domenica 26 settembre 2010

MACCHINAZIONE LINGUISTICA

LA MACCHINAZIONE LINGUISTICA
Uno studio del rapporto Duchamp-Roussel
(pubblicato in «Corposcritto», n. 3, Bari, 2003)



1.

Secondo la sua stessa testimonianza, all’età di venticinque anni e poco prima di inaugurare la riflessione che lo porterà al Grande Vetro, Marcel Duchamp fu spettatore della versione teatrale delle Impressions d’Afrique di Raymond Roussel[1], un’opera (e uno scrittore) la cui influenza sulla concezione complessiva della Mariée mise à nu par ses célibataires, même è stata a mio avviso decisamente sottovalutata. Riflessi dell’ammirazione del giovane Marcel per quello spettacolo si possono reperire tra i ricordi di Apollinaire, che lo vide insieme a lui e a Picabia al Théâtre Antoine di Parigi nel 1912, dopo che la prima apparizione del testo rousseliano, in veste di romanzo, si era rivelata un fiasco assai doloroso per il suo autore.
E’ probabile che proprio dalla “sinistra partitura” delle Impressioni d’Africa, ridondante di strani e assurdi marchingegni, sia venuta a Duchamp la spinta piú forte a interpretare in direzione “meccanomorfa” il già acquisito metodo cubista: una svolta attestata dai principali dipinti del 1912 — Giovane triste in treno, Nudo che scende le scale, Il re e la regina circondati da nudi veloci — e destinata a metterlo in contrasto con i piú anziani esponenti dell’avanguardia francese, dato che subordinava i nuovi motivi di analisi e scomposizione della forma agli scopi di una esaltazione del dinamismo meccanico tutto sommato estranea alla logica cubista e, semmai, in grado di richiamare alla mente (sia pure a uno sguardo un po’ superficiale) certe esperienze del futurismo italiano. Ed è certo — se non si vuole pensare a un’inutile menzogna da parte di Duchamp stesso — che proprio il testo rousseliano abbia fatto scoccare in lui la scintilla che lo porterà in breve a concepire il complesso apparato mitico-macchinico del Grande Vetro. Infatti è vero che con Duchamp c’è sempre il rischio di prendere abbagli, ma talora sarebbe forse sufficiente affidarsi alle dichiarazioni di un artista per iniziare a capirlo! Ascoltiamo una sua risposta del 1966 a Pierre Cabanne:

Fu formidabile [...] era assolutamente la follia dell’insolito. — Forse la sfida al linguaggio lanciata da Roussel corrispondeva a quella da lei lanciata alla pittura? — Se proprio vuole! Non chiedo che questo! (Duchamp 1966, trad.it.: 46-47).

Nonché alcune frasi di vent’anni prima, tratte dall’intervista Sweeney:

Roussel suscitò il mio entusiasmo d’allora. Lo ammiravo perché arrecava qualcosa che non avevo mai visto. Solo questo può suscitare dal mio piú profondo essere un sentimento d’ammirazione — qualcosa che basta a se stessa [...]. E’ Roussel che, sostanzialmente, fu responsabile del mio Vetro, La Mariée mise à nu par ses célibataires, même. Furono le sue Impressions d’Afrique che mi indicarono a grandi linee la prassi da adottare. Questa pièce che vidi in compagnia di Apollinaire mi aiutò enormemente in un uno dei miei modi di esprimermi. Vidi immediatamente che potevo subire l’influenza di Roussel. [...] E Roussel mi mostrò la strada (Discorso – Conversazione con J.J.Sweeney, 1946, Duchamp 1975, trad.it.: 148-149).

Ora, per restare al problema accennato, ossia all’atteggiamento di Duchamp nei confronti delle avanguardie a lui contemporanee, se riusciremo a comprendere (con sufficiente precisione) in quale senso “Roussel mi mostrò la strada”, saremo anche in grado di cogliere tutta la distanza che separa il nostro dalle teorie del dinamismo futurista italiano — intorno al 1912 e a maggior ragione piú tardi — e, perciò, la clamorosa infondatezza delle accuse che gli mossero i “compagni di strada” francesi.
Da ribadire, intanto, è il fatto che a Marcel non interessava per nulla il dinamismo “in sé” del mondo esterno o il mutamento provocato dal tripudio della tecnica nella vita quotidiana. Egli non provò mai alcuna simpatia per le opere e le posizioni teoriche di Marinetti, di Boccioni e di Balla, che avevano per lui il difetto — a non dir di peggio — di essere ideologiche, apologetiche, filomoderniste e totalmente prive di ironia:

Non c’era futurismo, anche perché io non conoscevo [al tempo del Nudo che scende le scale] i futuristi. Per me i futuristi sono degli impressionisti urbani che, invece di fare delle impressioni di paesaggio, si servono della città (Duchamp 1966, trad.it.: 48).

Impressionisti urbani: che colgono, quindi, dello sviluppo tecnologico e delle recenti rivoluzioni in àmbito scientifico gli aspetti piú superficiali, le parvenze esteriori, le ricadute sul piano della sensibilità psicologica comune e della mera percezione visiva.
Personalmente sono convinto che per cogliere il profondo significato della presenza della macchina (e bisognerebbe anzi dire della nuova coscienza scientifica) nell’arte di Duchamp sia necessario soffermarsi, appunto, su alcuni tratti della scrittura e dell’immaginazione di Roussel. Nei romanzi di quest’ultimo, cosí come nei suoi testi teatrali (da Impressioni d’Africa a Locus Solus, da Polvere di soli a La stella in fronte), l’elemento macchinico svolge un ruolo di primissimo piano, qualificandosi come un vero e proprio incubo costante. Tutto si realizza a partire da “ritrovati della scienza”... Ma, occorre precisare, non dalle macchine note e realmente impiegate nei vari campi della produzione o dell’uso quotidiano... No, poiché gli apparecchi di Roussel sono sempre fantastici, mirabolanti, improbabili. In essi, anzi, sembra essersi depositato tutto l’immaginario onirico di uno scrittore che vorrebbe essere il nuovo Jules Verne e che probabilmente è solo un maniaco ossessionato dalla propria “carenza di immaginazione”[2]. Basti ricordare che Locus Solus — che farà piú tardi delirare di gioia Breton — è imperniato sulla figura di un “formidabile scienziato” il quale, nel parco della sua villa, mostra ad alcuni visitatori le proprie scoperte e invenzioni: in pratica una sequela di dispositivi meccanici e biologici, di automi, di prodigi dell’assurdo, di congegni tanto complessi quanto inutili (o utili solo a “far pensare”, a stimolare la vis phantastica dei fruitori); e l’intero libro — nient’altro che il racconto di una visita guidata a tale museo, iperbolico e ipotetico — è solo un prolisso e ragionato elenco di astruse meraviglie fantascientifiche, benché sia uno dei libri piú affascinanti della sua epoca.
Ebbene, anche quando non si sapeva ancóra quale “macchina linguistica” il narratore avesse impiegato per scrivere i suoi romanzi (la rivelazione postuma è in Come ho scritto alcuni dei miei libri)[3], ai piú avveduti tra i suoi estimatori doveva già apparire chiara almeno una cosa: che c’è un rapporto profondo, e per cosí dire organico, fra le trovate che pullulano in quelle opere e il linguaggio che le modella descrivendole. In altre parole, che esse sono nient’altro che il prodotto di un accanito lavoro sul significante verbale, lavoro di scomposizione e di gioco linguistico. Sono metafore del linguaggio, che vengono generate dagli ingranaggi della scrittura e ad essi rimandano... L’ossessionante protagonismo del dispositivo meccanico in Roussel allude quindi al carattere di machinerie che la sua opera inizia ad assumere già nella fase della propria costruzione: un carattere ben visibile “a occhio nudo”, ossia, come suggerivo poco fa, anche in assenza di consapevolezze circa i metodi specifici (che formano il procédé)messi in funzione per realizzarla.
Il metodo che lo scrittore, al momento di redigere il proprio testamento, dichiarerà di aver seguíto — pretendendo perfino di lasciarne in eredità l’utilizzo ad eventuali epigoni[4] — riproduce infatti il funzionamento della macchina in quanto sovvertitrice di rapporti di forza. La macchina, assumendo il comportamento di una trappola tesa sotto i piedi delle forze della natura, riesce a far compiere a quelle forze il lavoro per cui è stata costruita; e il metodo di Roussel fa la stessa cosa: si comporta, a tutti gli effetti, come una trappola tesa sotto i piedi del linguaggio, poiché riesce a far compiere al linguaggio il lavoro che lo scrittore (per inconfessabile povertà di immaginazione) non può compiere, il lavoro per il quale — appunto — il procédé è stato inventato, che è un “lavoro” di produzione fantastica[5].
Si sa come tale metodo funzioni: una frase banale, dotata di un qualsiasi senso comune (e magari tratta da una sciocca canzonetta alla moda), viene scomposta per omofonie, o anagrammata, o forzata nel suo doppio senso, in modo tale da ricavarne un insieme di elementi linguistici — parole o frammenti di frasi — che andranno ricomposte in una struttura sintattica e di contenuto nuova, ossia ricollegate logicamente grazie all’intervento “creativo” dello scrittore[6], il quale, nel “restituire” un significato alla frase trasformata, finisce per entrare in possesso di una situazione narrativa da sviluppare. Reiterando il procedimento su altri elementi linguistici via via affrontati, egli ha poi la possibilità di arricchire la dimensione fantastica “trovata” e di porsi di fronte a una vera e propria genesi del romanzo dal seno imprevedibile del linguaggio.

