domenica 26 settembre 2010

BACO PRODUCTION


Baco Productions – Lo sguardo infinito dell’anti-documentario

(pubblicato in «Rifrazioni», n.3, Bologna, 2010)


L’anti-documentario è una delle declinazioni espressive che il cinema contemporaneo piú ardimentoso frequenta ormai con certa assiduità e varietà di modi. C’è l’arrangiamento proposto dal superbo Werner Herzog (Grizzly Man, The White Diamond) che flette sull’idea, da cui si slancia, di immettere entro la cornice angusta della registrazione di eventi – e ciò a mezzo di scombinamenti grammaticali e sintattici a dir poco fantasiosi – una cospicua dose di lirica adesione, una einfühlung delirante, che procede a sovrapporre la potenza dell’invenzione diegetica alla (presunta) nuda realtà dei dati ritrovati nelle zone piú bizzarre della vita. E si intende qui di una parafrasi che è tutta nelle corde del regista, da sempre: poiché perfino i suoi films piú drasticamente narrativi – quelli degli esordi e non solo, Aguirre furore di Dio, Cuore di Vetro, Fitzcarraldo, tanto per dirne tre – implicavano il pro-filmico sforzato a farsi veritiero, ossia vissuto fino in fondo (altro che recitazione!) e che si ponesse, infatti, il piú lungi possibile dal prolasso dell’artificio scenografico, dalle viltà illusioniste del cinema-romanzo tipico, e potesse attingere dunque a una persistente conquista di sincerità rischiosa, pur nella sostanziale accettazione dei presupposti narrativi di una storia inventata e di un soggetto avventuristico. E vi sono molteplici ulteriori accezioni d’arte anti-documentaria nel cuore del giovane cinema europeo, e anche americano. In regioni cioè ove si contemplano (tuttavia con sentimento di bruciore gastrico) Bruno Dumont – per fare un esempio – intento a spremere realtà fattuale contestuale umana dall’uranio puro di Bresson, arricchito però di una feccia deteriore, accattonesca (il va sens dire: in memento Pasolini), oppure Todd Solondz, capace di allestire una “non-fiction” (in Storytelling) dietro cui peripatizzano gli antecedenti delle persone (e non già blandi personaggi) che abitano i quotidiani loculi dell’impagabile Cassavetes... e anche altri cineasti di valore, de cuyos nombres no quiero acordarme.
La premiata ditta Baco Productions (Fabio Badolato e Jonny Costantino) si insinua nella fessura, invero assai tumida, dell’anti-documentario (incisione stretta, dico, ma pronta a schiudersi, come ogni solco, vivo, che si rispetti) muovendo dal lato opposto rispetto ai casi sopra citati, ovvero partendo dal “documentario” tout court, ma implicandolo in un chiaro disegno metalinguistico che ne stravolge la consueta portata – e ancor piú i consueti scopi – per farne strumento atto a trarre dalla “realtà dei fatti” materiale da costruzione (anche come materiale di recupero, di furto) in vista di una testualità filmica, di una semiosi audiovisiva, che si ponga piú come indagine sulle potenzialità stesse dell’espressione cinematografica che come inchiesta sui soggetti (pre-testi pro-filmici, vita viva affrontata e riferita) di volta in volta tematizzati, e che quindi concorra a tracciare il senso, i limiti, le pulsioni, le inibizioni, le rimozioni, gli scarti, gli scatenamenti, le liberazioni, di una complessa quanto ambiziosa – sebbene altamente ipotetica, arrischiata – poetica dello sguardo. Nella logica, ovviamente, di uno sguardo che è piú desiderante di quanto non sia oggettivo, piú affamato che sazio, piú gettato nella sua trionfale sconfitta che non appagato dalla conoscenza di ciò che vede (la quale sarebbe poi il presupposto della didattica documentaristica tradizionale). Una poetica e una logica che dunque finiscono per delineare la figura davvero eversiva di un occhio anti-albertiano, infinitamente mobile e sempre decentrato, talora per questo anche pressoché accecato, eppure iper-vedente proprio in quanto visionario, perché destabilizzato e sempre messo fuori gioco dall’ineffabile (superiore) invisibilità del reale.
