mercoledì 10 dicembre 2014

TODO MODO

TODO MODO PARA BUSCAR EL CASTIGO DIVINO
sandro sproccati

Su «Todo Modo» di Elio Petri, film visionario e realistico in un sol tempo, finalmente riabilitato dopo una condanna durata quasi quarant’anni, restaurato e ripresentato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia (edizione 2014).

Narra Elio Petri che le prime giornate di lavorazione di Todo Modo furono quasi imme­diatamente gettate nella spazzatura, poiché la “trasformazione” di Gian Maria Volonté nell’onorevole Aldo Moro era talmente persuasiva da renderne improponibile l’effetto. Si trattava dell’uomo piú potente d’Italia, presidente del partito di maggioranza relativa, e di certo il film non poteva permetter­si di citarlo se non facendo leva su di un minimo di “distanza”, cosí che l’avvertenza finale potesse classicamente sostenere che “personaggi e vicende sono puro frutto di fantasia” senza suscitare risate da ogni parte. Di fatto, il film subí comunque, fin dalla sua prima apparizione, una pesantissima censura, ma non a mezzo degli organi preposti all’ufficio, i quali – all’epoca (1976) – non avrebbero potuto avvalersi di argomenti validi (nessuna offesa al pudore e nessuna diffamazione in senso stretto), bensí per le vie traverse, adeguatamente “democristiane”, della messa in campo di infiniti ostacoli alla diffusione nelle sale. Il problema è che Volonté, in quel film, è proprio Aldo Moro, nonostante la correzione in chiave moderata imposta da Petri, ed è perfino piú Aldo Moro di quanto non fosse Aldo Moro lo stesso Aldo Moro.
“Quando girammo Todo Modo, Volonté divenne evanescente, camminava come se fosse sulle nuvole, parlava bassa voce, non ti guardava negli occhi, tutto preso com’era dal personaggio che interpretava.“
Tempo due anni e quello che – nella vita reale – era stato il gran sacer­dote di tutte le squallidissime cerimonie gattopardesche della cosí detta prima repubblica, il reazio­nario e scaltrissimo propiziatore del primo grande sfacelo della sinistra italiana (il compromesso storico), colui che quasi da ciascuno veniva piú o meno esplicitamente detestato per il suo incarnare la sintesi piú perfetta dell’ambiguità demo-cristo-pretaiola, tempo due anni e costui sarebbe stato inopinatamente trasformato nel piú ingombrante “cadavere eccellente” dell’antistoria post-bellica italiana, nel simbolo delle vittime della violenza, quasi nel piú grande eroe (caduto) di una patria che ha sempre avuto un immenso ed increscioso bisogno di eroi. Non c’è dunque da stupirsi piú di tanto: l’agguato di Via Fani e il ritrovamento di Via Caetani hanno sepolto, insieme a quella dell’ono­revole Moro, anche la vita del film di Petri.
Dimenticato per decenni, Todo Modo è certamente un capolavoro assoluto della storia del cinema, uno dei film piú forti e radicali, oltre che linguisticamente piú interessanti, che siano mai stati realizzati in Italia. Mescola nelle sue trame (che sono anche e prima di tutto trame visive: ambiente, atmosfera, sfondi, gesti, inquadra­ture, invenzioni di ripresa e di montaggio) l’allucinazione con la certezza, la descrizione oggettiva di una classe di potere giunta all’apice del proprio pervertimento con la grottesca elaborazione, in chiave altamente artistica, di un gustoso e raffinatissimo delirio personale.