Non soltanto — osserva Michel Leiris — il procedimento impiegato da Roussel per la composizione delle opere in prosa ha un immenso interesse perché restituisce deliberatamente al linguaggio il suo ruolo di agente creatore invece di contentarsi di usarlo come strumento esecutivo, ma si direbbe che l’assoggettamento a una regola speciosa e arbitraria [...] porti come conseguenza a una distrazione il cui potere liberatorio appare molto piú efficace che non l’abbandono puro e semplice, connesso all’uso di un procedimento come la scrittura automatica (Leiris 1954, trad.it.: 297-298).

E il riferimento alla scrittura automatica non sarà poi cosí gratuito (come potrebbe magari apparire a prima vista) se è vero che — pur tenendo conto della sua volontaria estraneità a tutte le poetiche di gruppo e a qualsiasi ideologia d’avanguardia — è proprio alla pretesa surrealista di legare a rigorose “tecniche” la sola chance di liberazione dal senso comune indotto che Roussel può essere legittimamente accostato[7].
La constatazione che si impone è ora la seguente: l’indiscutibile casualità a cui il procédé si affida (e su cui, anzi, si fonda) non esime affatto i romanzi dalla ripetizione di situazioni ben definite e sempre riconoscibili, quasi grottescamente ricorrenti, che vengono a formare infatti una sorta di “mania” rousseliana... Il dato è estremamente rilevante, perché quelle situazioni non fanno che riproporre il ruolo della macchina (della condizione ingegneresca e para-scientifica, piú in generale) come metafora ossessiva interna del meccanismo procedurale esterno. Come dire — appunto — che il procédé, in quanto macchina per la narrazione, non può che partorire (a livello di contenuti fantastici) narrazioni di macchine. E come stupirsi, allora, del fatto che tali “macchine narrate” abbiano per lo piú lo scopo, nella fabula rousseliana, di produrre fenomeni estetici e, dunque, a loro volta (ancóra una volta!) linguistici?
Tale circolarità perfetta (dal linguaggio che genera macchine alla macchina che genera linguaggio) è ben visibile in Locus Solus, dove le invenzioni del protagonista-genio Martial Canterel sono quasi sempre mostruosi marchingegni atti a permettere una fruizione estetizzante dei prodigi della scienza. Il fine di questi dispositivi (nel senso piú stretto del termine) è quello di illustrare, secondo diverse e svariate modalità, altrettante ingenue tipologie di “produttività artistica” ricavata da fenomeni naturali, o anche di trasformare il naturale stesso in “artificiale” — come se alla fin fine lo scopo ultimo e piú vero della ricerca scientifica non fosse, appunto, che quello di piegare la natura a scoprirsi linguistica, a farsi luogo di eventi estetici in quanto stupefacenti o stupefacenti in quanto estetici.
Nel secondo capitolo del libro, ad esempio, un terribile e portentoso congegno sfrutta le forze congiunte dei fenomeni meteorologici, del calore solare, dei processi di riflessione e rifrazione della luce, nonché alcune proprietà chimiche di certe sostanze, per costruire un mosaico di denti umani[8]. Questa “macchina-ballerina” — pur derivando dalla casuale scomposizione omofonica della frase demoiselle à prétendant [fanciulla da marito] in demoiselle à reître en dents [“ballerina”, nel senso di apparecchio da pavimentazione, per un “raitro”, ossia un cavaliere medioevale, in denti][9] — incarna la possibilità di realizzare un’opera d’arte a partire dalla collaborazione ingegneresca tra un oggetto tecnologico e una serie di elementi naturali. La demoiselle, come afferma il suo inventore nel romanzo, è “capace di creare un’opera estetica dovuta unicamente agli sforzi combinati del sole e del vento”. E riproduce perciò, in via metaforico-metonimica, il procedimento impiegato da Roussel per immaginarla, per arrivare a concepirne l’idea. Essa è l’immagine stessa dell’autore alle prese con il linguaggio e con il romanzo da scrivere: collaborazione ingegneresca tra il dispositivo di deflagrazione linguistica e una logica fantastico-pulsionale che, assecondandone i referti improbabili, giunge a conferire loro un sia pure allucinatorio senso.



2.

In Roussel il piano della narrazione (il processo della scrittura) ripete il piano del narrato, l’a-priori procedurale ricalca la linea dei risultati raggiunti, in una inesorabile doppia matematica dell’assurdo. Non solo la demoiselle di Locus Solus, ma tutte le macchine rousseliane assolvono a questa primaria funzione: mostrare che l’arte (la vis ideativa che ne sta alla base) può sprigionare solo dalla fusione di due termini contraddittòri, un elemento tecnico di pura astrazione intellettuale — completamente irrelato al piano del pensiero oggettivo — e una serie di dati materiali riferibili al mondo naturale.
Nella sua introduzione a Locus Solus, Paola Dècina Lombardi suppone giustamente che

se da Impressions d’Afrique Duchamp ricaverà i primi spunti, è nella demoiselle di Locus Solus che troviamo maggiori analogie con la Mariée (cfr. Roussel 1914, trad.it.: VIII).

La “signorina da marito” della frase eponima rousseliana, che linguisticamente partorisce la macchina-artista di Canterel, è divenuta in Duchamp la “sposa”, il principio ispiratore del Grande Vetro.
Ora è fuor di dubbio che, quando il libro di Roussel apparve in libreria, nel 1914, Duchamp aveva già progettato le forme della Mariée in senso stretto[10], e aveva ideato alcune delle parti dell’Apparecchio Scapolo: la Macinatrice di cioccolato, che è del 1913-14, la Slitta contenente un mulino ad acqua in metalli vicini, ideata tra il 1913 e il 1915. Ma ciò non impedisce che il secondo grande romanzo di Roussel, autore di cui egli aveva già immensamente apprezzato, come sappiamo, le Impressions d’Afrique, possa averlo aiutato a definire il principio informatore della “patafisica” del Grande Vetro, la cui progettazione complessiva è da collocarsi all’inizio del primo soggiorno americano, intorno al 1915. E’ questo — assai probabilmente — il momento in cui gli elementi ideati in precedenza vengono innestati in un insieme coerente e raccordati tra loro, sia per mezzo di una nuova distribuzione spaziale, sia grazie a un lavoro per cosí dire “teorico”, che li supporta di una serie di attribuzioni nominali e definizioni inedite[11]. La macchina, per esempio, subisce una modifica sessuale: se in Roussel essa era di segno femminile (occorre proprio dire “segno”: la forma della demoiselle, una sfera che sormonta una grande croce, rimanda inequivocabilmente al simbolo astrologico di Venere), nel Grande Vetro diviene “apparecchio scapolo”, puro principio maschile — sebbene di una mascolinità “ridotta”, “frustrata”, non del tutto espressa, visto che lo scapolo è il maschio a cui manca il rapporto con la femmina.
La Sposa in senso proprio — cioè l’entità che “regna” nella parte alta dell’opera in vetro (opus in vitro, come in un esperimento chimico o piú precisamente alchemico[12]) — è infatti piuttosto un organismo biologico (come dicono le sue fluttuanti e mobili forme) che non una macchina... Per contro, del tutto “meccanica” appare la metà inferiore, che la Boîte Verte designa appunto con il nome di Machine Célibataire, “apparecchio scapolo”. Sicché risulta legittimo sostenere che il Grande Vetro illustri, tra i suoi diversi significati, anche la vicenda di un amplesso desiderato (ma non realizzato e forse sentito come irrealizzabile) tra un soggetto macchinico maschile e un organismo biologico femminile, ovvero — a livello materiale-visuale — tra un insieme di meccanismi ingegnereschi (descritti, si noti bene, secondo proiezione prospettica rigorosa) e un coacervo di elementi biomorfi, la cui descrizione pittorica si intuisce matematica e rigorosa ma senza poterne individuare alcun principio informatore certo. Sicché ci troveremmo di fronte al medesimo fenomeno apologizzato in Locus Solus: l’indicazione di un desiderio di congiunzione utopistica di naturale e cerebrale, di biologia e matematica, come premessa alla creazione dell’opera d’arte.
La Sposa che viene messa a nudo dai suoi scapoli è infatti anche l’opera medesima: l’opera d’arte che è “rivelata” ai suoi fruitori, ovvero dai suoi fruitori necessariamente costruita per il tramite di un desiderio che ne percorre le membra (altrimenti inerti) vivificandole e investendole di un significato (l’interpretazione). Quel desiderio, in altri termini, trasforma un mero congegno visivo in “evento linguistico”, ed è sulla base di una simile logica che si motiva la scelta, operata da Duchamp, di affidare a forme (para)prospettiche il dominio della parte inferiore del Vetro. Nel Regno dell’apparecchio celibe, infatti, il rigore della costruzione geometrico-proiettiva non esclude il carattere — dichiarato nella Boîte Verte — di “imperfezione delle forme”, giacché si tratta di una imperfezione per cosí dire “etica”, che deriva dalla loro artificialità, ossia dalla predominanza del macchinico e del procedimento astrattivo che il macchinico genera:

Le forme principali del dispositivo o utensile scapolo sono imperfette: rettangolo, cerchio, quadrato, parallelepipedo, ansa simmetrica, semisferica. Cioè: queste forme sono misurate [...]. Nella Sposa le forme principali saranno piú o meno grandi o piccole, non hanno misurazione, [...] la loro rappresentazione materiale sarà l’esempio di ognuna di queste forme principali liberate (A l’Infinitif, 1966, Duchamp 1975, trad.it.: 102-104).