In Le Corbusier in Calabria (2009), la piú recente delle prove del duo, si notano con facilità tre dati: il primo, che la lingua nuova dell’opera, anche a mezzo di un montaggio funambolico, oltre che di una frenetica, parossistica instabilità della ripresa, si avvale di un’immagi­ne risicatamente tesa ad avocare a sé pregnanti equivocità visive, ovvero tanto “il visibile” quanto “l’invisibile”, tanto il pittorico quanto il fotografico, tanto il gradevole quanto l’indigesto, poiché fa fluire dinnanzi allo spettatore una rapida trascorrevolezza cangiante e fortemente evocativa, la quale rende l’occhio appunto precario e malfermo, lo distoglie e lo disloca dalle sue abitudinarie espugnazioni prospettiche, dalle sue pretese di certezza, e lo affascina invece che oggettualizzarlo (storicamente, per la cultura occidentale, quale ipostasi soggettiva della conoscenza); il secondo, che tale scelta spinge con forza il testo entro regioni dell’estetica – di un’estetica dell’im­magine post-cubista, post-lecorbu­sieriana – che poco hanno a che fare con lo statuto didattico del “documentario”, di cui viene denegata l’autorevolezza anche a mezzo di un ripudio della parola, del commento verbale e didascalico; il terzo, infine, che quella scelta e quella rinuncia aprono la via a dimensioni audiovisive (ché di cinema pur sempre si tratta: e quindi di testo audio-visivo) in cui l’audio è solo musica, ed è musica a sua volta non didattica, non decorativa... dato che è invece an­ch’es­sa testuale al pari delle immagini, nella sua perfetta con-fusion con la com­ponente visiva.
E qui, a proposito del terzo dato, varrà la pena di sottolineare la valenza dirom­pente cui viene ad assurgere, in Le Corbusier in Calabria, l’allesti­mento di plurali facoltà – da parte del fruitore – di aderire al testo secondo un percorso del tutto ad libidinem: di volta in volta scegliendo (poiché Badolato-Costantino sfruttano a fondo le versatili virtú del supporto dvd) la traccia musicale – banalmente si direbbe: la colonna sonora, ma non sono colonne sonore! – da associare alle immagini... Il che non genera l’effetto di rendere secondarie quelle tracce, come potrebbe apparire all’approccio di uno sprovveduto, ma invece quello di ottenere tanti testi complessivi quante sono le tracce medesime. Provare per credere, diceva colui... Ogni diversa interpretazione musicale delle immagini – ché inter­pretazioni sono, con i vari musicisti coinvolti a posteriori in un atto di libero “appropriamento” del testo – si dispone a modifi­carne la valenza estetica, il che vuol dire a partorire un nuovo significante globale, muovendo da un programma di produzione che tale insistita palingenesi ha cercato e voluto, e con la conseguenza di restituire alla natura audiovisiva dell’opera esattamente (pienamente) la sua epifania apocatastatica.
La percezione che del soggetto pseudo-trattato (ma trattato comunque, e con che ricchezza di rilievi! con quale cuore!) viene ad avere lo spettatore – la Calabria delle arsure e dei germogli, delle spregiudicatezze devastanti e degli abbandoni, la Calabria di una bellezza superlativa proprio in quanto malinconicamente sciupata, il suo corpo femminile sprecato, usato, abusato, violentato, abbandonato, denudato con ferocia lussuriosa, consunto dal tempo eppur brillante tra le pieghe della memoria, bellissimo perché antico – è per paradosso (ma quale paradosso? nessun paradosso in tutto questo!) piú ricca, piú persuasiva, piú intima, piú autentica. La sostanza di uno sguardo che è indagine sullo sguardo (stesso), di un occhio insaziabile che muove alla ricerca di ogni dettaglio, che si estroflette quasi divaricandosi come un giano bifronte, che esce dalla propria orbita per poi vedere solo se stesso in quanto ansia (stessa) del vedere, e del capire, che dunque si fa amore per lo sguardo e sua infinita ricostruzione, statuisce il contrario di quello sguardo di Medusa – del documentario classico – che impietrisce e paralizza e uccide l’oggetto del proprio dominio, mummificandolo.
