerca dell’eccezione, dell’insolita visuale, a fare testo, quanto piuttosto l’adesione a una norma paesistica già data, ritrovata senza troppo sforzo nella realtà vissuta e nella memoria, che è “normalità” (appunto) per chi ha sentito sulla pelle propria e di tutti, fin da quando è nato, la gravità opprimente di un vuoto dell’aria e delle cose, dell’orizzonte lontano e del cielo sempre pallido che lo sovrasta (e su di esso preme), nelle lande inospitali della campagna ferrarese e nelle vie deserte per definizione della piccola capitale di una “bassa” che è tra le padane la piú bassa di tutte.
Si noti che nei films di Antonioni sono assai rare le costruzioni temerarie di inquadratura, e che l’azzardo pirotecnico a forte impatto emotivo è quasi del tutto assente dalla sua opera. Dico – per farmi intendere – le riprese alla Welles (come il bastione di Acapulco visto dall’alto di un elicottero in The Lady from Shanghai, o i soffitti minacciosi di Citizen Kane, o i quadri sghembi a chiaroscuro espressionista in The third man, tutto wellesiano anche se firmato da Carol Reed... per non parlare delle acrobazie di cinepresa in Touch of Evil o dei montaggi a fotocollage impazzito di F for Fake), oppure potrei dire ancora il simbolismo visivo delle rotazioni doppie e triple di ripresa in Fassbinder (Martha e Roulette cinese), o ancora le zoomate rapaci in Hitchcock... E potrei continuare a lungo, se solo osassi sfiorare i nomi di Jean-Luc Godard o di Dziga Vertov. Certo, anche nel ferrarese troviamo esempi notevoli di gestione sperimentale della tecnica di ripresa – e basterebbe rammentare il piano-sequenza finale di Professione: reporter, con la lentissima, magica e necro-metaforica, avanzata dell’occhio della macchina (e dunque dello spettatore stupefatto) oltre la grata della finestra, dall’interno all’esterno, oppure il ralenti infinito dell’esplosione della villa in Zabriski Point – ma è come se queste prove d’abilità non fossero del tutto indispensabili alla definizione del suo cinema.
Il fatto è che, di fatto, non lo sono, poiché non su di esse si basa l’energia (incredibile energia!) del linguaggio di Antonioni. Diciamo piuttosto che ciò che rende uniche e fortemente espressive le calme e calibratissime inquadrature dei suoi primi films, e piú in generale di tutto il suo cinema, è la capacità di creare attraverso di esse (per mezzo di sfondi paesistici che sono là a surdeterminarne il senso – sur o sub... anche in modo subliminale, plausibilmente) atmosfere interiori di una densità che si pone ai limiti dello psicologicamente tollerabile. Ne Il grido – che è probabilmente il suo piú alto capolavoro giovanile (1957) – una mano tesa nel vuoto, ad esempio, è qualcosa che si staglia sopra un varco visivo effettivo, un vuoto dell’anima trasferito al vuoto dello scenario rurale piatto e privo di volumi, dove in verticale si stagliano – quasi a costituire la migliore delle ipotesi – linee sottili e senza spessore di pali elettrici o di spogli filari di pioppi schierati in parate spettrali lungo canali stretti e a loro volta rettilinei in fuga trasversale verso l’invisibile...
Pianura sconciamente disumana, giacché disumanata, depravata dalle opere violente di insediamenti spietati e spietatamente improvvidi, lungo i secoli, che reca la memoria del proprio smarrimento progressivo: pianura maledetta da accanimenti di abuso intenso di ogni zolla coltivabile e resa ancor piú “sterile” dal carico infinito di un’infinita e dolorosa (umana o disumana) rassegnazione: prodotto incongruo e increscioso di bonifiche che la malaria hanno solo trasferita, per cosí dire, in una ubiquità pervasiva, travasando la palude del disincanto fin dentro le midolla delle cose e delle case. Oppure case e paesi interi di inospitale infelicità, come Francolino sul Po, in mezzo a quelle lande: case che son piú tetre – dietro facciate di parvenze di un piccolo benessere – dell’inferno del villaggio di Kurz nel fitto della giungla, nel Cuore di tenebra, e comunque tenebrose come l’inferno della vita insensata che accudiscono.
