domenica 26 settembre 2010

LA SINCOPE E L'ARRESTO (testo)


LA SINCOPE E L’ARRESTO
Note su Pickpocket di Bresson

(pubblicato in «Carte di Cinema», n.22, 2007)



Malintesi. Nessuna – o poche – stroncature o lodiche non partano da qualche malinteso. [Bresson, 1970 ca.]


Bresson è il cinema francese come Dostoëvskij è il romanzo russo e Mozart è la musica tedesca. [Godard, 1957]



La terra senza Grazia. Tale, se lo si vuole a tutti i costi declinare in chiave di metafisica cristiana, è l’assunto (o l’approdo) “ideologico” del cinema di Bresson, e di Pickpocket in particolare. La sconfitta di qualsivoglia ragione o motivazione – superiore, inferiore, non importa – vi si fa (in quel cinema e in quel film) motivazione e ragione piú autentica: poiché l’esistenza non concede varchi. Chiama, attira, assorbe. E il vento – appunto – soffia dove vuole.

Vi è un malinteso di fondo, enorme, che ha avuto la meglio su ogni possibile breccia operabile da quello “sguardo vergine”, e perciò attivo, che Bresson chiede ai suoi spettatori-coautori, spettatori che devono collaborare alla produzione di senso (del testo), ed è l’equivoco per cui la fede religiosa (dico, perfino: presunta tale) di un certo autore dovrebbe costituire per forza (di logica) il senso, il punto di partenza e d’arrivo, dei film che costui ha realizzato. Bresson è la dimostrazione vivente – in “carne e sangue” semantici – che tale idea non ha proprio alcun senso.

Pickpocket si chiude sulla famosa (fumosa) rivelazione: «Oh Jeanne, che strano cammino ho dovuto percorrere per arrivare fino a te!». Ma questa, in verità, non rivela nulla. Non piú di quanto la parola “fine”, che segue alla rivelazione, e che segue la fine di ogni film per pura convenzione, riveli qualcosa circa il senso ultimale del film appena visto. Il problema di Pickpocket, cioè il problema che questo testo cinematografico pone in assoluta evidenza, è che nessun atto ha davvero senso nella vita, ossia che nessun film potrà mai dare significato a ciò che significato non ha.

La morte, la sfida, l’eroismo (spacciato come tale e dunque tale), la violenza, la vittoria, la ricerca dell’assoluto e la nobilitazione del proprio gesto, l’amore come dedizione superiore, il dominio e la sottomissione alla causa, sono altrettante istanze esposte come prive di senso, destituite di ogni fondamento morale perché frutto di errore e vessillifere di tragedia, in Lancillotto e Ginevra, il piú “eroico” dei film di Bresson. In Pickpocket è la manipolazione, l’audacia della prestidigitazione, l’incessante muoversi delle mani e delle dita nei dintorni delle tasche umane ad assumere un analogo ruolo di catastrofico svuotamento e di conseguente nientificazione del significato. Il significato nel mondo delle azioni e delle cose non si dà, semplicemente.

Il significato appartiene solo alla sfera del linguaggio. Il dato che Bresson propone con il suo cinema (cinematografo, a voler essere precisi) è esattamente questo: la forma del testo, il testo in quanto elaborato linguistico, la struttura delle immagini e dei suoni, il rapporto tra il testo e ciò che il testo va a rappresentare, lo “scarto” tra il testo e la presunta realtà descritta, questo è il luogo del significato, nel quale il significato si forma e si deforma, l’unico possibile. Il linguaggio crea il significato mentre il dato extra-linguistico non ne possiede alcuno. Pertanto leggere i film di Bresson come se ciò che in essi è descritto avesse senso (morale) non ha alcun senso (né morale, né estetico). Se l’accadimento reale potesse avere senso già in sé, e al cinematografo non restasse che il metterlo in luce, il regista francese non avrebbe mai e poi mai dedicato un intero film alla vita di un asino (e per giunta a quella di un asino “a caso”). Au hasard Balthazar!

In Pickpocket, come del resto in tutti i film di Bresson, il testo si costruisce come scarto e balzo in avanti rispetto a un dato rappresentato che lo insegue – dopo averlo motivato, certo, ma senza mai poterlo raggiungere. È come se il “vissuto” che viene tematizzato fosse sempre insufficiente al testo, oppure come se il testo non potesse che violentarlo (per la sua insufficienza) travisandolo e andando sempre oltre esso e le sue povere manifestazioni. Non c’è storia in Pickpocket, non c’è propriamente neppure fabula, ma solo avvicendarsi di immagini che, invece di inseguire una storia per narrarla, la prevaricano infinitamente, quasi per darsi come “istoria” in se stesse: sequela di immagini, pura e perfetta grammatica di piani e di sequenze, sintassi coordinativa, punteggiatura di dissolvenze semplici e incrociate, di dissolvenze in nero (quando il ritmo le richiede, e pressoché mai in relazione con la storia), ritmo del testo che è ritmo visivo e nient’altro. Una grande costruzione formale, un edificio cinematografico degno dei grandi costrutti musicali (forse Bach piú ancora di Mozart), rispetto al quale la storia non è che un pretesto necessario ma moralmente irrilevante.