Cosí, a ritroso, si intende come esplicativa degli intenti (della solida poetica) della premiata Ditta l’opera precedente di Jonny Costantino e Fabio Badolato: tesa com’è – nel dittico sulla pittura di Flavio de Marco, Mimesi (2007) e Storie del­l’occhio (2008) – a sondare il rapporto profondo e impossibile tra immagine e visione, nella con­sapevolezza (qui) che se da un canto è sempre e solo la visione a fondare l’immagine, di controcanto è altresí la visione a distruggerla, a sterminarla, quando essa si placa nella pura contemplazione (rappresentazione?) e lo sguardo cessa pertanto di essere desiderante. Ancora l’anti-documentario muove i suoi passi da un testo-pretesto... Ora tuttavia da qualcosa che ha già dentro la propria stessa carne la valenza di linguaggio e di immagine: la pittura appunto, l’operare dell’artista per la produzione del significante visivo. Ma è un lavoro di superfetazioni, di stratificazioni aggiunte, quello che Baco Productions in questo frangente decide di allestire: perché uno sguardo interno, anticipatorio (e metonimico) dello sguardo cinematografico agisce in entrambe le opere al fine di rendere piú spessa la visione e di centrare il problema autentico dell’immagine, dico il suo irriducibile porsi al limite di uno spessore (appunto) che deve tradursi in ansia... dato che l’immagine è in sostanza seduzione dell’occhio, richiesta di una penetrazione, invocazione di uno sguardo che desideri oltrepassarne la soglia, il che poi vuol dire che ambisca a sfondarne la cortina (fisica, corporea) per deflorarne il sigillo interno (mentale), perdendosi tuttavia nell’interminabile sussulto e orgasmo della deflorazione stessa (entretien infini, diceva Maurice Blanchot dell’insensato gioco della poesia).
Nel primo dei due film, titolato Mimesi, è l’artista De Marco a fungere da occhio interno, un occhio che raddoppia quello dello spettatore (del film) per metterlo in difficoltà, ossia per soggiogarlo ad una prigionia del (non) vedere dalla quale solo con la forza di un’adesione totale, di un dispendio, di una catarsi, egli potrà forse cercare di liberarsi. Senza riuscirci, giacché la tensione aumenta. Ed è la via scelta dall’anti-documentario per problematizzare il proprio stesso costituire testo, la propria stessa pretesa di mostrarci qualcosa. Lo stolto indica la luna, mentre il saggio guarda il dito! Sí, perché il problema vero è la presunzione del mostrare, e del vedere, non ciò che viene visto. Il testo visivo (cinematografico in questo caso) è tale perché ha l’ambizione di far vedere qualcosa, ma se accetta l’idea che quel che conta è ciò che mostra (docu­mentario consueto, pittura realistico-prospettica) vorrà dire che rifiuta di porre se stesso come oggetto della visione. La trasparenza del testo, il suo essere mero strumento ai fini della presa di possesso di ciò che sta al di là di esso (oltre la cornice della finestra che albertianamente apre) segna la fine di ogni istanza artistica e di ogni fruizione estetica. Essa è nient’altro che la moneta passata di mano in mano di cui parlava Mallarmé, allorché implorava alla poesia di essere ben altra cosa. E per rivendicare invece uno sguardo che fondi il testo, che lo renda, esso stesso, termine e significato della visione, meta della fruizione (in una parola: opera d’arte) occorrerà invece un ispessimento della sua superficie (significante) tale da farle assorbire il desiderio fruizionale per irretirlo e rilanciarlo nella propria medesima frustrazione, nel proprio dover restare inappagato, poiché oltre tutto – come è ovvio – l’appagamento è l’opposto del desiderio.