Il grido! L’allegoria vi agisce su tutti i piani e su tutti i livelli: nell’estenuante risposta che le sequenze dànno alla lentezza del paesaggio, nell’influenza reciproca di quadri e situazioni narrative, nel richiamo continuo a “spine nel fianco” (della vita) che il visivo in quanto tale, in quanto contesto, infligge a tutto ciò che di umano esso ammette (ma per tolleranza, si direbbe, piú che per ospitalità), e nello scontro e nel conflitto – infine – tra gli atti e le parole dei personaggi e la “divina Indifferenza” di quelle non-cose, non-oggetti, che sono le cose e le case della campagna ferrarese. Francolino e Stienta rappresentano Goriano: una crasi, non solo lessicale, di Goro e Ariano, entrambi situati sul Po ma a un diverso grado di “altitudine”: in quella voragine progressiva che il fascino malato della foce apre su ciò che finge di fecondare, per inghiottirvi – si direbbe – tutto il vegetale e l’animale che la contaminazione richiama a sé. E poi Ravenna, giustamente a far le vesti di Ferrara, in quanto essa stessa (simile nell’atmosfera, ma forse per il regista meno “marcata” di fastidiosi sentimenti) padana e palustre nel piú profondo delle viscere, e altresí nel piú liscio della pelle.
Centrale, perché ripetuto come un’ossessione, è il non-luogo della pompa di benzina, dove Aldo per un poco si rifugia nel suo falso movimento: lievemente rialzato per l’argine di un canale, tale “punctum” della catastrofe non può che leggersi come ripetizione differente di un’altra e piú antica Ossessione fluviale: quella dell’osteria della Dogana, 1943, nel primevo stupendo grido di consenso alle “tematiche della miseria” da parte del piú aristocratico dei maestri del cinema italiano, Luchino Visconti, che era stato preparato a quel fatale coup de dés – in piena guerra, in pieno fascismo moribondo, in piena catastrofe della patria – dai realisti poetici francesi, da Vigo, da Renoir e da Carné, i primi (forse) ad allegorizzare in dimensione di tragedia l’ambiente fisico di una società di miserabili. Ma in Antonioni, nel suo Grido, lo sconfinato squallore del paesaggio (umano e disumano) fornisce il significante allegorico con solerzia ancor piú immediata. Quasi elementare, visto oggi... ma bisognava accorgersene! Muovendo in doppia direzione dalla pompa di benzina, dalla casa della benzinaia, vagamente opulenta e perfino carnalmente ospitale, ma tuttavia disperata, la strada parte dirigendosi nel vuoto: ovunque si vada, si cade nel nulla. E la fuga è sempre e solo sconfitta, ritorno inopinato, circolo vizioso.
E poi quella torre industriale da cui Aldo si getta, quell’ambiente (umano e disumano) che fa da sfondo al compianto finale dell’opera, quell’alberello spoglio – a sinistra della madonna china sul suo cristo – che richiama consimili arbusti simbolici nelle Pietà del Quattrocento belliniano, dove il grido è già lanciato nel vuoto prima ancora che Irma possa emettere un suono, e anche dopo che il suono si è fatto silenzio mortale, tutti questi elementi non fanno che “realizzare” per il cinema quel che forse la pittura “realizza” da sempre (non potendo in vero disporre d’altra forma linguistica di descrizione): che il dramma degli esseri viventi è specchiato nei luoghi in cui essi vivono o son gettati a vivere. «L’accordo straziante tra la spoglia livida del Cristo, come corazzato dalla morte, e il picco immobile della Vergine impietrita che sovrasta i monti lontani; il funereo pennacchio e lo sterpo attoscato sulla roccia levata di quinta a stringere l’intarsio freddo e rigato del cielo dopo la tempesta d’autunno; i monti di verde lavato presso il borgo pallido; ogni cosa si rilega in una lettura netta e crudele, senza comparazione a quei tempi.» (Roberto Longhi, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, sulla Pietà di Giovanni Buonconsiglio, poeta di un solo dipinto, 1495 ca., Vicenza, Musei Civici).

[In “Rifrazioni” n.10, Bologna, 2012]