E non è esattamente questo che distingue il dato naturale dall’astrazione geometrica che tenta di imbrigliarlo per farne oggetto di un possesso umano? Da un lato abbiamo “forme” che si dànno nel loro essere libere da motivi e possibilità di misurazione (incommensurabili), dall’altro la sistemazione che l’uomo opera dell’esperienza che ha di esse, attraverso l’uso di strumenti intellettuali inevitabilmente destinati a modificarla e a renderla parziale[13]. Cosí la “volontà-desiderio” piega la natura a farsi oggetto di conoscenza, e proprio in tale chiave va (anche) letto il titolo che Duchamp ha dato alla propria opera: La Sposa messa a nudo dai suoi scapoli, ovvero la natura (e le sue forme) messa a nudo (rivelata, esperita) dagli artifici umani, la natura rivelata dalla macchina.
Locus Solus, come si è visto, è sorretto da una problematica analoga. La vicenda di Canterel alle prese con le leggi della natura, non solo riproduce quella di Roussel alle prese con le leggi del linguaggio (secondo lo schema natura/macchina = linguaggio/procédé), ma è a propria volta riprodotta (doppiata) da quella di Julius Egroizard, protagonista della seconda parte del romanzo, l’uomo-genio che la barbara uccisione della figlia ha fatto impazzire:

Persuaso di essere Leonardo da Vinci, [...] ricollegava alla propria figlia, il cui pensiero l’ossessionava, le sue universali speculazioni sull’arte e sulla scienza. [...] Egli si dedicò con grande laboriosità a delicate pratiche [...] basate su complicatissimi calcoli di distanza e di calore. [...] L’unico scopo dello sventurato, come attestavano i suoi incoerenti soliloqui, era di riprodurre la voce della figlia quale si era rivelata al suo orecchio attento attraverso gli sforzi che negli ultimi tempi ella già faceva per parlare (Roussel 1914, trad.it.: 205 e 208-209).

La proiezione su Leonardo da Vinci è finalizzata ovviamente a dar corpo (fisico e storico) al deus ex machina di Locus Solus, vale a dire all’idea che l’arte possa essere “realizzata” dalla scienza. E’ in Roussel la convinzione di tutta una vita, quella che gli ha permesso di scrivere i libri che ha scritto, quella (medesima) rivelata dal suo testamento.
Cosí come nella storia della “ballerina” troviamo una macchina che produce pittura, qui, nella vicenda di Egroizard, pare di poter vedere la ricerca scientifica alle prese con l’invenzione di “discorsi e melodie”. E, allo stesso titolo, una prodigiosa sostanza chimica, la “resurrettina”, permetterà a Canterel di insufflare vita artificiale in cadaveri non ancóra decomposti, costringendo ognuno di essi a ripetere, in presenza di spettatori stupefatti, l’episodio cruciale della biografia degli uomini a cui appartennero, in una sorta di macabro rituale che ha attinenza con la dimensione del teatro. Si tratta, comunque, di metafore del “processo artistico” (cosí come Roussel lo concepisce): groviglio di finzione e realtà, macchina e natura, ripetizione e invenzione fantastica. In esse si esplica l’onnipresente rapporto natura-scienza, unito a un’imperiosa esigenza di riscatto dalla banalità del quotidiano, che viene operato proprio attraverso le continue ripetizioni di cui il romanzo pullula: ripetizioni quasi sfuggenti, apparentemente casuali... ma capaci, nella loro ossessività, di trasformare il grigiore insulso dell’accadimento in appassionante (giacché insolubile) rebus.
Anche la tecnologia in sé e per sé detiene, per Roussel, un grande potere di riscatto. Egli sembra vivere l’idea della scoperta scientifica con lo stesso entusiasmo che investe, nel canto del cigno del positivismo occidentale, l’ingenuo spettatore sulla pubblica piazza degli “spettacoli da baraccone”, nei quali un sedicente notissimo Tal dei Tali presenta l’ultimo — per lo piú ciarlatanesco — “prodigio della scienza”. Il gran maestro di cerimonia Canterel non è in fondo null’altro che una versione nobile (e ipertrofica) di questa immagine dello “scienziato per il popolo”, ovvero dell’inesausto ricercatore del “moto perpetuo” in grado di liberare l’umanità dalla fatica, la cui ricaduta parodistico-beffarda si potrà riconoscere nell’ideale erede di Canterel medesimo, il mirabolante Courtial di Louis-Ferdinand Céline, l’inventore pazzoide (e ovviamente truffaldino) di Mort à credit[14].
Il manifesto murale che fu affisso in occasione della prima uscita a teatro delle Impressioni d’Africa visualizza perfettamente la condizione spirituale di Roussel, il suo sentimento e la sua “ideologia” della creazione letteraria. Dodici vignette con didascalie illustrano gli episodi principali della pièce, come fossero altrettante attrazioni di un Luna Park. In alto a sinistra vi è una specie di prestigiatore in abito circense, che mostra un bizzarro oggetto traslucido montato (come la duchampiana Ruota di Bicicletta) su uno sgabello, i piedi del quale sono inequivocabilmente “in stile Luigi XV” e sembrano pertanto poter fungere da prototipo all’anacronistico basamento della Macinatrice di cioccolato del Grande Vetro (incongruenza stilistica della macchina, la cui forma occulta invece di esaltare la funzione): “La macinatrice è montata su un telaio Luigi XV nichelato”, è specificato nella Boîte Verte del 1934 (cfr. Duchamp 1975, trad.it.: 81). Strani congegni — insufflatori del meraviglioso nella quotidianeità — appaiono in altre vignette, mentre la “statua in osso di balena scorrente su binari in polmone di vitello”[15] rimanda, per analogia di situazione e di movimento, alla Slitta contenente un mulino ad acqua, secondo elemento fondamentale dell’Apparecchio Scapolo: “La slitta è montata su pattini incastrati in un binario sotterraneo invisibile” (Duchamp 1975, trad.it.: 67).
Che Duchamp abbia subíto il fascino di Roussel proprio per questo motivo di incessante ricerca del meraviglioso nel tecnologico, risulterà evidente se solo faremo attenzione al significato piú profondo del ready-made: operazione di riscatto sistematico dell’oggetto d’uso (industriale, prodotto in serie, e dunque banale) attraverso un intervento di decontestualizzazione che vi introduce l’elemento dello stupore e di una fruizione “ammirata”. Il gesto che qualifica l’oggetto-trovato come artistico esige un’azione di scelta e di modifica che lo ri-scopre e persino lo reinventa, impedendogli di rimanere del tutto ciò che è, “pronto e fatto”. Cosí Duchamp parlerà di ready-made aiutato, di ready-made rettificato, di quasi ready-made, ecc. La Ruota di bicicletta (1913) è montata su uno sgabello da cucina, ed è pertanto libera di scorrere sotto la pressione della mano trasformandosi in una “macchina ottica” di nuovo genere[16]; l’attaccapanni inchiodato al pavimento si muta in un Trabocchetto (1915 ca.); l’orinatoio capovolto assume le responsabilità di una Fontana (1917).

Se egli abbia o no costruito la fontana — dice Duchamp del fantomatico Richard Mutt che ha firmato l’opera (ossia di se stesso) — non ha importanza. Egli l’ha scelta. Ha preso un qualsiasi oggetto quotidiano e l’ha presentato in modo da farne sparire, sotto il nuovo titolo e la nuova visuale, il significato d’uso: ha creato, per questo oggetto, un pensiero nuovo (Duchamp 1917, trad.it.: 73).

Questo è in effetti l’ambito problematico che ci permette di intendere il ready-made. “Spostare il punto di vista dello spettatore rispetto a ciò che questi osserva”. O anche (come per le macchine di Locus Solus): generare valore estetico facendo sparire il “significato d’uso”. Un’operazione che, come si può facilmente comprendere, corrisponde a quella tentata da Roussel nel campo della parola: le epifanie del verbo, rivelatosi “diverso”, riscattano il linguaggio dalla sua banalità di oggetto d’uso (strumento per la comunicazione) e ne fanno un oggetto (oltre che un agente) “estetico”. Non solo: sottraggono ai legittimi proprietari gli strumenti di controllo linguistico, ponendo fine all’egemonia della logica tradizionale con la categorica affermazione di un significato “altro”.



3.

Il concetto di “piano di intersezione”[17] è il fondamento della prospettiva pittorica classica, essendo la descrizione (preliminare) di un luogo simbolico (o astratto) che trova la propria puntuale materializzazione nell’elemento in cui si invera per antonomasia la pittura: la superficie del quadro. La formulazione che ne ha dato Piero della Francesca è limpida:

La prospectiva contiene in sé cinque parti: la prima è il vedere, cioè l’ochio; la seconda è la forma de la cosa veduta; la terza è la distantia da l’ochio a la cosa veduta; la quarta è le linee che se partano da l’estremità de la cosa e vanno a l’ochio; la quinta è il termine che è intra l’ochio e la cosa veduta dove se intende ponere le cose (Piero della Francesca 1470, ed. moderna: 64).