Ecco, va detto con forza: Petri ha raggiunto con questo film il vertice qualitativo della propria opera, in quanto è riuscito in un’impresa che aveva già tentato con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e con La classe operaia va in Paradiso (1971), un’impresa assai difficile ma in qualche modo per lui imprescindibile: portare il “neo-realismo” di matrice socio-storico-politica (di derivazione rosselliniana) fuori dalle secche del semplice – e inevitabilmente banale – “cinema impegnato” degli anni Settanta. Per farlo, e dunque per porsi all’altezza dei grandi maestri della propria generazione, ben oltre la prima ondata neorealistica e tre decenni dopo caduta del fascismo, e insomma per potersi ribadire a pieno titolo collega di Antonioni, di Pasolini e di Fellini senza tuttavia rinunciare a tematizzare in modo esplicito la questione politica, c’era un solo (todo) modo, che Petri ha saputo percorrere meglio di ogni altro suo coetaneo: spingere forte sul tasto allegorico, insinuare il “fantastico” dentro i reperti documentali, trasfigurare in chiave di immaginazione “onirica” la cruda realtà della Storia, dichiarando con ciò che si può attingere in qualche misura alla “verità” di quella solo se l’atto della sua rappresentazione riesce a farsi audace ipotesi soggettiva e critica del linguaggio razionale.
La metamorfosi metodicamente perseguita del reale (nella fattispecie, in Todo Modo, delle figure e dei comportamenti dei maggiori esponenti della Democrazia Cristiana, riuniti a pregare da un specie di prete pazzo che li smaschera e li conferma, che li protegge e li condanna), la sua trasfigurazione in chiave di paradosso e di miraggio, lo svelamento continuo di un “delirio fattivo” che è forse il Potere stesso nella propria essenza, delirio descritto dal delirio, follia che si esplica in altra follia (la follia stessa dell’opera d’arte), è l’autentico cuore pulsante di un film in cui tutto è stato condotto alle estreme conseguenze, in cui tutto è effettivo estremismo, dichiarato e buttato in faccia allo spettatore, in cui la funzione critica dell’agire estetico si nutre, quindi, di un “dire” che è allusione sempre ribadita all’altro da ciò che è detto (o anche dicibile): allegoria, appunto. Ma allegoria nel significato piú profondo del termine: costruzione inventiva di istanze ipotetiche per tentare di agguantare l’inafferrabile realtà del reale.
“Todo modo para buscar la voluntad divina”. Il motto di Sant’Ignazio da Loyola, fondatore dei Gesuiti, nel cui nome Don Gaetano (Marcello Mastroianni) impone ai capicorrente democristiani gli esercizi spirituali che dovrebbero servire ad affinare la qualità della loro azione politica (ovviamente facendo gli interessi della chiesa cattolica), assurge nel film – che solo in parte si ispira all’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia – al ruolo di una specie di “sciarada” misteriosa su cui è innescata una serie di omicidi. Tale trama sinistra e necrofora serve a Petri per potenziare progressivamente la vena di follia che circola nel film, il quale si astrattizza e si rende man mano piú paradossale: la stessa recitazione di Volonté sviluppa un percorso verso un crescente incremento dell’artificiosità, ma l’esito si fa non di meno (anzi: proprio per questo) via via piú persuasivo. Quando il personaggio da lui interpretato espone alla moglie Giacinta (Mariangela Melato) la teoria dei “binari che procedono all’infinito”, come segno della sua immensa superiorità su tutti gli altri esponenti del partito, il delirio che esplode a livello allegorico piomba fragorosamente sul piano della storia (sciagurata) del nostro Paese, perché l’assurdità rivela il proprio essere verità sperimentata: le “convergenze parallele” tennero davvero banco in Parlamento e nel dibattito pubblico per molti anni! E quando Don Gaetano, marciando come un ossesso alla guida del plotone dei fedeli, scandisce in modo sempre piú rabbioso le litanie della Vergine, è come se tutta l’irrazionalità di una religione che pone il castigo e la morte nel proprio motore ideologico mostrasse ciò che essa è nei fatti ed è stata per secoli: un violentissimo impazzimento collettivo, che ha seminato intorno a sé infinite lacrime, stridor di denti, paure e sudditanze, prevaricazioni e torture, cadaveri e mummie di cadaveri.

