LA MACCHINAZIONE LINGUISTICA
Uno studio
del rapporto Duchamp-Roussel
(pubblicato in «Corposcritto», n. 3, Bari, 2003)
1.
Secondo
la sua stessa testimonianza, all’età di venticinque anni e poco prima di
inaugurare la riflessione che lo porterà al Grande
Vetro, Marcel Duchamp fu spettatore della versione teatrale delle Impressions d’Afrique di Raymond Roussel[1], un’opera (e uno scrittore) la cui influenza sulla
concezione complessiva della Mariée mise
à nu par ses célibataires, même è stata a mio avviso decisamente
sottovalutata. Riflessi dell’ammirazione del giovane Marcel per quello
spettacolo si possono reperire tra i ricordi di Apollinaire, che lo vide
insieme a lui e a Picabia al Théâtre Antoine di Parigi nel 1912, dopo che la
prima apparizione del testo rousseliano, in veste di romanzo, si era rivelata
un fiasco assai doloroso per il suo autore.
E’
probabile che proprio dalla “sinistra partitura” delle Impressioni d’Africa, ridondante di strani e assurdi marchingegni,
sia venuta a Duchamp la spinta piú forte a interpretare in direzione “meccanomorfa”
il già acquisito metodo cubista: una svolta attestata dai principali dipinti
del 1912 — Giovane triste in treno, Nudo che scende le scale, Il re e la regina circondati da nudi veloci
— e destinata a metterlo in contrasto con i piú anziani esponenti dell’avanguardia
francese, dato che subordinava i nuovi motivi di analisi e scomposizione della
forma agli scopi di una esaltazione del
dinamismo meccanico tutto sommato estranea alla logica cubista e, semmai,
in grado di richiamare alla mente (sia pure a uno sguardo un po’ superficiale)
certe esperienze del futurismo italiano. Ed è certo — se non si vuole pensare a
un’inutile menzogna da parte di Duchamp stesso — che proprio il testo
rousseliano abbia fatto scoccare in lui la scintilla che lo porterà in breve a
concepire il complesso apparato mitico-macchinico del Grande Vetro. Infatti è vero che con Duchamp c’è sempre il rischio
di prendere abbagli, ma talora sarebbe forse sufficiente affidarsi alle
dichiarazioni di un artista per iniziare a capirlo! Ascoltiamo una sua risposta
del 1966 a Pierre Cabanne:
Fu formidabile [...] era assolutamente la follia dell’insolito. — Forse
la sfida al linguaggio lanciata da Roussel corrispondeva a quella da lei
lanciata alla pittura? — Se proprio vuole! Non chiedo che questo! (Duchamp
1966, trad.it.: 46-47).
Nonché
alcune frasi di vent’anni prima, tratte dall’intervista Sweeney:
Roussel suscitò il mio entusiasmo d’allora. Lo ammiravo perché arrecava
qualcosa che non avevo mai visto. Solo questo può suscitare dal mio piú profondo
essere un sentimento d’ammirazione — qualcosa che basta a se stessa [...]. E’
Roussel che, sostanzialmente, fu responsabile del mio Vetro, La Mariée mise à nu par ses célibataires,
même. Furono le sue Impressions
d’Afrique che mi indicarono a grandi linee la prassi da adottare. Questa pièce che vidi in compagnia di
Apollinaire mi aiutò enormemente in un uno dei miei modi di esprimermi. Vidi
immediatamente che potevo subire l’influenza di Roussel. [...] E Roussel mi
mostrò la strada (Discorso – Conversazione
con J.J.Sweeney, 1946, Duchamp 1975, trad.it.: 148-149).
Ora,
per restare al problema accennato, ossia all’atteggiamento di Duchamp nei
confronti delle avanguardie a lui contemporanee, se riusciremo a comprendere
(con sufficiente precisione) in quale senso “Roussel mi mostrò la strada”,
saremo anche in grado di cogliere tutta la distanza che separa il nostro dalle
teorie del dinamismo futurista italiano — intorno al 1912 e a maggior ragione
piú tardi — e, perciò, la clamorosa infondatezza delle accuse che gli mossero i
“compagni di strada” francesi.
Da
ribadire, intanto, è il fatto che a Marcel non interessava per nulla il
dinamismo “in sé” del mondo esterno o il mutamento provocato dal tripudio della
tecnica nella vita quotidiana. Egli non provò mai alcuna simpatia per le opere
e le posizioni teoriche di Marinetti, di Boccioni e di Balla, che avevano per
lui il difetto — a non dir di peggio — di essere ideologiche, apologetiche,
filomoderniste e totalmente prive di ironia:
Non c’era futurismo, anche perché io non conoscevo [al tempo del Nudo che scende le scale] i futuristi.
Per me i futuristi sono degli impressionisti urbani che, invece di fare delle
impressioni di paesaggio, si servono della città (Duchamp 1966, trad.it.: 48).
Impressionisti urbani: che colgono, quindi, dello sviluppo tecnologico e
delle recenti rivoluzioni in àmbito scientifico gli aspetti piú superficiali,
le parvenze esteriori, le ricadute sul piano della sensibilità psicologica
comune e della mera percezione visiva.
Personalmente
sono convinto che per cogliere il profondo significato della presenza della
macchina (e bisognerebbe anzi dire della nuova coscienza scientifica) nell’arte
di Duchamp sia necessario soffermarsi, appunto, su alcuni tratti della
scrittura e dell’immaginazione di Roussel. Nei romanzi di quest’ultimo, cosí
come nei suoi testi teatrali (da Impressioni
d’Africa a Locus Solus, da Polvere di soli a La stella in fronte), l’elemento macchinico svolge un ruolo di
primissimo piano, qualificandosi come un vero e proprio incubo costante. Tutto
si realizza a partire da “ritrovati della scienza”... Ma, occorre precisare,
non dalle macchine note e realmente impiegate nei vari campi della produzione o
dell’uso quotidiano... No, poiché gli apparecchi di Roussel sono sempre
fantastici, mirabolanti, improbabili. In essi, anzi, sembra essersi depositato
tutto l’immaginario onirico di uno scrittore che vorrebbe essere il nuovo Jules
Verne e che probabilmente è solo un maniaco ossessionato dalla propria “carenza
di immaginazione”[2]. Basti ricordare che Locus Solus — che farà piú tardi delirare di gioia Breton — è
imperniato sulla figura di un “formidabile scienziato” il quale, nel parco
della sua villa, mostra ad alcuni visitatori le proprie scoperte e invenzioni:
in pratica una sequela di dispositivi meccanici e biologici, di automi, di
prodigi dell’assurdo, di congegni tanto complessi quanto inutili (o utili solo
a “far pensare”, a stimolare la vis
phantastica dei fruitori); e l’intero libro — nient’altro che il racconto
di una visita guidata a tale museo, iperbolico e ipotetico — è solo un prolisso
e ragionato elenco di astruse meraviglie fantascientifiche, benché sia uno dei
libri piú affascinanti della sua epoca.
Ebbene,
anche quando non si sapeva ancóra quale “macchina linguistica” il narratore
avesse impiegato per scrivere i suoi romanzi (la rivelazione postuma è in Come ho scritto alcuni dei miei libri)[3], ai piú avveduti tra i suoi estimatori doveva già
apparire chiara almeno una cosa: che c’è un rapporto profondo, e per cosí dire
organico, fra le trovate che pullulano in quelle opere e il linguaggio che le
modella descrivendole. In altre parole, che esse sono nient’altro che il
prodotto di un accanito lavoro sul significante verbale, lavoro di
scomposizione e di gioco linguistico. Sono metafore del linguaggio, che vengono
generate dagli ingranaggi della scrittura e ad essi rimandano...
L’ossessionante protagonismo del dispositivo meccanico in Roussel allude quindi
al carattere di machinerie che la sua
opera inizia ad assumere già nella fase della propria costruzione: un carattere
ben visibile “a occhio nudo”, ossia, come suggerivo poco fa, anche in assenza
di consapevolezze circa i metodi specifici (che formano il procédé)messi in funzione per realizzarla.
Il
metodo che lo scrittore, al momento di redigere il proprio testamento, dichiarerà di aver seguíto — pretendendo perfino di
lasciarne in eredità l’utilizzo ad eventuali epigoni[4] — riproduce infatti il funzionamento della macchina
in quanto sovvertitrice di rapporti di forza. La macchina, assumendo il
comportamento di una trappola tesa
sotto i piedi delle forze della natura, riesce a far compiere a quelle forze il
lavoro per cui è stata costruita; e il metodo di Roussel fa la stessa cosa: si
comporta, a tutti gli effetti, come una trappola
tesa sotto i piedi del linguaggio, poiché riesce a far compiere al linguaggio
il lavoro che lo scrittore (per inconfessabile povertà di immaginazione) non
può compiere, il lavoro per il quale — appunto — il procédé è stato inventato, che è un “lavoro” di produzione
fantastica[5].
Si
sa come tale metodo funzioni: una frase banale, dotata di un qualsiasi senso
comune (e magari tratta da una sciocca canzonetta alla moda), viene scomposta
per omofonie, o anagrammata, o forzata nel suo doppio senso, in modo tale da
ricavarne un insieme di elementi linguistici — parole o frammenti di frasi —
che andranno ricomposte in una struttura sintattica e di contenuto nuova, ossia
ricollegate logicamente grazie all’intervento “creativo” dello scrittore[6], il quale, nel “restituire” un significato alla
frase trasformata, finisce per entrare in possesso di una situazione narrativa
da sviluppare. Reiterando il procedimento su altri elementi linguistici via via
affrontati, egli ha poi la possibilità di arricchire la dimensione fantastica
“trovata” e di porsi di fronte a una vera e propria genesi del romanzo dal seno imprevedibile del linguaggio.
