domenica 26 settembre 2010

CONTRA BABINAM


   
IL LUOGO DELL’OPERA O CONTRA BABINAM
Autografia e allografia, oggettualismo e performatività (musica, teatro, cinema)

 (pubblicato in «Rifrazioni», n.2, Bologna, 2010)


Poiché l’attività che chiamiamo arte rientra con ogni evidenza nel campo più vasto dei fenomeni umani di comunicazione linguistica, essa dovrà gioco forza basarsi sulla pro­duzio­ne da parte di un soggetto (l’autore, eventualmente anche plurale) di entità fisiche (oggetti o eventi) che siano investite di valore simbolico, per usare il termine più ampio possibile, ovvero di signi­fica­to. Da quando esistono riflessioni filosofiche intorno al problema, in pratica da quando esiste il concetto stesso di arte, a tali entità fisiche è conferito il titolo di “opere d’arte” – che può essere anche con­vertito in quello, assai più tecnico, di “testi artistici”. A lungo l’estetica clas­sica, così come la storiografia e la critica, hanno dato per scontato che affinché gli scopi dell’arte siano conseguiti (in sostanza: perché un dipinto possa infondere persuasioni, perché un racconto possa riferire vicende, perché una melodia possa suscitare emozioni, perché l’arte insomma possa produrre “contenuti”) l’opera dovrà essere qual­cosa di immediatamente evidente, di completamente riconoscibile, qualcosa che non ri­chieda in alcun modo preliminari ricerche o definizioni di statuto, in definitiva qualcosa di circoscritto e di ben chiaro alla mente e ai sensi di chi voglia fruirla.
Ma il problema del corretto riconoscimento dell’opera, ossia dell’individuazione di ciò che propriamente ed effettivamente costituisce il testo di una operazione artistica, e pertan­to di ciò che forma la cosa esteticamente fruibile, emerge non appe­na si evita di ritenere ovvio ciò che non lo è affatto, cioè che il fruitore abbia sempre a che fare con entità oggettuali nel senso concreto del termine. Anche se con qualche difficoltà, la recente teo­ria dell’arte ha accettato l’opposizione, abbastanza elementare e intuitiva a dire il vero, tra arti oggettualistiche e arti performative, accanto alla distinzione (si­curamente più complessa e controversa) tra arti autografiche e arti allografiche, di cui parlerò in seguito[1]. Ora, tutte le esperienze d’arte che producono eventi in luogo di oggetti veri e propri – e tra esse, per restare nell’e­sclusivo ambito delle modalità tradizionali, si potranno citare al minimo la musica e il teatro[2] – pongono a ben guardare difficoltà notevoli in sede di individuazione (riconoscimento) del “luogo” esatto in cui si situano le loro opere. Ciò accade per un motivo semplice, vale a dire perché tali prassi linguisti­che conoscono non solo il testo come evento (ovviamente fisico[3], anche se non precisa­mente oggettuale: l’insieme di suoni prodotti in un certo ambiente, oppure l’insieme di azioni compiute da un certo numero di attori su un palcoscenico o in qualsiasi altro luo­go), ma altresì il testo come notazione grafica (lo spartito musicale, il copione o il testo ver­bale di una commedia o di una tragedia) e ancora – benché ciò sia del tutto rilevante solo per la musica – il testo come registrazione dell’evento (l’edizione disco­grafica).
Nelle (nuove) arti performative visuali, più o meno basate su novecentesche contaminazioni tra linguaggi visivi e teatro (come nella body art e derivati vari) o tra linguaggi visivi e azioni d’intervento ambientale (come nella land art e derivati vari), la scarsa chiarezza circa il problema di che cosa esattamente debba essere fruito come opera, ossia di dove si collochi effettivamente il testo dell’operazione, prende spesso il sopravvento. Ricorderò – a tal proposito – come artisti anche esperti finiscano non di rado per presentare quale loro opera dapprima un’azione, ossia una performance, eseguita dal vivo din­nanzi al pubblico, poi magari un filmato in cui tale azione risulta audio-video-registrata, tranquillamente dando a entrambe le “entità” lo stesso titolo e altrettanto tranquillamente lascian­do che il fruitore possa confondere tra esse come se fossero intercambiabili e come se si trattasse, in sostanza, della stessa opera. Si può, senza tema d’errore, evincere che per tali artisti non vi è alcuna differenza tra un’azione meta-teatrale e il filmato audiovi­sivo che la riprende. Mentre, invece, delle due l’una: o (1) la performance vale in sé e per sé come quella precisa opera che ha quel titolo, così che si tratterà, in tal caso, di un lavoro d’arte fruibile al livello massimo delle sue potenzialità solo ed esattamente nell’hic et nunc del suo accadere (intendo: quel giorno, in quel luogo, e da quel preciso gruppo di persone presenti), mentre di conseguenza la registrazione audiovisiva avrà solo la valenza di un documento finalizzato alla conservazione mnemonica e alla diffusione ulteriore – la stessa valenza che le fotografie dei dipinti hanno per le opere di pittura che riproduco­no – oppure (2) la performance medesima è stata eseguita (non di fronte al pubblico, ma) con il solo e preciso scopo di ottenere un testo audiovisivo, il quale – esso stesso e nien­t’altro – costituisce l’opera nella sua integrità, tanto che, in questa seconda evenienza, nessuno dovrebbe po­ter assistere alla performance come si assiste a una rappresentazione (per intenderci) teatrale[4]. Tertium non datur, a meno che per tertium non si intenda (3) che le due “entità” – perfor­mance e audiovisivo – costi­tui­scono due diverse opere (ben distinte anche se tra loro apparentate) di un medesimo autore.