In un linguaggio piú moderno potremmo dire che la rappresentazione prospettica presuppone cinque elementi: l’atto del vedere; l’organizzazione del veduto sotto specie di forma; lo spazio nel quale soggetto vedente (occhio) e forma veduta si correlano (distantia); l’esistenza della “piramide visiva” (cioè delle modalità ottico-fisiologiche della visione); e infine il “piano di intersezione”, che corrisponde alla presenza teorica della superficie sulla quale l’immagine dell’oggetto veduto viene proiettata. Il quinto e ultimo punto, tuttavia, costituisce una sorta di forzatura rispetto alla “naturalità” degli altri — dato che si tratta di un’astrazione, di un elemento ipotetico da aggiungere e da rendere reale grazie a un atto arbitrario di volontà (linguistica):

La quinta è uno termine nel quale l’ochio descrive co’ suoi raggi le cose proportionalmente et posse in quello giudicare la loro mesura: se non ci fusse termine non se poria intendere quanto le cose degradassero, sí che non se poriano dimostrare (Piero della Francesca 1470, ed. moderna: 64-65).

Il piano di intersezione, la superficie trasparente che taglia in modo perpendicolare il fascio di raggi della piramide visiva, è posto idealmente a una distanza “mediana” tra l’occhio e l’oggetto visto (il mondo da rappresentare): dunque, in certo senso, è posto fuori dal mondo, nella misura (almeno) in cui anche il soggetto vedente vi è immerso. Dalle parole di Piero (“nel quale l’ochio descrive co’ suoi raggi”) par di capire che il percorso dei raggi luminosi non viene solamente interrotto (intersecato) da questo piano, ma piuttosto che i raggi vengono anche riproiettati specularmente dall’occhio sul piano, insinuandosi cosí nell’intero meccanismo un motivo di ulteriore astrazione, di artificio puramente razionale.
Il piano “mentale” (teorico) è destinato a concretizzarsi nel dipinto, che sovrappone la propria opacità reale alla sussistente trasparenza simbolica. Esso assume la consistenza fisica della tela, dell’immagine collocata sulla superficie, o piuttosto forse solo degli elementi concreti (macchie di colore) che formano l’immagine... Ma è evidente che persiste a partecipare di una sostanziale alterità rispetto alla fenomenologia del reale, se l’occhio dell’osservatore, allorché avrà ricevuto (decifrato) l’immagine della cosa, obbligato suo malgrado a ripercorrere il tragitto in senso contrario, la dovrà rilanciare dietro il piano bidimensionale, fino alla posizione che essa occupava quando era reale (cioè nella posizione che occuperebbe se fosse reale), collocandola alla distanza che la “degradazione” prospettica impone.
Il piano di intersezione, o “quinta prospettica”[18], trova già una sua concretizzazione (una presenza materiale) nelle macchine illustrate da Dürer nell’Underweysung der Messung (Norimberga 1525), che potremmo anche considerare “macchine celibi” ante litteram, se è vero che il loro scopo è la realizzazione di opere d’arte. In esse uno sportello, fissato su un tavolo o su un cavalletto, viene a infrapporsi tra il pittore che guarda attraverso un mirino fisso e l’oggetto che egli deve riprodurre. Lo sportello è via via costituito da una lastra di vetro o da un reticolo di fili ortogonali, ma è sempre trasparente, giacché deve permettere la proiezione fisica dei tratti di contorno del “modello” sulla propria superficie, che verrà in séguito riportata sopra un piano opaco di carta o di tela. In Dürer lo sportello serve dunque unicamente da supporto provvisorio dell’immagine, e può essere considerato come una specie di luogo di congiunzione (quasi una tappa intermedia) tra il piano di intersezione teorico e il dipinto concreto.
Nel Grande Vetro di Duchamp, invece, l’Apparecchio Scapolo sembra essere costruito, come hanno notato Clair (in AA.VV. 1977) e Lyotard (1977), direttamente sullo sportello vitreo düreriano, nonostante sia noto che l’artista non ha impiegato mezzi prospettici canonici. L’uso medesimo di fili metallici come contorni lineari delle forme “dipinte” (il termine è ovviamente improprio) evoca con precisione questo clima di tecnicità che si trova anche negli apparecchi di Dürer, conducendo la scientificità della determinazione dell’immagine a rafforzare ulteriormente la già forte presenza dell’elemento macchinico nella parte inferiore della Mariée. E non si potrà poi, a questo punto, evitare di ricordare che la prima versione della Slitta contenente un mulino ad acqua in metalli vicini (come opera a sé stante, visibile accanto al Grande Vetro nel museo di Filadelfia) prevede esattamente uno sportello vitreo girevole (su cardini che lo agganciano al muro ma gli permettono di ruotare di 180°) quale supporto dell’immagine.
Ma ciò che piú importa è che Duchamp, in questo modo, dimostra di aver inteso il significato piú intimo dell’operazione prospettica: l’occhio dello spettatore giunge, con relativo turbamento, a percepire i segni bidimensionali come contorni di oggetti reali posti sul pavimento a di là del vetro, e ovviamente li percepisce come a una distanza che corrisponde a quella che la riduzione prospettica ha appena terminato di annullare; solo uno sforzo psicologico, oppure uno spostamento laterale del punto di vista, permettono di decifrare con prontezza l’inganno; allo stesso tempo — tuttavia — la finzione si rivela tale per una sorta di esagerazione nell’esattezza geometrica, per una forma di innaturalità della proiezione volutamente “caricata”. Riporto alcuni passi dell’intervista concessa a Pierre Cabanne nel 1966:

Il vetro mi interessava molto come supporto, per via della sua trasparenza. Ed era già molto. [...] Inoltre, la prospettiva era anche molto importante. Il Grande Vetro costituisce una riabilitazione della prospettiva che era stata completamente ignorata, screditata. In me, la prospettiva diventava assolutamente scientifica. [...] Non si trattava piú della prospettiva realista. Si trattava di una prospettiva matematica, scientifica (Duchamp 1966, trad.it.: 53).

E alla domanda sugli eventuali significati simbolici (alchemici) del vetro:

No, no, assolutamente. Il vetro, per la sua trasparenza, poteva dare la sua massima efficacia alla rigidità della prospettiva, ed escludere anche ogni idea di “pasta” [cromatica], di materia. Io volevo cambiare, avere un nuovo approccio (Duchamp 1966, trad.it.: 58).

Mentre a Richard Hamilton, nel 1959, Duchamp aveva risposto:

Ogni parte è in scala e sviluppata cosí completamente che la proiezione in prospettiva sul vetro è una dimostrazione della prospettiva classica; gli elementi dell’Apparecchio scapolo, cioè, sono stati immaginati in un primo tempo come se fossero distribuiti sul pavimento dietro il vetro piuttosto che come composizioni su una superficie bidimensionale (cit. in Schwarz 1974: 153).

Dimostrazione ideale del funzionamento della prospettiva classica: questo è il significato che tutto contribuisce a proporre come essenziale per la comprensione del ruolo dell’Apparecchio Scapolo. Jean Clair (1975) — tralasciando le suggestioni esoteriche su cui hanno molto insistito Calvesi (1975) e Schwarz (1974) — non ha perso l’occasione per farsi sostenitore di questa tesi, e ha insistito sulla basilarità del concetto di “proiezione” nel capolavoro duchampiano. Egli ha però collegato, sicuramente con ottima cognizione di causa, tale concetto (o meglio, l’interpretazione che ne dà il Grande Vetro) alle speculazioni para-scientifiche sulla 4° dimensione che all’epoca incendiavano la fantasia dei giovani artisti di ascendenza cubista (oltre che tanti “scienziati dilettanti”) e che occupano, infatti, molto spazio nelle note di Duchamp sulla Mariée, reperibili sia nella Boîte Verte che nella Boîte Blanche (A l’Infinitif). Ora, pur senza voler mettere in discussione questo collegamento, occorre a mio avviso fare un passo ulteriore e intendere l’interesse duchampiano per la prospettiva anche in relazione a quella problematica della macchina che, ispirata da Roussel, egli finisce per fare completamente sua. Impossibile sottovalutare allora il dato per cui la prospettiva (nella sua versione ovvia, come proiezione di “figure” immaginate a 3 dimensioni su una realtà geometrica a due) si applica quasi esclusivamente ai congegni para-meccanici della parte inferiore del Vetro, e in particolare alle due grandi macchine che ne garantiscono il “funzionamento”: la Macinatrice di cioccolato, corredata dalla serie dei Setacci (la cui esecuzione prospettica è una vera acrobazia di precisione), e la Slitta contenente un mulino ad acqua in metalli vicini. E’ insomma la macchina ad essere prospettica per eccellenza e la prospettiva stessa è in qualche modo una macchina.
Abbiamo già visto, del resto, come queste “illazioni” possano motivarsi: nella macchina — sub specie rousseliana — l’artificio sta alla natura come nella prospettiva il risultato della proiezione (o se si preferisce: il piano di intersezione che la permette) sta all’oggetto tridimensionale. Una stessa forza di ribaltamento agisce, per tramite della volontà umana, sui referti del dato esperienziale: qui costringendo la natura a farsi carico di un certo lavoro (cosí come il mulino ad acqua permette il movimento della slitta trasformando l’energia di una invisibile cascata), là costringendo la realtà del mondo a manifestarsi nella sua nuova veste di immagine (bidimensionale).



4.