Turpe è nel finale la morte di Aldo Moro, giustiziato con un colpo alla nuca. “Perinde ac cadaver”, diceva Sant’Ignazio: sarai ubbidiente “come un cadavere”. E anche qui, quasi a chiudere il cerchio dell’angoscia nazionale, l’allegoria si conferma profezia, quindi realtà futura. Con due anni di anticipo Elio Petri ha descritto, perfino nei dettagli, quella tragedia in cui un intero popolo pervicacemente incapace di darsi un minimo di dignità sarebbe inevitabilmente sprofondato. E si tratta di una catastrofe nella quale, a ben guardare, sprofondiamo tuttora.

[pubblicato in «Novae» n. 1, novembre 2014]

giovedì 6 marzo 2014

UNA TRILOGIA DEL DELIRIO

UNA TRILOGIA DEL DELIRIO
Viridiana, Simon del deserto, La via lattea



«Non capisco l’indignazione. I mendicanti stanno cenando e per caso si dispongono come nel quadro di Leonardo». Ecco il momento clou di Viridiana (1961), quando, durante la cena (orgia) dei pezzenti, una di costoro decide di eseguire una foto ricordo e, non disponendo di fotocamera, ne allucina – con atto gaiamente sconcio – una sorta di vicario organico nel proprio sesso, per un attimo messo in piena luce dal rapido sollevamento della gonna. Cosí, invece che lo sguardo in macchina, richiesto come necessario dalla prassi canonica del ritratto di gruppo, quel gesto viene ad implicare un rovesciamento abissale della dinamica dell’imma­gine, in altri termini un inopinato sguardo-in-fica: allegorica mise-en-abîme della logica prospettica, dove l’occhio che vede si fa buco nero e imbuto di sprofondamento, capace di stravolgere la “folgorante” e i “folgorati”, ma anche – e non di meno – gli spettatori del film. Un fermo-immagine trasforma (di fatto) in fotografia filmica (incastonata nella pellicola) il “clic” allucinatorio, mentre l’obiettivo da cui muove lo sguardo che blocca il tempo (sguardo della fotografia, ma anche del cinematografo) viene a ribaltarsi in oggetto e tema della visione. Visione obbligata e al tempo stesso vietata, in cui tutto appunto si ferma: la storia narrata, la funzione dell’immagine narrativa e il senso delle immagini occidentali, che pretendono di estrarre la vita dal flusso del tempo. I mendicanti infatti sono sospesi in un tableau vivant, rimangono per un secondo “congelati” sotto l’occhio-sesso che li guarda e che li desidera guardanti, e altresí sotto l’occhio dello spettatore sottoposto alla medesima implosione ottico-sessuale, a sua volta “sbarrato” in un voyerismo estetico estremo... Ed è esattamente a quel punto, in quell’istan­te di sospensione e di sortilegio voyeristico, che – con un cortocircuito che (infatti) annulla il tempo – il Cenacolo Vinciano viene a reclamare i propri diritti, ossia una appropriazione totale dello spazio simbolico dell’e­vento (la cena, l’orgia). Per caso, infatti – sostiene il fazioso Buñuel – «i mendicanti si dispongono come nel quadro di Leonardo».
Già... per caso! Sicché, allo stesso titolo di casualità (e che casualità!) la cena in casa di Viridiana diviene esattamente la “Ultima Cena”, e l’orgia si sacralizza in cerimonia religiosa, in sacrum-faciere: laddove il pane e il vino son chiamati ad assumere il valore (sostanziale) del corpo e del sangue del Cristo, dell’auto-sacrifi­cante per eccellenza. Lo schianto è feroce! L’allucinazione trasloca lesta dalla vulva della donna alla mente dello spettatore, che non può che elaborare, di rimando, il proprio infarto visionario: fermi tutti, quegli sono gli apostoli, quello è Cristo! Scandalo supremo, ma privo di scandalo in fondo. Forse che non erano mendicanti anche i seguaci del dio incarnato? Forse