Non soltanto — osserva Michel Leiris — il procedimento impiegato da
Roussel per la composizione delle opere in prosa ha un immenso interesse perché
restituisce deliberatamente al linguaggio il suo ruolo di agente creatore
invece di contentarsi di usarlo come strumento esecutivo, ma si direbbe che
l’assoggettamento a una regola speciosa e arbitraria [...] porti come conseguenza
a una distrazione il cui potere liberatorio appare molto piú efficace che non
l’abbandono puro e semplice, connesso all’uso di un procedimento come la
scrittura automatica (Leiris 1954, trad.it.: 297-298).
E il riferimento alla scrittura
automatica non sarà poi cosí gratuito (come potrebbe magari apparire a
prima vista) se è vero che — pur tenendo conto della sua volontaria estraneità
a tutte le poetiche di gruppo e a qualsiasi ideologia d’avanguardia — è proprio
alla pretesa surrealista di legare a rigorose “tecniche” la sola chance di liberazione dal senso comune indotto che Roussel può
essere legittimamente accostato[7].
La
constatazione che si impone è ora la seguente: l’indiscutibile casualità a cui
il procédé si affida (e su cui, anzi,
si fonda) non esime affatto i romanzi dalla ripetizione di situazioni ben
definite e sempre riconoscibili, quasi grottescamente ricorrenti, che vengono a
formare infatti una sorta di “mania” rousseliana... Il dato è estremamente
rilevante, perché quelle situazioni non fanno che riproporre il ruolo della
macchina (della condizione ingegneresca e para-scientifica, piú in generale)
come metafora ossessiva interna del
meccanismo procedurale esterno. Come dire — appunto — che il procédé, in quanto macchina per la
narrazione, non può che partorire (a livello di contenuti fantastici)
narrazioni di macchine. E come stupirsi, allora, del fatto che tali “macchine
narrate” abbiano per lo piú lo scopo, nella fabula
rousseliana, di produrre fenomeni estetici e, dunque, a loro volta (ancóra una
volta!) linguistici?
Tale
circolarità perfetta (dal linguaggio che genera macchine alla macchina che
genera linguaggio) è ben visibile in Locus
Solus, dove le invenzioni del protagonista-genio Martial Canterel sono
quasi sempre mostruosi marchingegni atti a permettere una fruizione
estetizzante dei prodigi della scienza. Il fine di questi dispositivi (nel
senso piú stretto del termine) è quello di illustrare, secondo diverse e
svariate modalità, altrettante ingenue tipologie di “produttività artistica”
ricavata da fenomeni naturali, o anche di trasformare il naturale stesso in
“artificiale” — come se alla fin fine lo scopo ultimo e piú vero della ricerca
scientifica non fosse, appunto, che quello di piegare la natura a scoprirsi linguistica,
a farsi luogo di eventi estetici in quanto stupefacenti o stupefacenti in
quanto estetici.
Nel
secondo capitolo del libro, ad esempio, un terribile e portentoso congegno
sfrutta le forze congiunte dei fenomeni meteorologici, del calore solare, dei
processi di riflessione e rifrazione della luce, nonché alcune proprietà
chimiche di certe sostanze, per costruire un mosaico di denti umani[8]. Questa “macchina-ballerina” — pur derivando dalla
casuale scomposizione omofonica della frase demoiselle
à prétendant [fanciulla da marito] in demoiselle
à reître en dents [“ballerina”, nel senso di apparecchio da pavimentazione,
per un “raitro”, ossia un cavaliere medioevale, in denti][9] — incarna la possibilità di realizzare un’opera
d’arte a partire dalla collaborazione ingegneresca tra un oggetto tecnologico e
una serie di elementi naturali. La demoiselle,
come afferma il suo inventore nel romanzo, è “capace di creare un’opera
estetica dovuta unicamente agli sforzi combinati del sole e del vento”. E
riproduce perciò, in via metaforico-metonimica, il procedimento impiegato da
Roussel per immaginarla, per arrivare a concepirne l’idea. Essa è l’immagine
stessa dell’autore alle prese con il linguaggio e con il romanzo da scrivere:
collaborazione ingegneresca tra il dispositivo di deflagrazione linguistica e
una logica fantastico-pulsionale che, assecondandone i referti improbabili,
giunge a conferire loro un sia pure allucinatorio senso.
2.
In
Roussel il piano della narrazione (il processo della scrittura) ripete il piano
del narrato, l’a-priori procedurale ricalca la linea dei risultati raggiunti,
in una inesorabile doppia matematica dell’assurdo. Non solo la demoiselle di Locus Solus, ma tutte le macchine rousseliane assolvono a questa
primaria funzione: mostrare che l’arte (la vis
ideativa che ne sta alla base) può sprigionare solo dalla fusione di due
termini contraddittòri, un elemento tecnico di pura astrazione intellettuale —
completamente irrelato al piano del pensiero oggettivo — e una serie di dati
materiali riferibili al mondo naturale.
Nella
sua introduzione a Locus Solus, Paola
Dècina Lombardi suppone giustamente che
se da Impressions d’Afrique Duchamp
ricaverà i primi spunti, è nella demoiselle
di Locus Solus che troviamo maggiori
analogie con la Mariée (cfr. Roussel
1914, trad.it.: VIII).
La “signorina da marito” della frase eponima rousseliana, che
linguisticamente partorisce la macchina-artista di Canterel, è divenuta in
Duchamp la “sposa”, il principio ispiratore del Grande Vetro.
Ora
è fuor di dubbio che, quando il libro di Roussel apparve in libreria, nel 1914,
Duchamp aveva già progettato le forme della Mariée
in senso stretto[10], e aveva ideato alcune delle parti dell’Apparecchio Scapolo: la Macinatrice di cioccolato, che è del
1913-14, la Slitta contenente un mulino
ad acqua in metalli vicini, ideata tra il 1913 e il 1915. Ma ciò non
impedisce che il secondo grande romanzo di Roussel, autore di cui egli aveva
già immensamente apprezzato, come sappiamo, le Impressions d’Afrique, possa averlo aiutato a definire il principio
informatore della “patafisica” del Grande
Vetro, la cui progettazione complessiva è da collocarsi all’inizio del
primo soggiorno americano, intorno al 1915. E’ questo — assai probabilmente —
il momento in cui gli elementi ideati in precedenza vengono innestati in un
insieme coerente e raccordati tra loro, sia per mezzo di una nuova
distribuzione spaziale, sia grazie a un lavoro per cosí dire “teorico”, che li
supporta di una serie di attribuzioni nominali e definizioni inedite[11]. La macchina, per esempio, subisce una modifica
sessuale: se in Roussel essa era di segno femminile (occorre proprio dire
“segno”: la forma della demoiselle,
una sfera che sormonta una grande croce, rimanda inequivocabilmente al simbolo
astrologico di Venere), nel Grande Vetro
diviene “apparecchio scapolo”, puro principio maschile — sebbene di una
mascolinità “ridotta”, “frustrata”, non del tutto espressa, visto che lo
scapolo è il maschio a cui manca il
rapporto con la femmina.
La
Sposa in senso proprio — cioè
l’entità che “regna” nella parte alta dell’opera in vetro (opus in vitro, come in un esperimento chimico o piú precisamente
alchemico[12]) — è infatti piuttosto un organismo biologico (come
dicono le sue fluttuanti e mobili forme) che non una macchina... Per contro, del
tutto “meccanica” appare la metà inferiore, che la Boîte Verte designa appunto con il nome di Machine Célibataire, “apparecchio scapolo”. Sicché risulta
legittimo sostenere che il Grande Vetro
illustri, tra i suoi diversi significati, anche la vicenda di un amplesso
desiderato (ma non realizzato e forse sentito come irrealizzabile) tra un
soggetto macchinico maschile e un organismo biologico femminile, ovvero — a
livello materiale-visuale — tra un insieme di meccanismi ingegnereschi
(descritti, si noti bene, secondo proiezione prospettica rigorosa) e un
coacervo di elementi biomorfi, la cui descrizione pittorica si intuisce
matematica e rigorosa ma senza poterne individuare alcun principio informatore
certo. Sicché ci troveremmo di fronte al medesimo fenomeno apologizzato in Locus Solus: l’indicazione di un
desiderio di congiunzione utopistica di naturale e cerebrale, di biologia e
matematica, come premessa alla creazione dell’opera d’arte.
La
Sposa che viene messa a nudo dai suoi scapoli è infatti anche l’opera medesima: l’opera d’arte che è “rivelata” ai suoi
fruitori, ovvero dai suoi fruitori necessariamente costruita per il tramite di
un desiderio che ne percorre le membra (altrimenti inerti) vivificandole e
investendole di un significato (l’interpretazione). Quel desiderio, in altri
termini, trasforma un mero congegno visivo in “evento linguistico”, ed è sulla
base di una simile logica che si motiva la scelta, operata da Duchamp, di
affidare a forme (para)prospettiche il dominio della parte inferiore del Vetro. Nel Regno dell’apparecchio celibe, infatti, il rigore della costruzione
geometrico-proiettiva non esclude il carattere — dichiarato nella Boîte Verte — di “imperfezione delle
forme”, giacché si tratta di una imperfezione per cosí dire “etica”, che deriva
dalla loro artificialità, ossia dalla predominanza del macchinico e del
procedimento astrattivo che il macchinico genera:
Le forme principali del dispositivo o utensile scapolo sono imperfette:
rettangolo, cerchio, quadrato, parallelepipedo, ansa simmetrica, semisferica.