Vale la pena di procedere con due osservazioni. La prima concerne la relazione intrinseca tra mimesi naturalistica (che sta alle origini del concetto stesso di immagine in Occidente[19]) e artificio meccanico; e ci dice che la consapevolezza di tale rapporto — in certa misura già presente nella teoria pittorica del Quattrocento — riemerge con forza proprio all’epoca degli esordi della “scienza moderna”, nel secolo XVII, quando i nuovi “prospettici”, con la prassi dell’anamorfosi, estendono il metodo della proiezione albertiana ben oltre i suoi intenti iniziali, e ne raddoppiano gli effetti applicandolo non piú alla realtà ma all’immagine stessa già realizzata, e per questa via lo ridefiniscono (perfino loro malgrado) come regola universale per le trasformazioni dimensionali, a prescindere, cioè, dai vincoli fino allora ineludibili di una dialettica che coinvolge(va) solo 2° e 3° dimensione (ossia solo “immagine” e “realtà”)[20]. Qui il motivo del “ribaltamento”, implicito nel metodo classico quattrocentesco, si esplicita come possibilità ulteriore di distruzione (occultamento) dell’immagine a mezzo del suo trasferimento in una dimensione ulteriore dello spazio, una dimensione la cui esperibilità risulta (gioco forza) solo futuribile o immaginabile. Il secondo rilievo riguarda il fatto che sappiamo perfettamente come e quando Marcel Duchamp ebbe modo di leggere i trattati dei prospettici del Seicento e di scoprirvi i sortilegi dell’anamorfosi. Fu infatti allorché assunse, nel 1913, un impiego di bibliotecario presso uno dei pochi luoghi al mondo in cui quella sapienza era del tutto disponibile, la Bibliothèque Sainte-Genèvieve di Parigi, l’antico covo dei “padri francescani minimi” detentori pressoché in esclusiva della nuova matematica prospettica. Là, in quella biblioteca, in cui il nostro lavorò e studiò per diversi mesi, si potevano aprire (ed è tuttora possibile farlo) i sacri libri di Jean du Breuil, di Jean-François Niceron, di Salomon de Caus e di Emmanuel Maignan sulla “prospettiva curiosa” o “magia artificiale degli effetti meravigliosi”, cosí come tutti i testi di Cartesio che li avevano propiziati.
Che Duchamp abbia studiato con passione quei libri è testimoniato in maniera inoppugnabile da una nota del 1914 (poi raccolta in A l’Infinitif) che sembrerebbe relativa al problema del rapporto tra caso e precisione nel concetto di metro diminuito[21]. In essa si legge:

Prospettiva. Vedere nel catalogo della Biblioteca di Sainte-Genèvieve tutta la voce Prospettiva. Niceron (Padre J., Fr.) “Thaumaturgus opticus” (A l’Infinitif, 1966, Duchamp 1975, trad.it.: 105).

Ora, è appena il caso di sottolinearlo, nessuno dei giovani intellettuali del secondo decennio del ventesimo secolo conosceva l’esistenza del trattato di Niceron. E d’altra parte, le osservazioni contenute nel Thaumaturgus opticus (cfr. Baltru­saitis 1955, trad.it.: passim) che Duchamp dovette trovare sorprendentemente illuminanti rispetto alle questioni di cui si stava occupando, sono di per sé sufficienti a chiarire il significato di quell’intrigante e assai criptica elaborazione teorica esposta nella Boîte Verte (1934, Duchamp 1975, trad.it.: 82-84) intorno ai concetti di apparenza e di apparizione, sul cui senso — anche in chiave operativa — si sono arrovellati (per cosí dire) i piú autorevoli esegeti del nostro. Essa azzarda infatti una sorta di fenomenologia del reale che si basa sul rapporto di coincidenza/contrapposizione tra “apparenza” e “apparizione” delle entità fisiche (oggettuali), un rapporto stando al quale — come si potrebbe riassumere con una formula lapidaria — l’apparenza di un oggetto a N dimensioni è la sua apparizione in un mondo a N-1 dimensioni.
Ebbene, un simile rebus potrà indubbiamente essere riportato alla “geometria quadridimensionale” di Jouffret, secondo il richiamo contenuto in A l’Infinitif, per cui:

L’ombra proiettata di una figura a 4 dimensioni nel nostro spazio è un’ombra a 3 dimensioni (A l’Infinitif, 1966, Duchamp 1975, trad.it.: 109).

Ma non potrà certo essere risolto con il solo ricorso a una semplice area di riflessioni sulla 4° dimensione e sulle sue caratteristiche non-euclidee, come hanno essenzialmente sostenuto Jean Clair[22] e Giorgio Franck (1989). A me pare ci sia di piú, in quell’intuizione, dell’indagine intorno alla possibilità che un oggetto che si manifesta a noi come reale (in quanto situato nel nostro spazio tridimensionale) possa essere nient’altro che la proiezione di qualcosa di altrettanto reale ma situato in uno spazio ulteriore, secondo il principio per cui Duchamp può altresí affermare (ancora in A l’Infinitif):

Ogni corpo 3 dim.le usuale, calamaio, casa, pallone frenato è la prospettiva proiettata da numerosi corpi 4 dim.li sull’àmbito 3 dim.le. (A l’Infinitif, 1966, Duchamp 1975, trad.it.: 116).

Giorgio Franck, interpretando, commenta:

L’apparenza di un oggetto è “l’insieme dei dati sensoriali usuali che permettono di avere una percezione ordinaria di questo oggetto” — è cioè il modo in cui si presenta “in un continuum tridimensionale”. L’apparizione, invece, richiede di essere pensata come il meccanismo in virtú del quale l’apparenza appare. Essa è la modalità specifica attraverso cui un corpo [...] proietta se stesso nell’apparenza (dunque nel mondo a tre dimensioni empiricamente percepibile) (Franck 1989: 131-132).

Ma con ciò — e qui sta il punto — mi pare che egli finisca per trascurare la qualità piú squisitamente “pittorica” del problema, in altre parole quel rivolto di “teoria dell’immagine” che fa della ricaduta anamorfotica del metodo albertiano (elevata a principio generale, però, e dunque al di là delle sue accezioni storiche barocche) la vera e sola “4° dimensione” — o meglio: la vera e sola dimensione ulteriore — che importa a Duchamp.
Nell’esperimento degli Stoppages-étalon un filo lungo 1 metro, teso tra due dita, viene fatto cadere dall’altezza di 1 metro su un piano perfettamente orizzontale: la figura del filo adagiato sul tavolo costituisce, secondo l’artista, una nuova unità di misura, il metro diminuito. Ovvio che l’esperimento potrebbe essere ripetuto ad libitum, e ogni volta l’unità di misura ottenuta sarebbe diversa. Per convenzione, dato che la scienza procede per convenzioni (è essa stessa linguaggio), si potrebbe decidere di eseguire l’operazione tre volte e considerare la media tra i tre risultati, decidendo che il vero metro casuale si ottiene in tal modo (Boîte, 1914, Duchamp 1975, trad.it.: 28). Un fisico potrebbe spiegare a Duchamp — che d’altronde ne era consapevole — che determinando con precisione i valori relativi alla consistenza e al peso del filo, all’umidità dell’aria, alla ventilazione, alla forza di gravità, alla pressione atmosferica, ecc. ecc., sarebbe possibile predeterminare la forma ottenuta, e che dunque non c’è nulla di casuale. Ma un simile calcolo non è eseguibile in alcuna maniera (non possediamo metodi di misurazione abbastanza accurati) e noi, d’altra parte, chiamiamo “casuali” tutti gli eventi di cui non siamo in grado di prevedere e/o comprendere con sufficiente rigore la processualità.
Rimane il fatto che il metro casuale duchampiano risulta sempre esteso in lunghezza meno di 1 metro convenzionale, e che la perdita di lunghezza si traduce ogni volta in acquisto di “spazialità laterale” (le curve del filo caduto), o — in termini piú esatti — che quanto è perduto a livello di 1° dimensione risulta acquistato in 2° dimensione, il che significa anche che il metro casuale prevede il travalicamento della dimensione lineare di competenza del metro convenzionale. In effetti, dalla 1° dimensione di una retta lunga 1 metro (il filo iniziale teso tra le dita) si passa alla 2° dimensione di un quadrato di 1 metro di lato (la figura disegnata dalla caduta, che può essere vista come la “rotazione” della retta sul piano), per tornare a una sorta di 1° dimensione decurtata e al tempo stesso allargata (il filo afflosciato, che è meno di 1 metro come estensione unidimensionale, ma che può essere inteso anche come una curva bidimensionale).
Il meccanismo concettuale e fisico-geometrico implicato è dunque un processo che potremmo tranquillamente (?) definire come proiettivo-anamorfotico, giacché è proprio con l’anamorfosi barocca che la tecnica proiettiva (prospettica) rinascimentale scopre le proprie potenzialità di “trasformatore dimensionale”. Si tratta di un contributo essenziale alla comprensione del significato del linguaggio pittorico dell’Occidente maturo. E nel Grande Vetro, che tra le altre cose è anche la piú agguerrita indagine su quel significato complessivo e sulle sue implicazioni epistemiche, troviamo altri luoghi in cui il motivo si applica. Per esempio i tre Pistoni di correnti d’aria, i tre “buchi” di forma pressoché quadrangolare che restituiscono trasparenza ad altrettante zone della Via Lattea (la grande “nube” di colore che occupa la parte piú alta del capolavoro in vetro). Che sono appunto tre, e che furono ottenuti con una procedura del tutto simile a quella del metro casuale, la quale, tuttavia, prevede un tragitto dalla 2° dimensione attraverso la 3° e con ritorno alla 2°. Una pezza quadrata di stoffa bianca, spiega Duchamp, viene appesa con sottili fili nel vano della finestra dello studio, ed è liberamente lasciata sventolare mentre l’artista la fotografa in tre istanti diversi. Da ciascuna immagine fotografica della pezza è ricavata la forma di ciascuno dei tre pistoni, la quale forma, di volta in volta (è ovvio) si manifesta come quella di un quadrato a cui sia stata sottratta parte della sua estensione, vale a dire la parte di superficie che ha perduto muovendosi nella 3° dimensione (sventolando alla finestra) e che dunque coincide, effettivamente, con quanto ha acquistato in volume. Il ritaglio di superficie ottenuto è “casuale”, ma non è affatto casuale il rapporto tra esso e il volume acquisito (poi perduto), la cui incidenza ne fa una “figura di proiezione” esatta e, teoricamente, calcolabile[23].
Rileggiamo la formula duchampiana: L’apparenza di un oggetto a N dimensioni è la sua apparizione in un mondo a N-1 dimensioni. Il “pistone di corrente d’aria”, la figura sub-quadrata stampata sul Grande Vetro, è apparenza di un oggetto a 3 dimensioni (la pezza di tessuto mossa dal vento) ma è anche la sua realtà (apparizione) in un mondo a 2 dimensioni (quello del quadro). Ogni oggetto, appunto, è apparizione in un certo mondo (a N-1 dimensioni), ma è altresí apparenza se percepito da un mondo ulteriore (a N dimensioni). Cosí, ad esempio, il punto 0-dimensionale è apparizione (realtà) nel mondo 0-dimensionale ma anche apparenza se percepito nel mondo 1-dimensionale come proiezione di una retta, la quale sarà in se stessa apparizione nel “suo” mondo ma, a proprio turno, apparenza se considerata proiezione di un quadrato dal mondo a 2 dimensioni, e cosí via. Ne consegue che qualsiasi entità fisica è “reale” nella dimensione che le è propria, ma diverrebbe “apparente” (rivelandosi illusione?) se solo ci si potesse spostare nel mondo successivo — come aveva ben intuito, del resto, il reverendo Abbott in quello che si deve considerare il piú geniale romanzo fanta-geometrico dell’Ottocento[24].

