SIDEWAYS – IN VIAGGIO CON JACK
di Alexander Payne
(Pubblicato in «Carte di Cinema», n. 17, Siena, 2005)
In un mondo ideale: una bottiglia di Chambertin nel coq-au-vin
e due sulla tavola. (Hugh Johnson, The Pocket Wine Book)
Il Pinot Noir è un’uva meravigliosa, dalla buccia sottile e delicatissima, che richiede cure e attenzioni assidue, nonché un “terroir” adeguato e un clima assolutamente eccezionale. Predilige infatti i pendii di calcare sabbioso misti a ghiaia sottile, poco scoscesi e capaci di esposizioni estreme (fino a 15 ore di sole al giorno, in estate) e però ugualmente freschi tutto l’anno... Un’uva a chiasmo e a spasmo, capricciosa quanto una donna impossibile. Le piante iniziano a dare un frutto degno di vino solo dopo molti anni di costante dedizione (troppi), e poi sono comunque ancóra insopportabilmente fragili e al limite del tutto imprevedibili. Le bacche che finalmente le viti si degnano di produrre – quando si degnano! – vengono a guastarsi per un niente, per uno zefiro di troppo, e rapidamente avvizziscono già prima d’essere mature. Il viticultore, che giorno dopo giorno ha accudito la loro problematica crescita, incoraggiandone tutte le inesauribili pretese, deve allora intervenire di forbici feroci e amputare senza pietà i grappoli, buttare a terra la maggior parte dell’uva, per far sí che la poca risparmiata raggiunga l’ideale perfezione: quella che dai tempi di Giovanna d’Arco va a nutrire i sontuosi vini delle tavole dei príncipi, i grandissimi Bourgogne rossi. Si dice che a Chambolle-Musigny e a Gevrey-Chambertin, nei “crus” il cui nome (caso unico al mondo) dà il titolo ai villaggi stessi, oppure alla Tâche o a Richebourg, o anche nel medioevale Clos de Vougeot, i ceppi di Pinot Noir vengano potati fino a recare ciascuno due miseri tralci, e che al momento della vendemmia ciascun ramo non rechi che due soli grappoli d’uva: quattro grappoli a pianta, per la matematica, i quali – una volta vinificati con le cautele di cui soltanto gli alchimisti di quelle contrade possiedono il segreto – daranno succhi eccelsi e di apicale finezza. Con prezzi del tutto conseguenti. Fatto sta che fuori di Borgogna (ed anzi fuori di quel suo ventricolo magico che è la Côte de Nuits) il Pinot Noir – diciamolo una volta per tutte – non vale quasi nulla! Anche se nelle aziende californiane si tenta oggi di competere...
Ebbene, l’elogio del Pinot Noir è il punto forte, culminante, del film di Alexander Payne, piacevole prodotto artigiano della fervida cucina cinematografica americana (non un coq-au-vin per viziosi gourmets, dunque, ma un buon pane caldo e profumato per tutti). Messa in bocca al protagonista Miles (Paul Giamatti), l’apologia del varietaleribelle costituisce la silloge e la sineddoche dell’intera operazione filmica. Uscito in modo disastroso dall’unica grande relazione coniugale della sua vita, con quelle parole Miles – una sorta di disperato utopista del palato e dell’amore, oltre che uno scrittore fallito che va cercando in terra una perfezione che nemmeno nella sfera delle pure essenze potrà mai realizzarsi – metaforizza in realtà la propria vocazione all’assoluto, che è poi il sogno di una generosità senza riserve, di una passione che sia davvero e fino in fondo tale, e che (ecco la contraddizione, l’utopia maggiore) venga infine ripagato da una speculare generosità, ovvero dall’esito piú alto: la fedeltà al sacrificio speso, il vertice qualitativo del risultato. Infatti tale encomio del Pinot Noir Miles lo dedica a una donna, alla cameriera-sommelier Maya (Virginia Madsen), parlandole con un bicchiere in mano nella sequenza clou della pellicola, dove, tra i fumi dell’alcol, egli si lancia nell’impresa titanica dell’intorto enobolico, avendone in premio la stupita ammirazione di colei che – nel lieto fine della vicenda – si rivelerà la sola in grado di aiutarlo.
Nel suo snobismo sconfinato e anche un poco ciarlatano, ma decisamente ben congegnato, Sideways di Alexander Payne è nient’altro che questo: l’apologia dell’amore (trasfigurato in vino, come il sangue del sacrificio) quale impegno meticolosamente profuso in una insistita e rituale devozione. La ricerca tormentosa – eppur banale, dato che è calata nelle coordinate narrative di un viaggetto da turisti della domenica – della esperienza enologica fatidica, della bevanda che lascerà stupefatti e annichiliti i suoi apostoli, schiude pertanto l’allegoria di una ermeneusi della felicità in terra che solo l’amore vero e grande, nonché pienamente corrisposto, potrà officiare.