«In Pickpocket la poetica bressoniana tocca il punto forse piú alto di concentrazione, ma anche di incandescenza e di radicalità» [Ferrero, 1979]. Attraverso il montaggio di frammenti brevi e brevissimi, quasi al limite di altrettanti quadri a fermo-immagine, separati talora da rapide dissolvenze (come di una punteggiatura a ritmo pausativo desunta dal modello verbale o da quello di uno spartito musicale), il principio stesso della “trama” (altri dicono il livello del “racconto”) è smontato e messo a nudo nella sua totale insufficienza a dar conto dell’accaduto. La dissoluzione della trama [ancora Ferrero, 1979] propone altresí l’abrogazione dell’impianto psicologico dei personaggi («ridotta l’una a mera fenomenologia di accadimenti, apparentemente immotivati gli altri»). Emerge quella che lo stesso Bresson ha definito «la forza eiaculatrice dell’occhio» [Note sul cinematografo]. «La “camera” fissa, implacabile, il volto di Michel, quasi a spiarne reazioni e trasalimenti. Ma l’occhio di Michel diventa, a sua volta, una penetrante, implacata, “camera” interiore» [Ferrero, 1979].

Che succede a Michel il borsaiolo? Perché si dedica al furto? Che ne fa del denaro e dei gioielli di cui si impossessa? Perché cerca di farsi incastrare dai tutori della legge? Michel è come Raskolnikov? Quale redenzione va a preannunziare l’anabasi a cui si vota? È la salvezza lo scopo del suo agire? E per conseguirla è davvero necessaria tutta quella feccia da inghiottire fino all’ultimo sorso? Ed è la donna, e dunque l’amore per la donna – cosí stranamente conquistato – che redimerà Michel? È la punizione, il castigo del delitto, la sua via per la liberazione? Le gabbie del carcere sono il varco aperto, la breccia attraverso la quale si raggiunge la vita autentica? Dostoëvskij era già piú che sufficiente.

Il cammino – esattamente contrario – fotografato in Un condannato a morte è fuggito ci dice che il punto non è lí. Tutti costoro, il borsaiolo Michel, il prigioniero politico Fontaine, l’asino Balthazar, ma anche la ragazzina Mouchette e il paladino Lancillotto, e tutti gli altri protagonisti dei film di Bresson, soffrono e poi si “salvano” per vie diverse e di volta in volta pressoché imprevedibili o pressoché ovvie... I film di Bresson parlano di ciò solo perché un film di qualcosa deve pur parlare. La loro forza, la loro irraggiungibile perfezione, non deriva dai temi che trattano, e dal tema della Grazia meno che mai.

Da rifiutare è pertanto la tesi, da troppi condivisa, che «i soli fatti che davvero contano in Bresson sono quelli della vita interiore» [Bazin, 1958]. Se non c’è psicologia – come tutti del resto ammettono – non potrà esserci neppure psiche; e dove non c’è psiche non c’è anima. In verità il suo cinema non mostra altro che i fatti, ma nel senso piú freddo e oggettivo del termine: non indaga motivazioni, non costruisce situazioni, non entra nel merito di ciò che gli eventi rivelano o che li giustifica, mostra solo ciò che accade... Una fenomenologia dell’evento, per la quale – infatti – l’asino vale quanto il prete (Diario di un curato di campagna) o il detenuto politico: non è Balthazar ad essere umanizzato, sono gli uomini ad essere “cose viventi”, che si comportano in conseguenza della loro natura né piú né meno di quanto fa Balthazar. L’uomo avrà motivazioni (si suppone) che non sono quelle dell’asino; ma l’uomo e l’asino agiscono: e l’occhio di Bresson vede solo ciò che l’occhio può vedere.

Il cinema di Bresson è per sua natura anti-dimostrativo, e – almeno in questo – è l’esatto contrario del cinema di Rossellini. Non vi è un solo passo, in tutto il corpus delle Note sul cinematografo, nel quale si invochi o in cui venga citata “la vita interiore” e i suoi problemi. Vi si parla di visione, di potenza dell’immagine, di intensità delle emozioni (dello spettatore, non dei personaggi), di costruzione, di volti e di sguardi, di rapporto tra le immagini e le immagini, tra le immagini e la musica, tra le immagini e il silenzio...