Nel secondo film del dittico, Storie dell’occhio, una pseudo-contemplatrice – la donna che (non) guarda – introduce il tema della crudeltà della visione. Qui la faccenda si fa estremamente complicata... Perché già l’artista De Marco, nel­l’o­pera pittorica di cui viene fornita anti-documentazione, ispessisce la propria pittura superfetando una pittura precedente, quella di Francesco del Cossa e della sua cerchia nel ciclo dei Mesi di Palazzo Schifanoia. E lo fa partendo dalla convinzione che il fascino inesauribile di tali immagini del Quattrocento (ammesso che siano del Quattrocento e non di sempre) dipende dal loro essere – checché ne pensino le facilonerie didattico-turistiche prima ancora che storico-artistiche, se qualcosa riescono a pensare – sostanzialmente impenetrabili all’occhio. Per lo meno è questo che De Marco in loro rileva, ovvero che “trasferisce” su di loro rendendole palinsesto del proprio sguardo e di tutti quelli che nel precipitare dei secoli si sono là depositati, dato che lo sguardo attuale (l’operazione pittorica che lo materializza) muove esattamente a uno scavo e a una messa in rilievo degli ipotetici ma iperattivi sguardi precedenti.
In Storie dell’occhio il processo avviato (da De Marco) viene magnificamente condotto a ulteriori conseguenze, senza cedimenti didattici, perché al riparo di un’intenzione (a propria volta artistica) di cui nessun “documentario” banalmente inteso potrebbe avvalersi. Come già detto, nel primo capitolo una donna è guardata nel suo (non) guardare la pittura di De Marco, e sotto di essa quelle dei maestri ferraresi di Schifanoia, e tra questa e quelle le innumerevoli immemorabili altre pitture che la fruizione ha sedimentato. Il suo (non) sguardo condensa la potenza dell’immagine, il carne della (non) percezione di ciò che essa (non) rappresenta, la tumefazione del visibile che rimbalza sulla superficie per statuirne la linguisticità estetica... Alla fine: lo spessore del significante.
Nel secondo e nel terzo (breve) capitolo la cinepresa si erge a occhio unico e dispotico. Ma nel suo errare sulle immagini (di Schifanoia in leit motiv, intercalandovi tuttavia citazioni o accostamenti improbabili a materiale iconografico eterogeneo e ovviamente ancora richiami all’intervento di De Marco) si accosta ad esse in base a scelte – inquadrature, carrelli, zoom, sfocature... – che spingono la macchina verso un utilizzo al limite delle sue possibilità tecniche e, pertanto, schiacciano il vedere verso il confine della propria insussistenza, senza dubbio in modo rammemorativo dell’antefatto piú emozionante che il cinema possa offrire in materia: la lunga sequenza non diegetica, la carrellata esplorativa sugli affreschi e sulle tavole di Andrej Rublëv, che conclude l’omonimo film di Tarkovskij (1969). Quasi inutile insistere, lo spessore dello sguardo sfida qui la cecità che in esso si annida (e a cui esso si vota): sia ritrovandola (ritrovandosi) nel delirio delle immagini “restituite” – quelle dei ferraresi antichi e quelle del pictor novissimus – sia costruendola (costruendosi) in quanto visione inturgidita fino al parossismo dal (nel) linguaggio cinematografico. E il suggello che si potrà apporre a questa duplice sfida sprigiona il bagliore di una rivelazione, dato che recita cosí: poiché si tratta infine dello stesso spessore e della stessa cecità, poiché sono infine le stesse immagini, e quindi la stessa cosa.

Sandro Sproccati

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