che non erano questuanti di anime o accattoni d’amore? Il contrappasso, violento, si rende palese: Viridiana, la seguace di dio che tiene nella valigia il flagello e la corona di spine, determina con la propria fede un continuo (necessario) contrappasso paradossale delle ambizioni di santità che la vivificano. Lo zio Don Jaime sviluppa, a contatto con quelle pretese, una specie di incresciosa e travolgente eccitazione erotica, come un imbarazzante inturgidimento psichico che fa leva sulla fantasmatica resurrezione della moglie morta (zia di Viridiana) e però altresí (e con ogni probabilità) sul ricordo associativo di barocchi deliquii analoghi, come quelli di Santa Teresa d’Avila e della Beata Ludovica Albertoni, assecondando in sé una smania di coito divino-umano che lo porta dapprima allo stupro (quando gode notte tempo del corpo della devota dopo averla narcotizzata), poi a suicidarsi impiccandosi (nuova solenne erezione) con la corda da gioco di una bambina. E non a caso: di una bambina.
Cosí il senso di un sacrificio incessante imperversa proprio là dove aleggia lo spirito (santo) di Viridiana, carnefice autentica, immolatrice di anime, suscitatrice di elevazioni ambigue e redentrice di ogni peccato. Ma forse, piú diabolico ancora di quello di Viridiana, vola alto nel film lo spirito di Georges Bataille, che Buñuel a parole, ossia nelle interviste, non cita mai, ma che profusamente evoca nei fatti.
I mendicanti sono i destinatari indegni di una pietas che è fonte solo di sciagure, sono gli apostoli che non comprendono la Maestra e la tradiscono, ma sono anche i giusti vendicatori della sua arroganza, della sua hybris celestiale. Piú ancora che in Nazarin (Buñuel 1958) e quasi come in Justine di Sade, la religione e la bontà (che le compete) si dimostrano avocatrici di perdizione e morte, dove il male (ma in Buñuel il male è solo apparentemente il male) trionfa con il ghigno di un’ironica ineluttabilità. I pezzenti accolti con amore – ma anche con sussiego, occorre ammettere – le demoliscono la casa, e poi distruggono anche lei, stuprata per la seconda volta nell’arco di un solo film e quindi ricondotta a piú miti consigli, poiché in sostanza la trasformano nell’amante fiduciosa del cugino, un laico viveur tranquillo a cui approdare – con riconoscenza e disponibilità – come al porto pacifico di una vita banale ritrovata, senza cristi pantocratori e altre concitazioni deleterie.
La tesi di Buñuel, magnificamente sviluppata nella trilogia religiosa che va dal 1961 al 1969, è che il sentimento del divino implica il delirio nella realtà. E, poiché tale sentimento è sempre presente là dove vive l’uomo, il delirio è la vera marca distintiva del reale come dimensione umana. La follia non è affatto confinata agli ospedali psichiatrici, e tanto meno può essere il prodotto di chi la celebra in modo intenzionale per farne materia d’arte: il surrealismo non è una scelta, non è una poetica, non è un modo di espressione; il surrealismo – quanto meno in Buñuel – propone l’immagine autentica della vita, la quale è per definizione “surreale” ovunque vi sia una mente umana che la pensa e che la vive, vale a dire se vi è un “sur” (un sopra) che viene addotto a sua motivazione. Cosí l’ateo (Buñuel) sa che dio è ovunque, giacché la sua presenza immaginaria sovradetermi­na ogni gesto e ogni conoscenza dell’uomo. Il folle è colui che legge la realtà nella chiave di un “principio” (superiore per definizione) capace di spiegarla e di renderla significante, è colui che la vede e la vuole ricca di significato. Pertanto la follia dilaga nel mondo.