Qualsiasi forma è la prospettiva di un’altra forma secondo un certo punto di fuga e una certa distanza (Boîte Verte, 1934, Duchamp 1975, trad.it.: 56).

Ciò relativizza ogni effetto percettivo (sia linguistico che pragmatico) e lo riconduce al suo significato di “proiezione” di una matrice che è situata in una dimensione superiore. Si tratta di una conseguenza del precetto per cui occorre secondo Duchamp, in linea generale: Primo, modificare il punto di vista dell’osservatore rispetto a ciò che questi osserva. Secondo, Sostituire un’assiomatica del possibile all’assiomatica del reale.
Si rilegga ora la già citata spiegazione offerta da Giorgio Franck, e si comprenderà che il presunto neoplatonismo duchampiano è qualcosa di assai piú complesso (e di piú in linea con le nuove idee della fisica di inizio secolo) di quanto non sia stato per lo piú ritenuto. Esso non istituisce affatto un rapporto di ombra-realtà (e tanto meno un rapporto di ombra-idea) tra la 3° dimensione e la 4°, ma piuttosto afferma la totale relatività dei fenomeni reali, che sono tali solo se percepiti dal mondo (dimensione) a cui appartengono, e sono pronti a proiettare “apparenze” su mondi inferiori cosí come a rivelarsi “apparenze” se fruiti da mondi superiori. La proiezione prospetto-anamorfotica è il meccanismo che garantisce la relatività e la sostanziale inconoscibilità dell’universo, ed è anche — cosa assai significativa — il principio che sta alla base del linguaggio pittorico occidentale.
Se da un lato esso regola il principio della trasformazione dimensionale, unendo come in un flusso metamorfico mondi separati, dall’altro sancisce la separatezza medesima dei mondi, rendendoci certi, ad esempio, dell’esistenza di un “mondo del quadro” (bidimensionale) ontologicamente altro rispetto al nostro mondo, dato che in esso le forme che noi leggiamo come proiezioni (apparenze) sono realtà (apparizioni) altrettanto reali di quanto lo siano nel nostro mondo gli oggetti tridimensionali. Il dipinto stesso appartiene al nostro universo solo in quanto oggetto fisico (supporto e colore) ma, nella misura in cui lo concepiamo come realmente bidimensionale — e cosí dobbiamo fare per intenderlo come evento pittorico, ossia come luogo linguistico — pertiene a una dimensione diversa, dotata di vita e di leggi proprie, che richiede uno sguardo diverso (un tentativo di penetrare in un mondo “inferiore”). E ciò, occorre aggiungere, vale tanto per il dipinto prospettico quanto per qualsiasi altro dipinto, ovvero anche per il dipinto non concepito (a priori) come una proiezione sulla superficie dello spazio tridimensionale[25].



5.

La prima delle “macchine celibi” di Duchamp è il Grande Vetro nella sua globalità. L’epica della trasformazione dimensionale che ne domina la logica e ne costituisce il piú profondo significato, è il risultato del lavoro di tale macchina. Linguaggio e desiderio, pittura e proiezione nell’altrove degli universi separati (la 2° dimensione del segno-quadro, la 4° dimensione ipotetica del suo contenuto) sono gli elementi che caratterizzano il congegno prospetto-anamorfotico duchampiano, che non svolge affatto una funzione fisica bensí è dedito a una attività puramente concettuale, come accade d’altronde in tutte le machines célibataires descritte da Carrouges nel suo storico saggio (Carrouges 1951), in tutte le “macchine desideranti” di cui tentano di tracciare il sinistro e ludico profilo Deleuze e Guattari ne L’anti‑Edipo (1972), che sono invenzioni prive di razionalità e di scopo pratico, superflue e pletoriche manifestazioni dell’involuzione finale del sapere tecnologico, dove già la crisi del moderno e dei suoi facili entusiasmi inizia a prendere corpo attraverso ironiche parodie e riletture grottesche della cosí detta “scienza positiva”. Ma la macchina celibe— ed è ciò che conta — è sempre legata al linguaggio. In un racconto di Franz Kafka (1919) un mostruoso ordigno viene utilizzato per eseguire sentenze capitali: la macchina scrive sul corpo del suppliziato la legge che lo condanna, incidendone il testo nella carne viva con una serie di aghi. In tal modo il reo ottiene, nell’attimo estremo che precede la morte, una gioia sublime e inesprimibile, la consapevolezza “erotica” e “mistica” della propria colpa. Linguaggio, congegno pletorico, estasi, caduta, morte... Un solo nodo avvince queste istanze della crisi della classicità moderna, queste inedite condizioni che formano il background psico-antropologico dell’avanguardia novecentesca.
In Duchamp la macchina prende forza sopra tutto in quanto principio di rielaborazione della forma: alla sua logica nuova — disumana e disumanizzante — sembra assecondarsi il “modus operandi” dell’artista francese. Sebbene non solo di “forma” (ossia di motivi plastico-pittorici) si tratti, dato che la presenza della macchina nell’opera di Duchamp si dispone su almeno tre distinti livelli di intervento:
a) La macchina come suggestione formale (appunto), ossia come idea stilistica che reinterpreta — travisandola — la scomposizione geometrica dei volumi cara al cubismo ortodosso. Tale modalità, per la quale è il linguaggio plastico che incorpora princípi meccanici, sviluppandosi in base ad essi, è riscontrabile nelle due versioni del Nudo che scende le scale (1911 e 1912) e nelle varie tele che vi si ricollegano piú direttamente: Giovane triste in treno (1911-12), Il re e la regina circondati da nudi veloci (1912). Il suo modello — non dichiarato ma senza dubbio “sottinteso” — è il robot, l’automa mezzo uomo e mezzo macchina che aveva già affascinato altri inventori di apparecchi celibi, come Villiers de l’Isle-Adam (1866) o lo stesso Roussel.
b) La macchina come rappresentazione diretta, come “soggetto” dunque, per cui essa e il suo mondo sono tematicamente collocati al centro del “testo”. E’ quanto avviene con le opere preparatorie del Grande Vetro: la Macinatrice di cioccolato (1914), che riprende per certi versi il Macinino da caffè del 1911, oppure il mulino di Slitta contenente un mulino ad acqua (1913-15). Piú precisamente, l’evoluzione del Macinino da caffè in Macinatrice di cioccolato segna il passaggio da un generico interesse di tipo cubista per la macchina (forse ancóra “natura morta”, soggetto per una “pittura di genere”) alla mitopoiesi dell’apparecchio scapolo, dove addirittura Marcel abbandona forme progressiste di linguaggio e si affida all’improponibile rappresentazione prospettica che prevale nella parte inferiore del Vetro.
c) La macchina come presenza fisica, ossia come risvolto meccanico effettivo dell’opera. La Slitta contenente un mulino ad acqua, nella versione del 1913-15, può ruotare attorno al proprio perno, è come una finestra vitrea dotata di battente e di cardini. L’utilizzo stesso del vetro, che ritroviamo nei Nove stampi maschi (1913-15), in Per essere guardato dall’altra parte del vetro (1918), e naturalmente nella Mariée mise à nu par ses célibataires, même, oltre ad essere elemento chiave di una simbologia della rappresentazione che associa le lastre trasparenti duchampiane agli specchi di Brunelleschi, di Velázquez e di Van Eyck, allude al trapasso dell’arte in tecnologia pura, in gioco scientifico, in “fisica curiosa”... La presenza fisica della macchina è riscontrabile anche in certi ready-mades, come Ruota di bicicletta del 1913, nonché nelle “ottiche di precisione” degli anni venti: le Lastre rotanti di vetro (1920), i Rotorilievi - Anemic Cinema (1922-23), la Semisfera rotante (1924-25)[26].
Il mito della macchina, dunque. E’ proprio la conversione della tecnica positiva in elemento mitologico a produrre il mostruoso “effetto” che sprigiona dalla Mariée, la contromossa ironica con cui viene dato scacco alla fraudolenta ideologia del progresso. Diciamo che il rapporto — di denudamento e di tentato amplesso — tra la “sposa” e i “suoi scapoli” indica innanzi tutto il simbolico (e però mancato) congiungimento dell’uomo con la macchina: c’è il motivo di una frustrazione, di una delusione parziale ma cocente. Ad esso alludono l’onanismo dell’apparecchio celibe (il moto oscillatorio della slitta o “le litanie del carrello” come dice Duchamp) e lo “sboccio cinematico” della Sposa: che è sí orgasmo, ma ottenuto solo al culmine di un desiderio inappagato. Il contatto fisico tra le due parti, infatti, è incompleto: una drastica linea di demarcazione le separa, e questa linea è la stessa, invalicabile, che distingue il cielo dalla terra, il mondo umano dall’empireo: l’orizzonte.
Non che la Sposa sia solo cielo (e organismo vivente) e gli Scapoli siano solo terra (e macchina): la forza del Grande Vetro è anche nel saper contaminare dialetticamente le parti. Alcuni tratti della Sposa e del suo mondo sono meccanici, cosí come alcune zone dell’Apparecchio scapolo sono organiche e perciò “perfette”. Inoltre la comunicazione, e dunque l’adempimento futuro, sono indicati dal processo pulsionale che comunque agisce e mette in movimento l’opera.