Cosí l’altro protagonista del film, l’amico Jack (Thomas Haden Church), fatalmente va a sussumere in sé, come Giuda con Cristo, la sgradevole ma necessaria parte del polo dialettico-oppositivo: egli, con la sua spasmodica brama di una soddisfazione erotica temporanea (si tratta infatti dell’ultima apoteosi del piacere che si concede il celibe in procinto di sposarsi), con la sua vitalità da casanova da discoteca, con i suoi trucchetti e giuramenti da impostore, con le infinite astuzie atte a procacciargli amplessi rapidi e furtivi con il maggior numero di fanciulle tra quelle che incontra, rappresenta il male da esorcizzare, la menzogna da smascherare, la frivolezza e la superficialità delle emozioni facili, delle estasi triviali e a buon mercato, le quali poi – è inevitabile – lasciano pure l’amaro in bocca... In termini paralleli, nell’allegoresi baccanalica: il vino di piú facile seduzione, il Cabernet Sauvignon.
Don Giovanni Jack «non si picca se sia ricca, se sia brutta, se sia bella...» e zompa su ogni femmina che gli càpita a tiro con il solo scopo di scoparla, mentre il suo alter-ego contrapposto, Don Chisciotte Miles, è interamente votato all’unica e irripetibile Dulcinea del proprio delirio, e dunque è discepolo di quell’intensità di fusione panica che solo amor nodus perpetuus et copula mundi può arrecare nell’esperienza di un uomo: per renderne la vita degna di essere vissuta (ovvio). I due non sono tuttavia avversari, ma inseparabili amici. Ciascuno dei due rimprovera e maledice l’altro; ma, nel sustrato platonico che li avvince, ciascuno dei due ama profondamente l’altro, giacché dell’altro ammira (e perfino invidia) ciò che nel proprio io è assente. Imprescindibile complementarietà delle figure dialettiche, conjuctio oppositorum.
Dopo una serie di scabrose vicissitudini – comiche e tragiche in un sol tempo – e con l’amaro in bocca per l’appunto, Jack farà ritorno a casa (go home, yankee) per affidarsi in modo sobrio e tuttavia definitivo (si presume) alla donna che ha accettato di sposarlo; Miles, dal canto suo, giungerà fino al punto di buttare alle ortiche gli universalia su cui ha costruito la propria morale, dato che il loro tonfo risuona fin troppo catastrofico: l’amata ex moglie si è rimaritata senza neppure dirglielo, e ora dall’altro uomo attende addirittura un figlio, piú precisamente quel figlio che dal nostro teoenologo non ha mai accettato; il libro dell’anima, il romanzo della gloria sempiterna, che per l’ennesima volta Miles aveva proposto a un editore, per l’ennesima volta (e una volta per tutte) è stato rifiutato.
Emerge cosí un’altra poderosa metafora dal cuore alcolico del film. Da anni Miles conserva in un armadio, come un tesoro sepolto, una bottiglia di incomparabile pregio, la quale dovrà essere aperta – va da sé – solo in una circostanza eccezionale, solo per una formidabile occasione (per altro è un vino che nel corso degli anni può solo migliorare...). La ricomposizione del matrimonio perduto? La celebrazione del ritorno alla felicità amorosa? La pubblicazione del libro in un’orgia di fama letteraria? Ecco che lo vediamo, invece, verso la fine del racconto, furiosamente imperversare contro lo Chateau Cheval Blanc (St.Emilion Grand Cru) 1961 armato di un cavatappi qualsiasi, e criminalmente “tirare il collo” al sacro involucro in cucina, e poi fiondarsi con la medesima bottiglia in una squallida steckhouse per mangiare hamburger e patatine fritte in accostamento al nettare sublime... E, come se tutto ciò non bastasse, tracannare lo Cheval Blanc da un bicchiere di plastica usa e getta (cristallo purissimo a lungo stelo con maestoso invaso bordolese, prescrive Johnson, da degustarsi sui rognoncini d’agnello trifolati, o preferibilmente sull’anatra alla pèsca, o anche, se proprio non è possibile, sulle pernici in salsa). Ossimoro blasfemo! L’unghia imperfettibile di uno piú prestigiosi Bordeaux dell’universo coartata a un coito immondo con il bianco del moplen... Il fato si è compiuto, l’amore è distrutto. E la dissacrazione non potrebbe essere piú atroce. Come inebetito, Miles trangugia la mitica bottiglia in un soffio.
Ma... occorre riflettere. Ed è ciò che infatti sta facendo Miles durante la deglutizione infame. Benché superbo vino rosso, uno dei piú corposi in assoluto, lo Cheval Blanc è fatto con Merlot e Cabernet Franc... càspita, mica con Pinot Noir! Il film non lo dice, ma noi sappiamo che questo è il dato risolutivo. E allora tutto torna, il cerchio si chiude: la Côte d’Or è altrove, è là che aspetta, e non è nemmeno tanto lontana, è nella Santa Ynez Valley medesima, e sopra tutto è salva. Non resta che andarci, non resta che tornare da Maya, bibita matura eppur sempre giovane e magnifica come un Romanée-Conti del 1966. E’ lei la vera occasione a portata di mano, quella che per un soffio non è stata versata...
Vediamo Miles che bussa alla porta della ragazza. Applausi.
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