Cioè: queste forme sono misurate [...].
Nella Sposa le forme principali saranno piú o meno grandi o piccole, non hanno
misurazione, [...] la loro rappresentazione materiale sarà l’esempio di ognuna
di queste forme principali liberate (A l’Infinitif, 1966, Duchamp 1975,
trad.it.: 102-104).
E non è esattamente questo che distingue il dato naturale
dall’astrazione geometrica che tenta di imbrigliarlo per farne oggetto di un
possesso umano? Da un lato abbiamo “forme” che si dànno nel loro essere libere da motivi e possibilità di
misurazione (incommensurabili), dall’altro la sistemazione che l’uomo opera
dell’esperienza che ha di esse, attraverso l’uso di strumenti intellettuali
inevitabilmente destinati a modificarla e a renderla parziale[13]. Cosí la “volontà-desiderio” piega la natura a farsi
oggetto di conoscenza, e proprio in tale chiave va (anche) letto il titolo che Duchamp ha dato alla propria opera: La Sposa messa a nudo dai suoi scapoli,
ovvero la natura (e le sue forme) messa a nudo (rivelata, esperita) dagli
artifici umani, la natura rivelata dalla
macchina.
Locus Solus, come si è visto, è sorretto da una problematica
analoga. La vicenda di Canterel alle prese con le leggi della natura, non solo
riproduce quella di Roussel alle prese con le leggi del linguaggio (secondo lo
schema natura/macchina = linguaggio/procédé), ma è a propria volta riprodotta
(doppiata) da quella di Julius Egroizard, protagonista della seconda parte del
romanzo, l’uomo-genio che la barbara uccisione della figlia ha fatto impazzire:
Persuaso di essere Leonardo da Vinci, [...] ricollegava alla propria
figlia, il cui pensiero l’ossessionava, le sue universali speculazioni
sull’arte e sulla scienza. [...] Egli si dedicò con grande laboriosità a
delicate pratiche [...] basate su complicatissimi calcoli di distanza e di
calore. [...] L’unico scopo dello sventurato, come attestavano i suoi
incoerenti soliloqui, era di riprodurre la voce della figlia quale si era
rivelata al suo orecchio attento attraverso gli sforzi che negli ultimi tempi
ella già faceva per parlare (Roussel 1914, trad.it.: 205 e 208-209).
La proiezione su Leonardo da Vinci è finalizzata ovviamente a dar corpo
(fisico e storico) al deus ex machina
di Locus Solus, vale a dire all’idea
che l’arte possa essere “realizzata” dalla scienza. E’ in Roussel la
convinzione di tutta una vita, quella che gli ha permesso di scrivere i libri
che ha scritto, quella (medesima) rivelata dal suo testamento.
Cosí
come nella storia della “ballerina” troviamo una macchina che produce pittura,
qui, nella vicenda di Egroizard, pare di poter vedere la ricerca scientifica
alle prese con l’invenzione di “discorsi e melodie”. E, allo stesso titolo, una
prodigiosa sostanza chimica, la “resurrettina”, permetterà a Canterel di insufflare
vita artificiale in cadaveri non ancóra decomposti, costringendo ognuno di essi
a ripetere, in presenza di spettatori stupefatti, l’episodio cruciale della
biografia degli uomini a cui appartennero, in una sorta di macabro rituale che
ha attinenza con la dimensione del teatro. Si tratta, comunque, di metafore del
“processo artistico” (cosí come Roussel lo concepisce): groviglio di finzione e
realtà, macchina e natura, ripetizione e invenzione fantastica. In esse si
esplica l’onnipresente rapporto natura-scienza, unito a un’imperiosa esigenza
di riscatto dalla banalità del quotidiano, che viene operato proprio attraverso
le continue ripetizioni di cui il
romanzo pullula: ripetizioni quasi sfuggenti, apparentemente casuali... ma
capaci, nella loro ossessività, di trasformare il grigiore insulso dell’accadimento in appassionante (giacché
insolubile) rebus.
Anche
la tecnologia in sé e per sé detiene, per Roussel, un grande potere di
riscatto. Egli sembra vivere l’idea della scoperta scientifica con lo stesso
entusiasmo che investe, nel canto del cigno del positivismo occidentale,
l’ingenuo spettatore sulla pubblica piazza degli “spettacoli da baraccone”, nei
quali un sedicente notissimo Tal dei Tali presenta l’ultimo — per lo piú
ciarlatanesco — “prodigio della scienza”. Il gran maestro di cerimonia Canterel
non è in fondo null’altro che una versione nobile (e ipertrofica) di questa
immagine dello “scienziato per il popolo”, ovvero dell’inesausto ricercatore
del “moto perpetuo” in grado di liberare l’umanità dalla fatica, la cui
ricaduta parodistico-beffarda si potrà riconoscere nell’ideale erede di
Canterel medesimo, il mirabolante Courtial di Louis-Ferdinand Céline,
l’inventore pazzoide (e ovviamente truffaldino) di Mort à credit[14].
Il
manifesto murale che fu affisso in occasione della prima uscita a teatro delle Impressioni d’Africa visualizza
perfettamente la condizione spirituale di Roussel, il suo sentimento e la sua
“ideologia” della creazione letteraria. Dodici vignette con didascalie
illustrano gli episodi principali della pièce,
come fossero altrettante attrazioni di un Luna Park. In alto a sinistra vi è
una specie di prestigiatore in abito circense, che mostra un bizzarro oggetto
traslucido montato (come la duchampiana Ruota
di Bicicletta) su uno sgabello, i piedi del quale sono inequivocabilmente
“in stile Luigi XV” e sembrano pertanto poter fungere da prototipo
all’anacronistico basamento della Macinatrice
di cioccolato del Grande Vetro
(incongruenza stilistica della macchina, la cui forma occulta invece di
esaltare la funzione): “La macinatrice è montata su un telaio Luigi XV
nichelato”, è specificato nella Boîte
Verte del 1934 (cfr. Duchamp 1975, trad.it.: 81). Strani congegni —
insufflatori del meraviglioso nella quotidianeità — appaiono in altre vignette,
mentre la “statua in osso di balena scorrente su binari in polmone di vitello”[15] rimanda, per analogia di situazione e di movimento,
alla Slitta contenente un mulino ad acqua,
secondo elemento fondamentale dell’Apparecchio
Scapolo: “La slitta è montata su pattini incastrati in un binario
sotterraneo invisibile” (Duchamp 1975, trad.it.: 67).
Che
Duchamp abbia subíto il fascino di Roussel proprio per questo motivo di
incessante ricerca del meraviglioso nel tecnologico, risulterà evidente se solo
faremo attenzione al significato piú profondo del ready-made: operazione di riscatto sistematico dell’oggetto d’uso
(industriale, prodotto in serie, e dunque banale) attraverso un intervento di
decontestualizzazione che vi introduce l’elemento dello stupore e di una
fruizione “ammirata”. Il gesto che qualifica l’oggetto-trovato come artistico
esige un’azione di scelta e di modifica che lo ri-scopre e persino lo reinventa, impedendogli di rimanere del
tutto ciò che è, “pronto e fatto”. Cosí Duchamp parlerà di ready-made aiutato, di ready-made
rettificato, di quasi ready-made,
ecc. La Ruota di bicicletta (1913) è
montata su uno sgabello da cucina, ed è pertanto libera di scorrere sotto la
pressione della mano trasformandosi in una “macchina ottica” di nuovo genere[16]; l’attaccapanni inchiodato al pavimento si muta in
un Trabocchetto (1915 ca.);
l’orinatoio capovolto assume le responsabilità di una Fontana (1917).
Se egli abbia o no costruito la fontana — dice Duchamp del fantomatico
Richard Mutt che ha firmato l’opera (ossia di se stesso) — non ha importanza.
Egli l’ha scelta. Ha preso un qualsiasi oggetto quotidiano e l’ha presentato in
modo da farne sparire, sotto il nuovo titolo e la nuova visuale, il significato
d’uso: ha creato, per questo oggetto, un pensiero nuovo (Duchamp 1917,
trad.it.: 73).
Questo
è in effetti l’ambito problematico che ci permette di intendere il ready-made. “Spostare il punto di vista
dello spettatore rispetto a ciò che questi osserva”. O anche (come per le
macchine di Locus Solus): generare
valore estetico facendo sparire il “significato d’uso”. Un’operazione che, come
si può facilmente comprendere, corrisponde a quella tentata da Roussel nel
campo della parola: le epifanie del verbo, rivelatosi “diverso”, riscattano il
linguaggio dalla sua banalità di oggetto d’uso (strumento per la comunicazione)
e ne fanno un oggetto (oltre che un agente) “estetico”. Non solo: sottraggono
ai legittimi proprietari gli strumenti di controllo linguistico, ponendo fine
all’egemonia della logica tradizionale con la categorica affermazione di un
significato “altro”.
3.
Il
concetto di “piano di intersezione”[17] è il fondamento della prospettiva pittorica
classica, essendo la descrizione (preliminare) di un luogo simbolico (o astratto)
che trova la propria puntuale materializzazione nell’elemento in cui si invera
per antonomasia la pittura: la superficie
del quadro. La formulazione che ne ha dato Piero della Francesca è limpida:
La prospectiva contiene in sé cinque parti: la prima è il vedere, cioè
l’ochio; la seconda è la forma de la cosa veduta; la terza è la distantia da
l’ochio a la cosa veduta; la quarta è le linee che se partano da l’estremità de
la cosa e vanno a l’ochio; la quinta è il termine che è intra l’ochio e la cosa
veduta dove se intende ponere le cose (Piero della Francesca 1470, ed. moderna:
64).