Simone lo stilita (Simon del deserto, 1965) è quintessenza fatta individuo del pazzo religioso tipico. Spiega Cristo – in un apologo senza dubbio capace di entusiasmare le alte gerarchie del Vaticano – che «a chi già ha, sarà dato di più, e costui vivrà nell’ab­bondanza; a chi non ha, sarà tolto anche quel poco che ha» (Matteo, XIII, 12). Padre Simone, come molti altri che nella stessa epoca (primo medioevo) la pensano come lui, applica alla lettera il precetto. Si spoglia di ogni cosa e sale in cima a una colonna, da dove può dialogare con dio assai piú da vicino e dove può sacrificare a lui ogni alito vitale del suo corpo. La sua follia è nella giustezza del suo pensiero e della sua determinazione. In piedi sulla colonna, per mesi e per anni (il tempo in tali frangenti non conta e dunque non è possibile sapere per quanto) si slancia verso la gran volta celeste, nutrendosi di scarse foglie di insalata (non condita) e bevendo solo acqua. Ad un certo punto del film, Simone comprende di non aver sacrificato abbastanza, e delibera di far poggiare su una sola gamba la propria elevazione. Prega dio... ma ovviamente riceve molteplici visite del demonio, il quale – in canonica forma di femmina procace – gli esibisce appetitose mammelle bionde e una carnalissima prospettiva di felicità, ricevendone tuttavia in risposta sempre e solo il classico «Vade retro, Satana!».
La follia è contagiosa, e infatti ai piedi della colonna accadono eventi strani. Un uomo mutilato viene “miracolato” da Simone, e la prima cosa che fa, con le mani nuove di zecca, consiste nel tirare un ceffone a sua figlia. Non si meraviglia affatto del prodigio («è un santo miracoloso, deve aver pensato, è naturale che mi abbia fatto il miracolo», commenta Buñuel) e nessuno dà molta importanza alla faccenda («Del resto è come succede oggi con i miracoli di Lourdes, a cui nessuno fa caso, e che sono considerati ormai di routine», idem). Nemmeno la disputa teologica che si svolge tra i confratelli dello stilita, e il fatto che uno di essi venga preso tutt’a un tratto da convulsioni e si metta a bestemmiare, suscita l’imbarazzo che all’allucina­zio­ne spetterebbe. «Muoia la Sacra Ipostasi», grida l’indemoniato, e gli altri monaci gli oppongono il loro «viva!». «Muoia l’Anastasi!», insiste quello, e gli altri: «Viva!». Finché la demenza bizantina non prende il sopravvento: «Viva l’Apokatastasi!», urla, sbavando, il deviato, e gli altri – che cadono nella trappola: «Muoia... sì, muoia!». Un monaco chiede al vicino: «Ma che cos’è questa Apokatastasi?» e quello scuote la testa. Poiché il concetto è troppo complicato (ristabilimento dell’ordine divino originario dopo la fine di tutti i tempi) e il Male sembra prevalere, interviene Simone dall’alto della colonna, e con parole e gesti apotropaici scaccia (provvisoriamente) Belzebù dal corpo del disgraziato, in preda ora a un attacco epilettico. Il priore ordina quindi che lo psicopatico sia ricondotto al convento, dove – annuncia – finirà di esorcizzarlo a alla sua maniera (!).
Il demonio Silvia Pinal tenta un buffo travestimento da Gesù Cristo, una mise che ha uno strano sapore iconografico tra il biblico e il baracconesco. E dal basso arringa Simone stringendo tra le braccia un agnellino... Ma il santo, che del verbo di Satana via via intende il significato, finisce per smascherare la tentatrice; sicché costei (o costui), dopo aver cacciato l’agnello con una pedata, sbotta in una serie di bestemmie da osteria («Ma guarda un po’ che razza di stronzate mi tocca di sentire... faccia di cazzo! ... L’ostia di merda che sta nel ventre di quella figlia di puttana!», e poi: «Tornerò, pidocchioso, tornerò!»). E in effetti di lì a poco torna, questa volta all’interno di una cassa da morto trainata da funi ben visibili, per assumere, non appena la cassa si apre, le sembianze nude e autentiche di una gran femmina formosa. Dopo un attimo Silvia è sulla colonna insieme a Simone e gli annuncia una trasferta (in jet supersonico) al Sabbah del futuro... Ventesimo secolo: ateo e godereccio. La mitica sequenza finale vede i due in una discoteca di New York, dove il santo si è fatto esistenzialista, con tanto di pipa e barbetta corta, e la donna-demonio (assatanata nel ballo “carne radioattiva” tra urla lancinanti di chitarre elettriche) lo invita ad applicare finalmente il magnifico principio del Vade ultra! «È la vita, ubriacone, e devi sopportarla fino in fondo».