La sostanza che la alimenta — spiega Octavio Paz — è una rugiada chiamata automobilina, le sue estasi sono elettriche e la forza fisica che muove i suoi ingranaggi è il desiderio (Paz 1966, trad.it.: 37).

La “rugiada” della Sposa, l’automobilina. In Roussel, l’abbiamo visto, vi sono sostanze analoghe, come la resurrettina di Locus Solus, che permette la rianimazione coatta della testa mozzata di Danton. Si tratta di una resurrezione falsa e inutile, una specie di spettacolo circense, una finzione ad uso estetico-didattico. E tale è pure il movimento dell’apparecchio scapolo, sterile e fasullo, che tuttavia provoca l’estasi orgasmica (épanouissement) della Sposa.
Il principio del “motore-desiderio”[27], che è il cuore della Macchina celibe, nega l’ideologia “positiva” del progresso tecnologico con lo stesso tratto con cui apre le porte all’infinita e indifferenziata contraddittorietà dell’universo pulsionale. Duchamp non parla mai di inconscio o di psicanalisi, ma, accogliendo la beffarda equazione psiche = macchina, e dunque stabilendo il doppio statuto (biologico e meccanico) di una sorta di patafisica radicale, impartisce un urto straordinario alla elaborazione del nesso arte-inconscio che, di lí a poco, sarà linfa vitale del surrealismo. E — lo dico per inciso — si pensi pure alla ricaduta impensabilmente concreta che quella stessa patafisica (“scienza delle soluzioni immaginarie e delle norme che regolano le eccezioni”, stando alla definizione di Alfred Jarry) conoscerà ai giorni nostri: la bio-genetica avanzata, la realtà virtuale, il corpo elettronico...
Riprendiamo la questione del titolo del Grande Vetro. Secondo Octavio Paz,

nel titolo sono già presenti tutti gli elementi dell’opera: quello mitico, quello popolare da baracca o tendone da fiera, quello erotico, quello pseudoscientifico e quello ironico (Paz 1966, trad.it.: 35).

Aggiungerei anche l’elemento rituale-religioso (filtrato, come sempre, dall’ironia). Quanto all’elemento “popolare da baracca o tendone da fiera”, mi sembra opportuno ribadirne nuovamente la crucialità: l’impianto “mitologico” della Mariée va ricondotto all’implicita e inconsapevole parodia della scienza che si realizza (con effetti di comicità estrema, proprio perché involontaria) nell’àmbito della sua acquisizione volgare tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX, allorché la “sbornia positivista” trova il suo piú naturale sbocco nell’apologia (divulgativa e nazional-popolare) del sapere tecnico inteso come momento di ricreazione e di divertimento, come facile stupore, come esaltata ricerca del meraviglioso (fanta)scientifico, in una cornice che è proprio quella — assai clownesca — delle fiere di paese: dai prodigi dell’immagine dinamica a quelli dell’ologramma iperrealista, dall’ascensione in mongolfiera al gioco di prestigio e all’ingabolo ciarlatano del “vénghino, vénghino lor signori!”. Insomma, la stessa aria di cultura “bassa”, e però fascinosa, che si respira (ancóra una volta) nei racconti di Roussel. La saga della “macchina celibe” va letta proprio in tale direzione: come contrappasso dell’utopia positivista che (attraverso una declinazione esagerata e grottesca) si rovescia in nuova e sfiduciata derisione.



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Lyotard Jean-François (1977), I TRANSformatori DUchamp, trad.it. E.Grazioli, Hestia, Cernusco Lombardo 1992.
Man Ray (1963), Autoritratto, trad.it. M.Pizzorno, Mazzotta, Milano 1975.
Paz Octavio (1966), Apparenza nuda. L’opera di Marcel Duchamp, trad.it. E.Carpi Schirone, Studio Editoriale, Milano 1990.
Piero della Francesca (1470 ca.), De prospectiva pingendi, ed. moderna a cura G.Nicco Fasola, Sansoni, Firenze 1942.
Plinio il Vecchio (1982), Storia naturale, ed. moderna a cura G.B.Conte, 6 voll., trad.it. A.Barchiesi, R.Centi, A.Marcone, G.Ranucci, Einaudi, Torino 1982.
Roscioni Gian Carlo (1985), L’arbitrio letterario, Einaudi, Torino 1985.
Roussel Raymond (1910), Impressions d’Afrique, Pauvert, Paris 1963.
Roussel Raymond (1914), Locus Solus, trad.it. P.Dècina Lombardi, Einaudi, Torino 1975.
Roussel Raymond (1933), Come ho scritto alcuni miei libri (Comment j’ai écrit certains de mes livres), in Locus Solus, trad.it. P.Dècina Lombardi, Einaudi, Torino 1975.
Schwarz Arturo (1974), La sposa messa a nudo in Marcel Duchamp, anche, Einaudi, Torino 1974.
Villiers de l’Isle-Adam Auguste (1866), L’Eve future, Cortí, Paris 1977.