In
un linguaggio piú moderno potremmo dire che la rappresentazione prospettica
presuppone cinque elementi: l’atto del vedere; l’organizzazione del veduto
sotto specie di forma; lo spazio nel
quale soggetto vedente (occhio) e forma veduta si correlano (distantia); l’esistenza della “piramide
visiva” (cioè delle modalità ottico-fisiologiche della visione); e infine il
“piano di intersezione”, che corrisponde alla presenza teorica della superficie
sulla quale l’immagine dell’oggetto veduto viene proiettata. Il quinto e ultimo
punto, tuttavia, costituisce una sorta di forzatura rispetto alla “naturalità”
degli altri — dato che si tratta di un’astrazione, di un elemento ipotetico da
aggiungere e da rendere reale grazie a un atto arbitrario di volontà
(linguistica):
La quinta è uno termine nel quale l’ochio descrive co’ suoi raggi le
cose proportionalmente et posse in quello giudicare la loro mesura: se non ci
fusse termine non se poria intendere quanto le cose degradassero, sí che non se
poriano dimostrare (Piero della Francesca 1470, ed. moderna: 64-65).
Il
piano di intersezione, la superficie trasparente che taglia in modo
perpendicolare il fascio di raggi della piramide visiva, è posto idealmente a
una distanza “mediana” tra l’occhio e l’oggetto visto (il mondo da
rappresentare): dunque, in certo senso, è posto fuori dal mondo, nella misura (almeno) in cui anche il soggetto
vedente vi è immerso. Dalle parole di Piero (“nel quale l’ochio descrive co’
suoi raggi”) par di capire che il percorso dei raggi luminosi non viene
solamente interrotto (intersecato) da questo piano, ma piuttosto che i raggi
vengono anche riproiettati
specularmente dall’occhio sul piano, insinuandosi cosí nell’intero meccanismo
un motivo di ulteriore astrazione, di artificio puramente razionale.
Il
piano “mentale” (teorico) è destinato a concretizzarsi nel dipinto, che
sovrappone la propria opacità reale alla sussistente trasparenza simbolica.
Esso assume la consistenza fisica della tela, dell’immagine collocata sulla
superficie, o piuttosto forse solo degli elementi concreti (macchie di colore)
che formano l’immagine... Ma è evidente che persiste a partecipare di una
sostanziale alterità rispetto alla
fenomenologia del reale, se l’occhio dell’osservatore, allorché avrà ricevuto
(decifrato) l’immagine della cosa, obbligato suo malgrado a ripercorrere il
tragitto in senso contrario, la dovrà rilanciare dietro il piano
bidimensionale, fino alla posizione che essa occupava quando era reale (cioè
nella posizione che occuperebbe se fosse
reale), collocandola alla distanza che la “degradazione” prospettica
impone.
Il
piano di intersezione, o “quinta prospettica”[18], trova già una sua concretizzazione (una presenza
materiale) nelle macchine illustrate
da Dürer nell’Underweysung der Messung
(Norimberga 1525), che potremmo anche considerare “macchine celibi” ante
litteram, se è vero che il loro scopo è la realizzazione di opere d’arte. In
esse uno sportello, fissato su un tavolo o su un cavalletto, viene a
infrapporsi tra il pittore che guarda attraverso un mirino fisso e l’oggetto
che egli deve riprodurre. Lo sportello è via via costituito da una lastra di
vetro o da un reticolo di fili ortogonali, ma è sempre trasparente, giacché deve permettere la proiezione fisica dei tratti di contorno del “modello” sulla
propria superficie, che verrà in séguito riportata sopra un piano opaco di
carta o di tela. In Dürer lo sportello serve dunque unicamente da supporto
provvisorio dell’immagine, e può essere considerato come una specie di luogo di
congiunzione (quasi una tappa intermedia) tra il piano di intersezione teorico e il dipinto concreto.
Nel
Grande Vetro di Duchamp, invece, l’Apparecchio Scapolo sembra essere
costruito, come hanno notato Clair (in AA.VV. 1977) e Lyotard (1977),
direttamente sullo sportello vitreo düreriano, nonostante sia noto che
l’artista non ha impiegato mezzi prospettici canonici. L’uso medesimo di fili
metallici come contorni lineari delle forme “dipinte” (il termine è ovviamente
improprio) evoca con precisione questo clima di tecnicità che si trova anche
negli apparecchi di Dürer, conducendo la scientificità della determinazione
dell’immagine a rafforzare ulteriormente la già forte presenza dell’elemento
macchinico nella parte inferiore della Mariée.
E non si potrà poi, a questo punto, evitare di ricordare che la prima versione
della Slitta contenente un mulino ad
acqua in metalli vicini (come opera a sé stante, visibile accanto al Grande Vetro nel museo di Filadelfia)
prevede esattamente uno sportello vitreo girevole (su cardini che lo agganciano
al muro ma gli permettono di ruotare di 180°) quale supporto dell’immagine.
Ma
ciò che piú importa è che Duchamp, in questo modo, dimostra di aver inteso il
significato piú intimo dell’operazione prospettica: l’occhio dello spettatore
giunge, con relativo turbamento, a percepire i segni bidimensionali come
contorni di oggetti reali posti sul pavimento a di là del vetro, e ovviamente
li percepisce come a una distanza che corrisponde a quella che la riduzione
prospettica ha appena terminato di annullare; solo uno sforzo psicologico,
oppure uno spostamento laterale del punto di vista, permettono di decifrare con
prontezza l’inganno; allo stesso tempo — tuttavia — la finzione si rivela tale
per una sorta di esagerazione nell’esattezza geometrica, per una forma di
innaturalità della proiezione volutamente “caricata”. Riporto alcuni passi
dell’intervista concessa a Pierre Cabanne nel 1966:
Il vetro mi interessava molto come supporto, per via della sua trasparenza.
Ed era già molto. [...] Inoltre, la prospettiva era anche molto importante. Il Grande Vetro costituisce una
riabilitazione della prospettiva che era stata completamente ignorata,
screditata. In me, la prospettiva diventava assolutamente scientifica. [...]
Non si trattava piú della prospettiva realista. Si trattava di una prospettiva
matematica, scientifica (Duchamp 1966, trad.it.: 53).
E
alla domanda sugli eventuali significati simbolici (alchemici) del vetro:
No, no, assolutamente. Il vetro, per la sua trasparenza, poteva dare la
sua massima efficacia alla rigidità della prospettiva, ed escludere anche ogni
idea di “pasta” [cromatica], di materia. Io volevo cambiare, avere un nuovo
approccio (Duchamp 1966, trad.it.: 58).
Mentre
a Richard Hamilton, nel 1959, Duchamp aveva risposto:
Ogni parte è in scala e sviluppata cosí completamente che la proiezione
in prospettiva sul vetro è una dimostrazione della prospettiva classica; gli
elementi dell’Apparecchio scapolo,
cioè, sono stati immaginati in un primo tempo come se fossero distribuiti sul
pavimento dietro il vetro piuttosto che come composizioni su una superficie
bidimensionale (cit. in Schwarz 1974: 153).
Dimostrazione
ideale del funzionamento della prospettiva classica: questo è il significato
che tutto contribuisce a proporre come essenziale per la comprensione del ruolo
dell’Apparecchio Scapolo. Jean Clair
(1975) —
tralasciando le suggestioni esoteriche su cui hanno molto insistito Calvesi
(1975) e Schwarz (1974) — non ha perso l’occasione per farsi sostenitore di
questa tesi, e ha insistito sulla basilarità del concetto di “proiezione” nel
capolavoro duchampiano. Egli ha però collegato, sicuramente con ottima
cognizione di causa, tale concetto (o meglio, l’interpretazione che ne dà il Grande Vetro) alle speculazioni
para-scientifiche sulla 4° dimensione che all’epoca incendiavano la fantasia
dei giovani artisti di ascendenza cubista (oltre che tanti “scienziati
dilettanti”) e che occupano, infatti, molto spazio nelle note di Duchamp sulla Mariée, reperibili sia nella Boîte Verte che nella Boîte Blanche (A l’Infinitif). Ora, pur
senza voler mettere in discussione questo collegamento, occorre a mio avviso
fare un passo ulteriore e intendere l’interesse duchampiano per la prospettiva anche in relazione a quella problematica della macchina che,
ispirata da Roussel, egli finisce per fare completamente sua. Impossibile
sottovalutare allora il dato per cui la prospettiva (nella sua versione ovvia,
come proiezione di “figure” immaginate a 3 dimensioni su una realtà geometrica
a due) si applica quasi esclusivamente ai congegni para-meccanici della parte
inferiore del Vetro, e in particolare
alle due grandi macchine che ne garantiscono il “funzionamento”: la Macinatrice di cioccolato, corredata
dalla serie dei Setacci (la cui
esecuzione prospettica è una vera acrobazia di precisione), e la Slitta contenente un mulino ad acqua in
metalli vicini. E’ insomma la macchina ad essere prospettica per eccellenza
e la prospettiva stessa è in qualche modo una macchina.
Abbiamo
già visto, del resto, come queste “illazioni” possano motivarsi: nella macchina
— sub specie rousseliana —
l’artificio sta alla natura come nella prospettiva il risultato della
proiezione (o se si preferisce: il piano di intersezione che la permette) sta
all’oggetto tridimensionale. Una stessa forza di ribaltamento agisce, per
tramite della volontà umana, sui referti del dato esperienziale: qui
costringendo la natura a farsi carico di un certo lavoro (cosí come il mulino ad acqua permette il movimento
della slitta trasformando l’energia
di una invisibile cascata), là
costringendo la realtà del mondo a manifestarsi nella sua nuova veste di
immagine (bidimensionale).