La dimensione spirituale, probabilmente congrua all’essere umano fino al punto da essergli consustanziale, è dunque l’insopprimibile causa di quell’impulso visionario che rende la realtà stessa un magnifico delirio degno di essere vissuto. Tale è la tesi, per lo meno, che Buñuel sviluppa amorosamente nel suo cinema, e che anche La via lattea (1969) espone nel modo più persuasivo. Può vedersi compiuto il desiderio piú alto che lo spirito di giustizia sia in grado di ispirare? È possibile, dunque, fucilare un papa? Qualcuno immagina la scena e subito essa si materializza (in immagine cine­matografica): un gruppo di rivoltosi comunisti conduce il pontefice al muro. È una donna ad assumere il comando del plotone d’esecuzio­ne... «Puntate... fuoco!», e il papa si accascia al suolo, scontando finalmente con il proprio sangue tutto il do­lore che secoli di tirannide della Chiesa hanno arrecato a milioni di uomini sulla terra. Trattasi – infine – di un papa che assume le vesti di un nuovo redentore, a ben vedere. Lo sguardo trasognato di colui che immagina la scena (un alter-ego del regista?) riconduce l’evento a sogno; e tuttavia: cos’è la vita se non sogno?
La fucilazione del papa interviene, al culmine de La via lattea, subito dopo che i pellegrini sono capitati nei paraggi di una scuola cattolica, dove le piccole educande risultano indotte (indottrinate) a lanciare patetici anatemi su l’universo mondo: «Ora, per dimostrare che nelle giovani anime che noi abbiamo il dovere di educare la religione è una cosa concreta ed attuale, eccovi le allieve piú piccole in un breve prologo». Tra incongrui muggiti di bovini (ma siamo in campagna...) le bimbe salgono sul palco, elevato di fronte al prato su cui i genitori stanno facendo il pic-nic, e già qualcuno, uno dei pellegrini, immagina qualcos’altro, ossia vede il plotone dei rivoluzionari marciare. La bimba Brigitte recita la sua parte: «Se qualcuno dice che ai cristiani è permesso avere piú di una moglie e che avere piú di una moglie non è vietato da nessuna legge divina...», e il coro infantile: «Su di lui anatema!». Un’altra bambina: «Se qualcuno dice che con il sacrificio della messa si commette sacrilegio contro il sacrificio di Gesù morto sulla croce...», «Su di lui anatema!». Di nuovo un brevissimo spezzone sulla marcia. Poi ancora altri anatemi, e finalmente il papa giustiziato. Chiede un genitore al pellegrino immaginifico: «Che succede? C’è un poligono qui intorno?». E questi: «No, no, ero io... Immaginavo che fucilavano un papa». Il buon padre di famiglia avrà udito gli spari, si presume, per confermare a noi la realtà del fatto, o quanto meno per farci comprendere quanta potenza creatrice risieda nella fantasia.
Il cinema per Buñuel è esattamente questo: immaginazione (desiderio) che modella la realtà, mentre la vita non è che il vaneggiamento di ciò che vogliamo che essa sia. La litania riprende: «Se qualcuno dice che dio sente odio per il fanciullo appena nato e che punisce in lui il peccato di Adamo...», «Su di lui anatema!». «Se qualcuno, perché giudica immonde le carni che dio ha donato all’uo­mo e non perché desidera mortificarsi, si astiene dal mangiare queste carni...», «Su di lui anatema!». La religione è fonte inesauribile di delirio, come sempre. Ma lo è, in fondo qualsiasi “religione”, ovvero qualsivoglia modello di interpretazione della realtà: il pensiero (in altri termini) che riconduce la pura e oggettiva esistenza a una coscienza umana capace di (e necessitata a) elaborarne il senso. E la cosí detta verosimiglianza – praticata come una sorta di dogma che discenderebbe direttamente dalla ragione (e per il cinema dalla natura stessa del “patto finzionale”) – altro non è che una costruzione artificiosa, convenzionale, infine del tutto inverosimile. Chiede la maestra all’ultima bambina: «Questo dove è stato stabilito?», e la piccola: «Al concilio di Nicea... No, al concilio di Braga... nell’anno 567».

                                                                                                               
N.B. Tutte le frasi di Luis Buñuel citate nel presente saggio sono tratte dal volume Buñuel secondo Buñuel, interviste a cura di Tomás Pérez Turrent e José de la Colina, Ubulibri, Milano 1993.