Il ruolo della voce fuori campo (come voce del personaggio-narratore che si è sottratto al dominio della storia e se ne fa egli stesso autore, dominus ex fabula) è raddoppiato, nei primi film di Bresson, dalla presenza ricorrente di una “scrittura” visibile e leggibile per lo spettatore – quasi una nuova versione delle didascalie del cinema muto. Voce e scrittura instaurano un meccanismo semiotico che ha il solo scopo di scombinare i tempi della narrazione, in un certo modo di distruggere il senso stesso dell’atto narrativo scongiurando il suo farsi costruzione di significato, la dimostratività dell’accaduto come dato certo ed emblematico, la didattica della narrazione nel suo fondamento piú saldo ed arcaico: che è tutto nella nozione epica e poi romantica di esemplarità della storia.

Lo scontro tra il presente delle immagini e il passato dell’istanza verbale (il diario, la scrittura, gli appunti mnemonici del personaggio-narratore) è dunque finalizzato alla destabilizzazione del racconto: è come se nel Curato, nel Condannato e in Pickpocket il senso del testo cinematografico si chiarisse solo nell’impossibilità delle immagini di essere di per sé narrative. Sicché dovrà essere la voce – in campo o fuori campo ma sempre immanente alla diegesi – a doppiare ciò che le immagini (non) dicono, liberandole cosí dal compito diegetico e sviandole dal loro scopo tradizionale (nel cinema) per renderle ciò che devono essere: pure ipostasi visive. Come per dire, in altri termini e di rimando, che è solo l’azione travisante della parola a poter restituire l’effetto della narrazione con tutto ciò che di “ideologico” questa comporta.

In Pickpocket il personaggio principale è còlto in piano-sequenza all’esterno del locale in cui è situato l’occhio cinematografico, visibile in quanto separato solo dalla vetrina del bar. Poi lo si riconosce, al banco, insieme a un giovane ladro professionista, dopo una dissolvenza incrociata (semplice) sull’ellissi dell’incontro. Quindi voce fuori campo: «Un quarto d’ora piú tardi eravamo amici». In base alle immagini non è accaduto nulla, stando alla voce è accaduto tutto.

Poco oltre nel film, vediamo un signore che incrocia Michel nella biglietteria della Gare de Lyon. Il protagonista si sofferma per un attimo a guardare, e udiamo la solita (sua) voce: «Dove l’avevo visto? Avrei dovuto riconoscerlo...!». Qual è il tempo della narrazione in questo caso? A posteriori Michel saprà (e dunque sa benissimo, quando la sua voce narra l’evento) chi è costui, ma la voce di Michel quando inizia a “parlare” ragiona in tempo presente (il presente delle immagini) come se fosse la traduzione di un pensiero non udibile («dove l’ho visto?») e lí pertanto “sbaglia” il tempo (dice «dove l’avevo visto?»), poi si corregge e diviene vera voce narrativa esterna («avrei dovuto riconoscerlo») e lí sceglie il tempo giusto (non dice «dovrei riconoscerlo»). Tutto ciò anticipa di poco il muto fragoroso “balletto” del borseggio multiplo nel corridoio del treno: epifania delle immagini allo stato puro, acrobazia della visione prima ancora che dei fatti! Senza tempo.

Sincope narrativa, per sconvolgere l’ordine lineare del discorso. Pickpocket pratica una retorica della ripetizione e dell’iterazione solo per dare piú forza alle potenti ellissi – e alle sineddochi visive – che il suo montaggio incessantemente scava nella molle massa della “storia”. La talpa Bresson si ingegna di produrre crolli di persistenza nella persuasione dell’accaduto, ossia nel coinvolgimento fruizionale dello spettatore. Al punto che la sincope narrativa – la catena litotica – produce l’effetto di un vistoso, pressoché accecante, “arresto messianico dell’accadere”. Un metodo che favorisce, dunque, l’intervento attivo dello spettatore nella (ri)costruzione del testo, promuovendolo all’esperimento di fabbricare (in proprio) il significato: per colmare lacune, per stabilire raccordi. Ma è un “significato” che, proprio per questo, si dà solo come provvisorio, precario, instabile, e infine negativo. Brecht... Benjamin... ovvero Bresson, autore d’avanguardia.

Utilizzando un purissimo linguaggio classico cinematografico, che è tale almeno nei suoi fondamenti morfologici, Bresson ottiene lo stesso écart a cui altri pervengono (o forse vorrebbero pervenire) a mezzo della disgregazione delle strutture linguistiche e della contaminazione plurisemiotica. Il fatto è che Bresson spinge tale purezza del materiale filmico (e l’impiego altrettanto “puro” delle sue strutture canoniche) fino al punto in cui la purezza medesima – la Grazia segnica – va ad autodissolversi in un eccesso del tutto “insostenibile” delle proprie prerogative, ossia capace di creare turbamenti (e turbative) ulteriori. La prassi del culmine, la frequentazione dell’eccesso, è pertanto la sigla finale di Pickpocket.

Sandro Sproccati

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