4.
Vale
la pena di procedere con due osservazioni. La prima concerne la relazione
intrinseca tra mimesi naturalistica
(che sta alle origini del concetto stesso di immagine in Occidente[19]) e artificio
meccanico; e ci dice che la consapevolezza di tale rapporto — in certa
misura già presente nella teoria pittorica del Quattrocento — riemerge con
forza proprio all’epoca degli esordi della “scienza moderna”, nel secolo XVII,
quando i nuovi “prospettici”, con la prassi dell’anamorfosi, estendono il metodo della proiezione albertiana ben
oltre i suoi intenti iniziali, e ne raddoppiano gli effetti applicandolo non
piú alla realtà ma all’immagine stessa già realizzata, e per questa via lo
ridefiniscono (perfino loro malgrado) come regola
universale per le trasformazioni dimensionali, a prescindere, cioè, dai
vincoli fino allora ineludibili di una dialettica che coinvolge(va) solo 2° e
3° dimensione (ossia solo “immagine” e “realtà”)[20]. Qui il motivo del “ribaltamento”, implicito nel
metodo classico quattrocentesco, si esplicita come possibilità ulteriore di distruzione (occultamento)
dell’immagine a mezzo del suo trasferimento in una dimensione ulteriore dello spazio, una dimensione
la cui esperibilità risulta (gioco forza) solo futuribile o immaginabile. Il
secondo rilievo riguarda il fatto che sappiamo perfettamente come e quando
Marcel Duchamp ebbe modo di leggere i trattati dei prospettici del Seicento e
di scoprirvi i sortilegi dell’anamorfosi.
Fu infatti allorché assunse, nel 1913, un impiego di bibliotecario presso uno
dei pochi luoghi al mondo in cui quella sapienza era del tutto disponibile, la
Bibliothèque Sainte-Genèvieve di Parigi, l’antico covo dei “padri francescani
minimi” detentori pressoché in esclusiva della nuova matematica prospettica.
Là, in quella biblioteca, in cui il nostro lavorò e studiò per diversi mesi, si
potevano aprire (ed è tuttora possibile farlo) i sacri libri di Jean du Breuil,
di Jean-François Niceron, di Salomon de Caus e di Emmanuel Maignan sulla
“prospettiva curiosa” o “magia artificiale degli effetti meravigliosi”, cosí
come tutti i testi di Cartesio che li avevano propiziati.
Che
Duchamp abbia studiato con passione quei libri è testimoniato in maniera
inoppugnabile da una nota del 1914 (poi raccolta in A l’Infinitif) che sembrerebbe relativa al problema del rapporto
tra caso e precisione nel concetto di metro
diminuito[21]. In essa si legge:
Prospettiva. Vedere nel catalogo della Biblioteca di Sainte-Genèvieve
tutta la voce Prospettiva. Niceron (Padre J., Fr.) “Thaumaturgus opticus” (A l’Infinitif, 1966, Duchamp 1975,
trad.it.: 105).
Ora,
è appena il caso di sottolinearlo, nessuno dei giovani intellettuali del
secondo decennio del ventesimo secolo conosceva l’esistenza del trattato di
Niceron. E d’altra parte, le osservazioni contenute nel Thaumaturgus opticus (cfr. Baltrusaitis 1955, trad.it.: passim)
che Duchamp dovette trovare sorprendentemente illuminanti rispetto alle
questioni di cui si stava occupando, sono di per sé sufficienti a chiarire il
significato di quell’intrigante e assai criptica elaborazione teorica esposta
nella Boîte Verte (1934, Duchamp 1975, trad.it.: 82-84)
intorno ai concetti di apparenza e di
apparizione, sul cui senso — anche in
chiave operativa — si sono arrovellati (per cosí dire) i piú autorevoli esegeti
del nostro. Essa azzarda infatti una sorta di fenomenologia del reale che si
basa sul rapporto di coincidenza/contrapposizione tra “apparenza” e
“apparizione” delle entità fisiche (oggettuali), un rapporto stando al quale —
come si potrebbe riassumere con una formula lapidaria — l’apparenza di un oggetto a N dimensioni è la sua apparizione in un
mondo a N-1 dimensioni.
Ebbene,
un simile rebus potrà indubbiamente
essere riportato alla “geometria quadridimensionale” di Jouffret, secondo il
richiamo contenuto in A l’Infinitif,
per cui:
L’ombra proiettata di una figura a 4 dimensioni nel nostro spazio è
un’ombra a 3 dimensioni (A l’Infinitif,
1966, Duchamp 1975, trad.it.: 109).
Ma
non potrà certo essere risolto con il solo ricorso a una semplice area di
riflessioni sulla 4° dimensione e
sulle sue caratteristiche non-euclidee, come hanno essenzialmente sostenuto
Jean Clair[22] e Giorgio Franck (1989). A me pare ci sia di piú, in
quell’intuizione, dell’indagine intorno alla possibilità che un oggetto che si
manifesta a noi come reale (in quanto situato nel nostro spazio
tridimensionale) possa essere nient’altro che la proiezione di qualcosa di
altrettanto reale ma situato in uno spazio ulteriore, secondo il principio per
cui Duchamp può altresí affermare (ancora in A l’Infinitif):
Ogni corpo 3 dim.le usuale, calamaio, casa, pallone frenato è la
prospettiva proiettata da numerosi
corpi 4 dim.li sull’àmbito 3 dim.le. (A
l’Infinitif, 1966, Duchamp 1975, trad.it.: 116).
Giorgio
Franck, interpretando, commenta:
L’apparenza di un oggetto è “l’insieme dei dati sensoriali usuali che
permettono di avere una percezione ordinaria di questo oggetto” — è cioè il
modo in cui si presenta “in un continuum
tridimensionale”. L’apparizione, invece, richiede di essere pensata come il
meccanismo in virtú del quale l’apparenza appare. Essa è la modalità specifica
attraverso cui un corpo [...] proietta
se stesso nell’apparenza (dunque nel mondo a tre dimensioni empiricamente
percepibile) (Franck 1989: 131-132).
Ma
con ciò — e qui sta il punto — mi pare che egli finisca per trascurare la
qualità piú squisitamente “pittorica” del problema, in altre parole quel
rivolto di “teoria dell’immagine” che fa della ricaduta anamorfotica del metodo albertiano (elevata a principio
generale, però, e dunque al di là delle sue accezioni storiche barocche) la
vera e sola “4° dimensione” — o meglio: la vera e sola dimensione ulteriore — che importa a Duchamp.
Nell’esperimento
degli Stoppages-étalon un filo lungo
1 metro, teso tra due dita, viene fatto cadere dall’altezza di 1 metro su un
piano perfettamente orizzontale: la figura del filo adagiato sul tavolo
costituisce, secondo l’artista, una nuova unità di misura, il metro diminuito. Ovvio che l’esperimento
potrebbe essere ripetuto ad libitum,
e ogni volta l’unità di misura ottenuta sarebbe diversa. Per convenzione, dato
che la scienza procede per convenzioni (è essa stessa linguaggio), si potrebbe
decidere di eseguire l’operazione tre volte e considerare la media tra i tre
risultati, decidendo che il vero metro
casuale si ottiene in tal modo (Boîte,
1914, Duchamp 1975, trad.it.: 28). Un fisico potrebbe spiegare a Duchamp —
che d’altronde ne era consapevole — che determinando con precisione i valori
relativi alla consistenza e al peso del filo, all’umidità dell’aria, alla
ventilazione, alla forza di gravità, alla pressione atmosferica, ecc. ecc.,
sarebbe possibile predeterminare la forma ottenuta, e che dunque non c’è nulla
di casuale. Ma un simile calcolo non è eseguibile in alcuna maniera (non
possediamo metodi di misurazione abbastanza accurati) e noi, d’altra parte,
chiamiamo “casuali” tutti gli eventi di cui non siamo in grado di prevedere e/o
comprendere con sufficiente rigore la processualità.
Rimane
il fatto che il metro casuale
duchampiano risulta sempre esteso in lunghezza meno di 1 metro convenzionale, e
che la perdita di lunghezza si traduce ogni volta in acquisto di “spazialità
laterale” (le curve del filo caduto), o — in termini piú esatti — che quanto è
perduto a livello di 1° dimensione risulta acquistato in 2° dimensione, il che
significa anche che il metro casuale
prevede il travalicamento della dimensione lineare di competenza del metro
convenzionale. In effetti, dalla 1° dimensione di una retta lunga 1 metro (il
filo iniziale teso tra le dita) si passa alla 2° dimensione di un quadrato di 1
metro di lato (la figura disegnata dalla caduta, che può essere vista come la
“rotazione” della retta sul piano), per tornare a una sorta di 1° dimensione
decurtata e al tempo stesso allargata (il filo afflosciato, che è meno di 1
metro come estensione unidimensionale, ma che può essere inteso anche come una
curva bidimensionale).
Il
meccanismo concettuale e fisico-geometrico implicato è dunque un processo che
potremmo tranquillamente (?) definire come proiettivo-anamorfotico,
giacché è proprio con l’anamorfosi barocca che la tecnica proiettiva
(prospettica) rinascimentale scopre le proprie potenzialità di “trasformatore
dimensionale”. Si tratta di un contributo essenziale alla comprensione del
significato del linguaggio pittorico dell’Occidente maturo. E nel Grande Vetro, che tra le altre cose è
anche la piú agguerrita indagine su quel significato complessivo e sulle sue
implicazioni epistemiche, troviamo altri luoghi in cui il motivo si applica.