[1] Cfr. Roussel 1910. Il romanzo fu pubblicato a puntate sul “Galois du Dimanche” nel corso del 1909, quindi in volume nel 1910. Il 30 settembre 1911 venne rappresentata al Théâtre Fémina la trascrizione per la scena preparata dallo stesso Roussel, che decise di replicarla l’anno successivo al Théâtre Antoine.
[2] E’ nota la sofferenza (in piú luoghi testimoniata) che causava a Roussel la coscienza d’essere pres­soché sprovvisto di fantasia inventiva, e dunque costitutivamente agli antipodi del proprio “modello” Jules Verne.
[3] Cfr. Roussel 1933. Il testo in questione fu pubblicato solo dopo la morte dell’autore per sua esplicita volontà, e ha suscitato — sopra tutto in tempi recenti — un vero e proprio dibattito intorno al problema della sua attendibilità. Visto che la rivelazione del procédé getta una luce davvero equivoca sull’intera opera di Roussel, in qualche modo denunciandone un carattere di fondo “artificioso” se non addirittura “misti­ficatorio”, è parsa ad alcuni plausibile un’ipotesi per cosí dire “estrema”: e cioè che la tardiva rivela­zione dell’artificio non fosse, essa stessa, nient’altro che una sorta di mistificazione ulteriore. E’ que­sta l’ipotesi adombrata nell’analisi di Foucault 1963 (trad.it.: 15) dove lo studioso sembra tuttavia spaventarsi delle possibili conseguenze, se immediatamente dopo prosegue dicendo che la retroattività del procédé “non contesta l’esistenza” del medesimo. Altre considerazioni che potrebbero condurre in questa direzione si trovano in Butor 1964: 199. Ma il piú forte “atto d’accusa” nei confronti della rivelazione postuma è quello che sta al centro dello studio di Roscioni (1985), dove il critico tenta di persuaderci che Roussel abbia deliberatamente imbrogliato le carte solo al momento del suo (falso) chiarimento conclusivo.
[4] Roussel 1933 (trad.it.: 265): “Mi sono sempre proposto di spiegare in che modo avevo scritto alcuni dei miei libri [...]. Si tratta di un procedimento molto particolare. E, questo procedimento, mi sembra che sia mio dovere rivelarlo, perché ho l’impressione che qualche scrittore in futuro potrebbe forse sfruttarlo con successo”. Poi: “E mi rifugio, in mancanza di me­glio, nella speranza che ci sarà forse una postuma fioritura di interesse nei confronti dei miei libri” (ibidem: 285).
[5] Come nota Aristotele, nella meccanica il piú piccolo domina il piú grande. Qui, si potrebbe chiosare, è il linguaggio a dominare i “contenuti” di cui dovrebbe essere solo strumento.
[6] Su tale aspetto di inevitabile presenza delle facoltà ideative dell’autore, del produttore di scrittura che comunque interviene con la propria “intelligenza” logica, ha avuto gioco fin troppo facile il desiderio di sminuire la portata del procédé da parte di diversi lettori, tra i quali (come ho ricordato) Roscioni 1985. Ma credo sia davvero semplicistico pensare e sostenere che solo una totale autonomia del linguaggio (ovviamente irrealizzabile) giustifichi la pretesa di una centralità del medesimo — ossia dei meccanismi intimi che lo istituiscono e ne regolano il funzionamento — nella produzione di senso all’interno di un testo.
[7] Cosí è nota, per l’appunto, la stima che egli riscosse presso i surrealisti, ancorché niente affatto ri­cambiata e semmai temuta come un pericolo da scongiurare: non foss’altro che per il timore di dissi­pare l’agognata prospettiva del grande successo popolare. Poiché, pur agendo in modo del tutto adat­to a rendere utopistico tale desiderio, Roussel aveva compreso che quanto in lui poteva piacere a Bre­ton e ai suoi seguaci era esattamente ciò che gliene avrebbe precluso la realizzazione.
[8] Si noti bene: un mosaico! Una rappresentazione cromatico-figurativa (l’immagine di un cavaliere medioevale) che qualsiasi artigiano avrebbe potuto ugualmente eseguire su di una superficie serven­dosi di tessere colorate di qualsiasi (altra) natura, e che qui viene invece realizzata da un pallone aero­statico — a cui è sospesa una terminazione di leve, bielle, vassoi, specchi, artigli meccanici — che si solleva, afferra un dente da un mucchio (appositamente predisposto, e nel quale sono denti bianchi, giallastri, sanguinolenti, bruni di nicotina, neri per la carie, ecc. ecc.) e lo trasporta lasciandolo cadere al “suo” posto per dar vita all’immagine... Cfr. Roussel 1914, trad.it.: 23-38.
[9] Il processo linguistico di “ideazione” di questa sorta di mito meccanico è spiegato con molta cura in Roussel 1933, trad.it.: 276-277.
[10] E’ datato 1912 il dipinto — intitolato La mariée — che presenta su tela l’apparato di elementi ico­nografici che anche nel capolavoro successivo in vetro coincideranno con la zona della “sposa”.
[11] E’ autoevidente, oltre che “dichiarata”, l’importanza della mole di osservazioni e descrizioni, di ap­punti sul funzionamento, di diagrammi e schemi, di estemporanee illuminazioni e precisazioni critiche che accompagnano il “viaggio” di Duchamp attraverso il Grande Vetro come un diario di bordo redat­to dall’autore, un malloppo (inizialmente) caotico di materiali per lo piú verbali e comunque cartacei che egli stesso ha accuratamente ordinato in quella sorta di “alter ego” dell’opera che diverrà la Boîte Verte. Meno scontato è sostenere, come a me sembra opportuno, che tale diario debba essere ritenuto quale momento indispensabile del lavoro, una sua parte integrante e imprescindibile, ovvero che si debba intendere il lavoro stesso come un testo “verbo-visuale”, composto di elementi grafico-pittorici (leggibili in chiave di linguaggio iconico) ed elementi scritturali (che si affidano ai codici del linguag­gio verbale) perfettamente integrati tra loro e del tutto complementari. Una traduzione abbastanza attendibile della maggior parte dei materiali della Scatola Verde è pubblicata in Duchamp 1975.
[12] Su questa chiave — già indicata nel primo grande saggio sul capolavoro duchampiano, e cioè in Breton 1934 — è costruita la fortunata lettura di Schwarz 1974, caparbiamente tesa a ricondurre al tema alchimistico tutta l’opera del nostro, anche a rischio di finire per penalizzarla precludendola a ulteriori (e meno uni­laterali) interpretazioni.
[13] La “prospettiva euclidea” classica, in quanto metodo eminentemente astrattivo, è uno di tali stru­menti, e il Grande Vetro si rivela (per l’uso stesso che ne fa) una dimostrazione della sottile dialettica tra natura e artificio che essa promuove.
[14] Non a caso banditore di un concorso per ricercatori dilettanti del “moto perpetuo”. Cfr. Céline 1936.
[15] Cfr. Roussel 1933, trad.it.: 268, dove è puntualmente spiegata la “morfo­genesi” linguistica di quella figura: “Baleine (mammifero marino) à îlot (da isoletta) = baleine (stecca di balena) à ilote [per ilota] (schiavo spartano). [...] Mou [molle] (individuo fiacco) à raille [da burla] (qui pensai a un collegiale pigro che i compagni deridono per la sua incapacità) = mou [polmone di vitello] à rails (per rotaie di ferrovia). Questi accoppiamenti di parole mi hanno dato la statua dell’ilo­ta, fatta di stecche di balena, che scorre su rotaie di polmone di vitello”.
[16] “Nel 1913 ebbi la felice idea di fissare una ruota di bicicletta su di uno sgabello da cucina e di guar­darla girare” (A proposito dei “ready-mades”, 1961, Duchamp 1975, trad.it.: 165). Si noti la crucialità — in questo resoconto lapidario della nascita del ready-made — dell’espressione “guardarla girare”: è ciò che non si fa mai, con una ruota di bicicletta — a meno che essa non venga innalzata su un “basamento” e considerata una specie di scultura mobile. Del resto, Duchamp si dedi­cherà piú tardi, tra il 1920 e il 1925, ad esperimenti di costruzione di “macchine ottiche”, per altro assai celebri e altrettanto “celibi”, che paiono le ovvie discendenti della Ruota di bicicletta: la Semi­sfera rotante, i Rotorilievi, ecc. Su questa fase della ricerca di Duchamp la testimonianza piú signi­ficativa rimane quella del suo amico e collaboratore Man Ray (cfr. Man Ray 1963).
[17] Il primo a impiegare sia il termine (“piano di intersegazione”) sia il concetto fu notoriamente l’Al­berti, nel suo fondativo trattato di pittura, là dove esso viene fatto coincidere con una “finestra aperta” che interrompe la superficie di un muro per lasciar vedere le cose che stanno oltre il medesimo: “Prin­cipio, dove io debbo dipingere scrivo uno quadrangolo di retti angoli quanto grande io voglio, el qua­le reputo essere una finestra aperta per donde io miri quello che quivi sarà dipinto” (Al­berti 1435, ed. moderna: 36).
[18] Il termine quinta prospettica, da cui deriva quinta teatrale e di cui anche i migliori dizionari etimolo­gici non sanno dare una spiegazione convincente, sembra riferirsi precisamente alla definizione di prospettiva formulata da Piero della Francesca. Il genere femminile attribuito al numerale — che di­viene poi sostantivo — evidenzia tale derivazione: “quinta parte della prospettiva”, ovvero, come abbiamo visto, il piano che sta tra l’osservatore e la cosa osservata. Il successo e la diffusione del trattato di Piero, i cui concetti vennero ripresi in una miriade di libri di analogo argomento tra i secoli XV e XVII, deve aver consentito il codificarsi di un’espressione abbreviata che finirà con l’apparire piú tardi di origine misteriosa.
[19] E’ il motivo originario del velo, che la cultura greca aveva elaborato con l’apologo di Zeusi e Par­rasio, con la mitica “gara tra pittori” la cui descrizione piú importante è nel referto latino della Natu­ralis Historia (XXXV, 65). Cfr. Plinio il Vecchio 1982, trad.it.: vol. V, 361-363.
[20] Per comprendere la portata della teoria dell’anamorfosi anche in sede di epistemologica, e dunque in rapporto alla “nuova scienza” seicentesca, rimane a tutt’oggi irrinunciabile Baltru­saitis 1955.
[21] Come è noto, è l’utilizzo di tale concetto a consentire la realizzazione dei Vasi capillari del Grande Vetro. Si veda anche oltre, nel presente saggio.
[22] In Clair 1975 è decisamente soverchia l’importanza attribuita all’influsso di Gaston de Pawlowsky, gallerista e scrittore di fantascienza nella Parigi di ini­zio secolo. Il suo Voyage au Pays de la quatrième dimension colpí senza dubbio Duchamp, come egli stesso ci ricorda nell’intervista a Cabanne, ma le premesse “scientifiche” di tale romanzo sono troppo banali per non apparire limitate e limitanti a chi già conosceva bene le speculazioni post-cartesiane del XVII secolo.
[23] Non c’è dubbio, poi, che gli Stampi maschi comportino un processo nel quale il gioco proiettivo sembra coinvolgere il rapporto tra la terza e l’ipotetica quarta dimensione (passaggio da 3-D a 4-D, o viceversa, con ricaduta sulla 2-D del vetro)... Ma, se questo è il gioco, è comprensibile il fatto che non ci sia possibile comprenderlo: c’è di mezzo, appunto, il “livello 4”, irrazionale per definizione.
[24] Abbott 1882. Duchamp probabilmente non conosceva in modo diretto questo libro, ma aveva senza dubbio potuto comprenderne il significato attraverso gli echi che di esso si riflettono nel già citato ro­manzo di Gaston de Pawlowski.
[25] Il che poi vuol dire che Duchamp contribuisce, a suo modo, a rafforzare la piú avvertita consape­volezza teorico-pratica delle avanguardie pittoriche del XX secolo, da Matisse a Malevich e oltre.
[26] Queste prove o esperimenti o giochi, realizzati con l’aiuto di Man Ray, non fanno che riprendere e ampliare — come già detto — i tentativi di carattere scientifico o pseudoscientifico messi in campo nel periodo 1913-15. Cfr. sopra, nota 16.
[27] “Questa potenza timida, distribuita al motore a cilindri deboli, a contatto con le scintille della sua vita costante (magnete-desiderio) esplode e fa sbocciare questa vergine arrivata al compimento del suo desiderio” (Boîte Verte, 1934, Duchamp 1975, trad.it.: 53).

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