Per esempio i tre Pistoni di correnti
d’aria, i tre “buchi” di forma pressoché quadrangolare che restituiscono
trasparenza ad altrettante zone della Via
Lattea (la grande “nube” di colore che occupa la parte piú alta del
capolavoro in vetro). Che sono appunto tre, e che furono ottenuti con una
procedura del tutto simile a quella del metro
casuale, la quale, tuttavia, prevede un tragitto dalla 2° dimensione
attraverso la 3° e con ritorno alla 2°. Una pezza quadrata di stoffa bianca,
spiega Duchamp, viene appesa con sottili fili nel vano della finestra dello
studio, ed è liberamente lasciata sventolare mentre l’artista la fotografa in
tre istanti diversi. Da ciascuna immagine fotografica della pezza è ricavata la
forma di ciascuno dei tre pistoni, la quale forma, di volta in volta (è ovvio)
si manifesta come quella di un quadrato a cui sia stata sottratta parte della
sua estensione, vale a dire la parte di superficie che ha perduto muovendosi
nella 3° dimensione (sventolando alla finestra) e che dunque coincide,
effettivamente, con quanto ha acquistato in volume. Il ritaglio di superficie
ottenuto è “casuale”, ma non è affatto casuale il rapporto tra esso e il volume
acquisito (poi perduto), la cui incidenza ne fa una “figura di proiezione”
esatta e, teoricamente, calcolabile[23].
Rileggiamo
la formula duchampiana: L’apparenza di un
oggetto a N dimensioni è la sua apparizione in un mondo a N-1 dimensioni.
Il “pistone di corrente d’aria”, la figura sub-quadrata stampata sul Grande Vetro, è apparenza di un oggetto
a 3 dimensioni (la pezza di tessuto mossa dal vento) ma è anche la sua realtà
(apparizione) in un mondo a 2 dimensioni (quello del quadro). Ogni oggetto,
appunto, è apparizione in un certo
mondo (a N-1 dimensioni), ma è altresí apparenza
se percepito da un mondo ulteriore (a N dimensioni). Cosí, ad esempio, il punto
0-dimensionale è apparizione (realtà)
nel mondo 0-dimensionale ma anche apparenza
se percepito nel mondo 1-dimensionale come proiezione di una retta, la quale
sarà in se stessa apparizione nel
“suo” mondo ma, a proprio turno, apparenza
se considerata proiezione di un quadrato dal mondo a 2 dimensioni, e cosí via.
Ne consegue che qualsiasi entità fisica è “reale” nella dimensione che le è
propria, ma diverrebbe “apparente” (rivelandosi illusione?) se solo ci si
potesse spostare nel mondo successivo — come aveva ben intuito, del resto, il reverendo
Abbott in quello che si deve considerare il piú geniale romanzo fanta-geometrico dell’Ottocento[24].
Qualsiasi forma è la prospettiva di un’altra forma secondo un certo
punto di fuga e una certa distanza (Boîte
Verte, 1934, Duchamp 1975, trad.it.: 56).
Ciò
relativizza ogni effetto percettivo (sia linguistico che pragmatico) e lo
riconduce al suo significato di “proiezione” di una matrice che è situata in una dimensione superiore. Si tratta di una
conseguenza del precetto per cui occorre secondo Duchamp, in linea generale:
Primo, modificare il punto di vista dell’osservatore rispetto a ciò che questi
osserva. Secondo, Sostituire un’assiomatica del possibile all’assiomatica del
reale.
Si
rilegga ora la già citata spiegazione offerta da Giorgio Franck, e si
comprenderà che il presunto neoplatonismo duchampiano è qualcosa di assai piú
complesso (e di piú in linea con le nuove idee della fisica di inizio secolo)
di quanto non sia stato per lo piú ritenuto. Esso non istituisce affatto un
rapporto di ombra-realtà (e tanto meno un rapporto di ombra-idea) tra la 3°
dimensione e la 4°, ma piuttosto afferma la
totale relatività dei fenomeni reali, che sono tali solo se percepiti dal
mondo (dimensione) a cui appartengono, e sono pronti a proiettare “apparenze”
su mondi inferiori cosí come a
rivelarsi “apparenze” se fruiti da mondi superiori. La proiezione
prospetto-anamorfotica è il meccanismo che garantisce la relatività e la
sostanziale inconoscibilità dell’universo, ed è anche — cosa assai
significativa — il principio che sta alla base del linguaggio pittorico
occidentale.
Se
da un lato esso regola il principio della trasformazione
dimensionale, unendo come in un flusso metamorfico mondi separati,
dall’altro sancisce la separatezza medesima dei mondi, rendendoci certi, ad
esempio, dell’esistenza di un “mondo del quadro” (bidimensionale)
ontologicamente altro rispetto al
nostro mondo, dato che in esso le forme che noi leggiamo come proiezioni (apparenze) sono realtà (apparizioni) altrettanto reali di quanto lo siano nel nostro
mondo gli oggetti tridimensionali. Il dipinto stesso appartiene al nostro universo solo in quanto oggetto fisico
(supporto e colore) ma, nella misura in cui lo concepiamo come realmente
bidimensionale — e cosí dobbiamo fare per intenderlo come evento pittorico,
ossia come luogo linguistico — pertiene a una dimensione diversa, dotata di
vita e di leggi proprie, che richiede uno sguardo diverso (un tentativo di
penetrare in un mondo “inferiore”). E ciò, occorre aggiungere, vale tanto per
il dipinto prospettico quanto per qualsiasi altro dipinto, ovvero anche per il
dipinto non concepito (a priori) come una proiezione sulla superficie dello
spazio tridimensionale[25].
5.
La
prima delle “macchine celibi” di Duchamp è il Grande Vetro nella sua globalità. L’epica della trasformazione dimensionale che ne
domina la logica e ne costituisce il piú profondo significato, è il risultato
del lavoro di tale macchina. Linguaggio e desiderio, pittura e proiezione
nell’altrove degli universi separati (la 2° dimensione del segno-quadro, la 4°
dimensione ipotetica del suo contenuto) sono gli elementi che caratterizzano il
congegno prospetto-anamorfotico duchampiano, che non svolge affatto una
funzione fisica bensí è dedito a una attività puramente concettuale, come accade
d’altronde in tutte le machines
célibataires descritte da Carrouges nel suo storico saggio (Carrouges
1951), in tutte le “macchine desideranti” di cui tentano di tracciare il
sinistro e ludico profilo Deleuze e Guattari ne L’anti‑Edipo (1972), che sono invenzioni prive di razionalità e di
scopo pratico, superflue e pletoriche manifestazioni dell’involuzione finale
del sapere tecnologico, dove già la crisi del moderno e dei suoi facili
entusiasmi inizia a prendere corpo attraverso ironiche parodie e riletture
grottesche della cosí detta “scienza positiva”. Ma la macchina celibe— ed è ciò
che conta — è sempre legata al linguaggio. In un racconto di Franz Kafka (1919)
un mostruoso ordigno viene utilizzato per eseguire sentenze capitali: la
macchina scrive sul corpo del
suppliziato la legge che lo condanna, incidendone il testo nella carne viva con
una serie di aghi. In tal modo il reo ottiene, nell’attimo estremo che precede
la morte, una gioia sublime e inesprimibile, la consapevolezza “erotica” e
“mistica” della propria colpa. Linguaggio, congegno pletorico, estasi, caduta,
morte... Un solo nodo avvince queste istanze della crisi della classicità
moderna, queste inedite condizioni che formano il background
psico-antropologico dell’avanguardia novecentesca.
In
Duchamp la macchina prende forza sopra tutto in quanto principio di
rielaborazione della forma: alla sua logica nuova — disumana e disumanizzante —
sembra assecondarsi il “modus operandi” dell’artista francese. Sebbene non solo
di “forma” (ossia di motivi plastico-pittorici) si tratti, dato che la presenza
della macchina nell’opera di Duchamp si dispone su almeno tre distinti livelli
di intervento:
a)
La macchina come suggestione formale
(appunto), ossia come idea stilistica che reinterpreta — travisandola — la
scomposizione geometrica dei volumi cara al cubismo ortodosso. Tale modalità,
per la quale è il linguaggio plastico che incorpora princípi meccanici,
sviluppandosi in base ad essi, è riscontrabile nelle due versioni del Nudo che scende le scale (1911 e 1912) e
nelle varie tele che vi si ricollegano piú direttamente: Giovane triste in treno (1911-12), Il re e la regina circondati da nudi veloci (1912). Il suo modello
— non dichiarato ma senza dubbio “sottinteso” — è il robot, l’automa mezzo uomo
e mezzo macchina che aveva già affascinato altri inventori di apparecchi
celibi, come Villiers de l’Isle-Adam (1866) o lo stesso Roussel.
b)
La macchina come rappresentazione diretta,
come “soggetto” dunque, per cui essa e il suo mondo sono tematicamente collocati
al centro del “testo”. E’ quanto avviene con le opere preparatorie del Grande Vetro: la Macinatrice di cioccolato (1914), che riprende per certi versi il Macinino da caffè del 1911, oppure il
mulino di Slitta contenente un mulino ad
acqua (1913-15). Piú precisamente, l’evoluzione del Macinino da caffè in Macinatrice
di cioccolato segna il passaggio da un generico interesse di tipo cubista
per la macchina (forse ancóra “natura morta”, soggetto per una “pittura di
genere”) alla mitopoiesi dell’apparecchio
scapolo, dove addirittura Marcel abbandona forme progressiste di
linguaggio e si affida all’improponibile rappresentazione prospettica che
prevale nella parte inferiore del Vetro.
c)
La macchina come presenza fisica,
ossia come risvolto meccanico effettivo dell’opera. La Slitta contenente un mulino ad acqua, nella versione del 1913-15,
può ruotare attorno al proprio perno, è come una finestra vitrea dotata di
battente e di cardini. L’utilizzo stesso del vetro, che ritroviamo nei Nove stampi maschi (1913-15), in Per essere guardato dall’altra parte del
vetro (1918), e naturalmente nella Mariée
mise à nu par ses célibataires, même, oltre ad essere elemento chiave di
una simbologia della rappresentazione che associa le lastre trasparenti
duchampiane agli specchi di Brunelleschi, di Velázquez e di Van Eyck, allude al
trapasso dell’arte in tecnologia pura, in gioco scientifico, in “fisica
curiosa”... La presenza fisica della macchina è riscontrabile anche in certi ready-mades, come Ruota di bicicletta del 1913, nonché nelle “ottiche di precisione”
degli anni venti: le Lastre rotanti di
vetro (1920), i Rotorilievi - Anemic
Cinema (1922-23), la Semisfera
rotante (1924-25)[26].
Il
mito della macchina, dunque. E’
proprio la conversione della tecnica positiva in elemento mitologico a produrre
il mostruoso “effetto” che sprigiona dalla Mariée,
la contromossa ironica con cui viene dato scacco alla fraudolenta ideologia del
progresso. Diciamo che il rapporto — di denudamento e di tentato amplesso — tra
la “sposa” e i “suoi scapoli” indica innanzi tutto il simbolico (e però
mancato) congiungimento dell’uomo con la macchina: c’è il motivo di una
frustrazione, di una delusione parziale ma cocente. Ad esso alludono l’onanismo dell’apparecchio celibe (il
moto oscillatorio della slitta o “le litanie del carrello” come dice Duchamp) e
lo “sboccio cinematico” della Sposa:
che è sí orgasmo, ma ottenuto solo al culmine di un desiderio inappagato. Il
contatto fisico tra le due parti, infatti, è incompleto: una drastica linea di
demarcazione le separa, e questa linea è la stessa, invalicabile, che distingue
il cielo dalla terra, il mondo umano dall’empireo: l’orizzonte.
Non
che la Sposa sia solo cielo (e
organismo vivente) e gli Scapoli
siano solo terra (e macchina): la forza del Grande
Vetro è anche nel saper contaminare dialetticamente le parti. Alcuni tratti
della Sposa e del suo mondo sono
meccanici, cosí come alcune zone dell’Apparecchio
scapolo sono organiche e perciò “perfette”. Inoltre la comunicazione, e
dunque l’adempimento futuro, sono indicati dal processo pulsionale che comunque
agisce e mette in movimento l’opera.
La sostanza che la alimenta — spiega Octavio Paz — è una rugiada
chiamata automobilina, le sue estasi sono elettriche e la forza fisica che
muove i suoi ingranaggi è il desiderio (Paz 1966, trad.it.: 37).
La
“rugiada” della Sposa, l’automobilina. In Roussel, l’abbiamo
visto, vi sono sostanze analoghe, come la resurrettina
di Locus Solus, che permette la
rianimazione coatta della testa mozzata di Danton. Si tratta di una
resurrezione falsa e inutile, una specie di spettacolo circense, una finzione
ad uso estetico-didattico. E tale è pure il movimento dell’apparecchio scapolo,
sterile e fasullo, che tuttavia provoca l’estasi orgasmica (épanouissement) della Sposa.
Il
principio del “motore-desiderio”[27], che è il cuore della Macchina celibe, nega l’ideologia “positiva” del progresso
tecnologico con lo stesso tratto con cui apre le porte all’infinita e
indifferenziata contraddittorietà dell’universo pulsionale. Duchamp non parla
mai di inconscio o di psicanalisi, ma, accogliendo la beffarda equazione psiche
= macchina, e dunque stabilendo il doppio statuto (biologico e meccanico) di
una sorta di patafisica radicale,
impartisce un urto straordinario alla elaborazione del nesso arte-inconscio
che, di lí a poco, sarà linfa vitale del surrealismo. E — lo dico per inciso —
si pensi pure alla ricaduta impensabilmente concreta che quella stessa patafisica (“scienza delle soluzioni
immaginarie e delle norme che regolano le eccezioni”, stando alla definizione
di Alfred Jarry) conoscerà ai giorni nostri: la bio-genetica avanzata, la
realtà virtuale, il corpo elettronico...
Riprendiamo
la questione del titolo del Grande Vetro.
Secondo Octavio Paz,
nel titolo sono già presenti tutti gli elementi dell’opera: quello
mitico, quello popolare da baracca o tendone da fiera, quello erotico, quello
pseudoscientifico e quello ironico (Paz 1966, trad.it.: 35).
Aggiungerei
anche l’elemento rituale-religioso (filtrato, come sempre, dall’ironia). Quanto
all’elemento “popolare da baracca o tendone da fiera”, mi sembra opportuno
ribadirne nuovamente la crucialità: l’impianto “mitologico” della Mariée va ricondotto all’implicita e
inconsapevole parodia della scienza
che si realizza (con effetti di comicità estrema, proprio perché involontaria)
nell’àmbito della sua acquisizione volgare tra la fine del secolo XIX e
l’inizio del XX, allorché la “sbornia positivista” trova il suo piú naturale
sbocco nell’apologia (divulgativa e nazional-popolare) del sapere tecnico
inteso come momento di ricreazione e di divertimento, come facile stupore, come
esaltata ricerca del meraviglioso (fanta)scientifico, in una cornice che è
proprio quella — assai clownesca — delle fiere di paese: dai prodigi
dell’immagine dinamica a quelli dell’ologramma iperrealista, dall’ascensione in
mongolfiera al gioco di prestigio e all’ingabolo ciarlatano del “vénghino,
vénghino lor signori!”. Insomma, la stessa aria di cultura “bassa”, e però
fascinosa, che si respira (ancóra una volta) nei racconti di Roussel. La saga
della “macchina celibe” va letta proprio in tale direzione: come contrappasso
dell’utopia positivista che (attraverso una declinazione esagerata e grottesca)
si rovescia in nuova e sfiduciata derisione.
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[1]
Cfr. Roussel 1910. Il romanzo fu pubblicato a puntate sul “Galois du Dimanche”
nel corso del 1909, quindi in volume nel 1910. Il 30 settembre 1911 venne
rappresentata al Théâtre Fémina la trascrizione per la scena preparata dallo
stesso Roussel, che decise di replicarla l’anno successivo al Théâtre Antoine.
[2] E’
nota la sofferenza (in piú luoghi testimoniata) che causava a Roussel la
coscienza d’essere pressoché sprovvisto di fantasia inventiva, e dunque
costitutivamente agli antipodi del proprio “modello” Jules Verne.
[3]
Cfr. Roussel 1933. Il testo in questione fu pubblicato solo dopo la morte
dell’autore per sua esplicita volontà, e ha suscitato — sopra tutto in tempi
recenti — un vero e proprio dibattito intorno al problema della sua
attendibilità. Visto che la rivelazione del procédé
getta una luce davvero equivoca sull’intera opera di Roussel, in qualche modo
denunciandone un carattere di fondo “artificioso” se non addirittura “mistificatorio”,
è parsa ad alcuni plausibile un’ipotesi per cosí dire “estrema”: e cioè che la
tardiva rivelazione dell’artificio non fosse, essa stessa, nient’altro che una
sorta di mistificazione ulteriore. E’ questa l’ipotesi adombrata nell’analisi
di Foucault 1963 (trad.it.: 15) dove lo studioso sembra
tuttavia spaventarsi delle possibili conseguenze, se immediatamente dopo
prosegue dicendo che la retroattività del procédé
“non contesta l’esistenza” del medesimo. Altre considerazioni che potrebbero
condurre in questa direzione si trovano in Butor 1964: 199. Ma il piú forte
“atto d’accusa” nei confronti della rivelazione postuma è quello che sta al
centro dello studio di Roscioni (1985), dove il critico tenta di persuaderci
che Roussel abbia deliberatamente imbrogliato le carte solo al momento del suo (falso) chiarimento conclusivo.
[4]
Roussel 1933 (trad.it.: 265): “Mi sono sempre proposto di spiegare in che modo
avevo scritto alcuni dei miei libri [...]. Si tratta di un procedimento molto
particolare. E, questo procedimento, mi sembra che sia mio dovere rivelarlo,
perché ho l’impressione che qualche scrittore in futuro potrebbe forse
sfruttarlo con successo”. Poi: “E mi rifugio, in mancanza di meglio, nella
speranza che ci sarà forse una postuma fioritura di interesse nei confronti dei
miei libri” (ibidem: 285).
[5]
Come nota Aristotele, nella meccanica il piú piccolo domina il piú grande. Qui,
si potrebbe chiosare, è il linguaggio a dominare i “contenuti” di cui dovrebbe
essere solo strumento.
[6] Su
tale aspetto di inevitabile presenza delle facoltà ideative dell’autore, del
produttore di scrittura che comunque interviene con la propria “intelligenza”
logica, ha avuto gioco fin troppo facile il desiderio di sminuire la portata
del procédé da parte di diversi
lettori, tra i quali (come ho ricordato) Roscioni 1985. Ma credo sia davvero
semplicistico pensare e sostenere che solo una totale autonomia del linguaggio
(ovviamente irrealizzabile) giustifichi la pretesa di una centralità del
medesimo — ossia dei meccanismi intimi che lo istituiscono e ne regolano il
funzionamento — nella produzione di senso all’interno di un testo.
[7]
Cosí è nota, per l’appunto, la stima che egli riscosse presso i surrealisti,
ancorché niente affatto ricambiata e semmai temuta come un pericolo da
scongiurare: non foss’altro che per il timore di dissipare l’agognata
prospettiva del grande successo popolare. Poiché, pur agendo in modo del tutto
adatto a rendere utopistico tale desiderio, Roussel aveva compreso che quanto
in lui poteva piacere a Breton e ai suoi seguaci era esattamente ciò che
gliene avrebbe precluso la realizzazione.
[8] Si
noti bene: un mosaico! Una rappresentazione cromatico-figurativa (l’immagine di
un cavaliere medioevale) che qualsiasi artigiano avrebbe potuto ugualmente
eseguire su di una superficie servendosi di tessere colorate di qualsiasi
(altra) natura, e che qui viene invece realizzata da un pallone aerostatico —
a cui è sospesa una terminazione di leve, bielle, vassoi, specchi, artigli
meccanici — che si solleva, afferra un dente da un mucchio (appositamente
predisposto, e nel quale sono denti bianchi, giallastri, sanguinolenti, bruni
di nicotina, neri per la carie, ecc. ecc.) e lo trasporta lasciandolo cadere al
“suo” posto per dar vita all’immagine... Cfr. Roussel 1914, trad.it.: 23-38.
[9] Il
processo linguistico di “ideazione” di questa sorta di mito meccanico è
spiegato con molta cura in Roussel 1933, trad.it.: 276-277.
[10]
E’ datato 1912 il dipinto — intitolato La
mariée — che presenta su tela l’apparato di elementi iconografici che
anche nel capolavoro successivo in vetro coincideranno con la zona della
“sposa”.
[11]
E’ autoevidente, oltre che “dichiarata”, l’importanza della mole di osservazioni
e descrizioni, di appunti sul funzionamento, di diagrammi e schemi, di
estemporanee illuminazioni e precisazioni critiche che accompagnano il
“viaggio” di Duchamp attraverso il Grande
Vetro come un diario di bordo redatto dall’autore, un malloppo
(inizialmente) caotico di materiali per lo piú verbali e comunque cartacei che
egli stesso ha accuratamente ordinato in quella sorta di “alter ego” dell’opera
che diverrà la Boîte Verte. Meno
scontato è sostenere, come a me sembra opportuno, che tale diario debba essere
ritenuto quale momento indispensabile del lavoro, una sua parte integrante e
imprescindibile, ovvero che si debba intendere il lavoro stesso come un testo
“verbo-visuale”, composto di elementi grafico-pittorici (leggibili in chiave di
linguaggio iconico) ed elementi scritturali (che si affidano ai codici del
linguaggio verbale) perfettamente integrati tra loro e del tutto
complementari. Una traduzione abbastanza attendibile della maggior parte dei
materiali della Scatola Verde è
pubblicata in Duchamp 1975.
[12]
Su questa chiave — già indicata nel primo grande saggio sul capolavoro
duchampiano, e cioè in Breton 1934 — è costruita la fortunata lettura di
Schwarz 1974, caparbiamente tesa a ricondurre al tema alchimistico tutta
l’opera del nostro, anche a rischio di finire per penalizzarla precludendola a
ulteriori (e meno unilaterali) interpretazioni.
[13]
La “prospettiva euclidea” classica, in quanto metodo eminentemente astrattivo,
è uno di tali strumenti, e il Grande
Vetro si rivela (per l’uso stesso che ne fa) una dimostrazione della
sottile dialettica tra natura e artificio che essa promuove.
[14]
Non a caso banditore di un concorso per ricercatori dilettanti del “moto
perpetuo”. Cfr. Céline 1936.
[15]
Cfr. Roussel 1933, trad.it.: 268, dove è puntualmente spiegata la “morfogenesi”
linguistica di quella figura: “Baleine (mammifero marino) à îlot (da isoletta)
= baleine (stecca di balena) à ilote [per ilota] (schiavo spartano). [...] Mou
[molle] (individuo fiacco) à raille [da burla] (qui pensai a un collegiale
pigro che i compagni deridono per la sua incapacità) = mou [polmone di vitello]
à rails (per rotaie di ferrovia). Questi accoppiamenti di parole mi hanno dato
la statua dell’ilota, fatta di stecche di balena, che scorre su rotaie di
polmone di vitello”.
[16]
“Nel 1913 ebbi la felice idea di fissare una ruota di bicicletta su di uno
sgabello da cucina e di guardarla girare” (A
proposito dei “ready-mades”, 1961, Duchamp 1975, trad.it.: 165). Si noti la
crucialità — in questo resoconto lapidario della nascita del ready-made — dell’espressione “guardarla
girare”: è ciò che non si fa mai, con una ruota di bicicletta — a meno che essa
non venga innalzata su un “basamento” e considerata una specie di scultura
mobile. Del resto, Duchamp si dedicherà piú tardi, tra il 1920 e il 1925, ad
esperimenti di costruzione di “macchine ottiche”, per altro assai celebri e
altrettanto “celibi”, che paiono le ovvie discendenti della Ruota di bicicletta: la Semisfera rotante, i Rotorilievi, ecc. Su questa fase della ricerca
di Duchamp la testimonianza piú significativa rimane quella del suo amico e
collaboratore Man Ray (cfr. Man Ray 1963).
[17]
Il primo a impiegare sia il termine (“piano di intersegazione”) sia il concetto
fu notoriamente l’Alberti, nel suo fondativo trattato di pittura, là dove esso
viene fatto coincidere con una “finestra aperta” che interrompe la superficie
di un muro per lasciar vedere le cose che stanno oltre il medesimo: “Principio,
dove io debbo dipingere scrivo uno quadrangolo di retti angoli quanto grande io
voglio, el quale reputo essere una finestra aperta per donde io miri quello
che quivi sarà dipinto” (Alberti 1435, ed. moderna: 36).
[18]
Il termine quinta prospettica, da cui
deriva quinta teatrale e di cui anche
i migliori dizionari etimologici non sanno dare una spiegazione convincente,
sembra riferirsi precisamente alla definizione di prospettiva formulata da
Piero della Francesca. Il genere femminile attribuito al numerale — che diviene
poi sostantivo — evidenzia tale derivazione: “quinta parte della prospettiva”,
ovvero, come abbiamo visto, il piano che sta tra l’osservatore e la cosa
osservata. Il successo e la diffusione del trattato di Piero, i cui concetti
vennero ripresi in una miriade di libri di analogo argomento tra i secoli XV e
XVII, deve aver consentito il codificarsi di un’espressione abbreviata che
finirà con l’apparire piú tardi di origine misteriosa.
[19]
E’ il motivo originario del velo, che
la cultura greca aveva elaborato con l’apologo di Zeusi e Parrasio, con la
mitica “gara tra pittori” la cui descrizione piú importante è nel referto
latino della Naturalis Historia (XXXV,
65). Cfr. Plinio il Vecchio 1982, trad.it.: vol. V, 361-363.
[20]
Per comprendere la portata della teoria dell’anamorfosi anche in sede di
epistemologica, e dunque in rapporto alla “nuova scienza” seicentesca, rimane a
tutt’oggi irrinunciabile Baltrusaitis 1955.
[21]
Come è noto, è l’utilizzo di tale concetto a consentire la realizzazione dei Vasi capillari del Grande Vetro. Si veda anche oltre, nel presente saggio.
[22]
In Clair 1975 è decisamente soverchia l’importanza attribuita all’influsso di
Gaston de Pawlowsky, gallerista e scrittore di fantascienza nella Parigi di inizio
secolo. Il suo Voyage au Pays de la
quatrième dimension colpí senza dubbio Duchamp, come egli stesso ci ricorda
nell’intervista a Cabanne, ma le premesse “scientifiche” di tale romanzo sono
troppo banali per non apparire limitate e limitanti a chi già conosceva bene le
speculazioni post-cartesiane del XVII secolo.
[23]
Non c’è dubbio, poi, che gli Stampi
maschi comportino un processo nel quale il gioco proiettivo sembra
coinvolgere il rapporto tra la terza e l’ipotetica quarta dimensione (passaggio
da 3-D a 4-D, o viceversa, con ricaduta sulla 2-D del vetro)... Ma, se questo è
il gioco, è comprensibile il fatto che non ci sia possibile comprenderlo: c’è
di mezzo, appunto, il “livello 4”, irrazionale per definizione.
[24] Abbott 1882. Duchamp probabilmente non conosceva in modo
diretto questo libro, ma aveva senza dubbio potuto comprenderne il significato
attraverso gli echi che di esso si riflettono nel già citato romanzo di Gaston
de Pawlowski.
[25]
Il che poi vuol dire che Duchamp contribuisce, a suo modo, a rafforzare la piú
avvertita consapevolezza teorico-pratica delle avanguardie pittoriche del XX
secolo, da Matisse a Malevich e oltre.
[26]
Queste prove o esperimenti o giochi, realizzati con l’aiuto di Man Ray, non
fanno che riprendere e ampliare — come già detto — i tentativi di carattere
scientifico o pseudoscientifico messi in campo nel periodo 1913-15. Cfr. sopra,
nota 16.
[27]
“Questa potenza timida, distribuita al motore a cilindri deboli, a contatto con
le scintille della sua vita costante (magnete-desiderio) esplode e fa sbocciare
questa vergine arrivata al compimento del suo desiderio” (Boîte Verte, 1934, Duchamp 1975, trad.it.: 53).
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