Considerazioni principali (musica)
Il caso più complesso in materia di individuazione del luogo del testo è quello che (non da qual­che decennio, ma da molti secoli) propone la musica, arte performativa per eccel­len­za. Infatti la presenza di una “scrittura musicale” – deposi­tata in una mole immensa di segni a inchiostro su supporto cartaceo, i quali, nel modo più efficace possibile, mettono a di­sposi­zio­ne degli addetti ai lavori (ma quasi mai del destinatario finale) ciò che chiamiamo la storia del­la musica oltre che una serie di dati linguistici forti (immodificabili) che consentono di trattarne la materia con una certa oggettività – rende il pro­ble­ma assai delicato. Qui val la pena di ricorrere ap­punto alla distinzione goodma­niana tra arti autografiche e arti allografiche[5].
Le prime, secondo il filosofo americano, sono quelle che producono opere originali costituite da un esemplare unico e non riproducibile (come ad esempio un dipinto a olio di Matisse o una scultura a scalpello di Michelangelo o la Catte­drale di Chartres: regime autografico a oggetto singolo[6]) oppure opere originali riprodotte in una serie limi­tata di esemplari pressoché identici tra loro e tutti “autenticati” dall’artista (come ad esempio una cartella di incisioni a tiratura limitata: regime autografico a oggetto multiplo). Va precisato che il criterio della non-ri­produ­cibilità si pone solo in maniera da escludere la presenza di esemplari identici all’originale e dotati del suo medesimo valore estetico, dato che: a) la riproducibilità tecnica – in epoca contem­po­ranea ­– è sempre di per sé possi­bile, e tuttavia si tratterà esattamente di quella condi­zione di cui parla Benjamin[7], che se da un la­to sottrae “aura” all’ori­ginale, dall’altro non pretende affatto di sostituirlo con le sue copie (diciamo allora: la fotografia di un dipinto, che lo riproduce senza aver alcuna pre­tesa di sostituirsi ad esso); b) la ripro­duzio­ne è comunque sempre possibile anche in un altro senso, ovvero in chiave di falsificazione, e dunque come creazione di pseudo-valo­re, come truffa este­ti­co-eco­nomica (l’originale rimane unicum non replicabile dacché ogni sua eventuale replica che pretenda di spacciarsi per originale costituisce un “falso” che a termi­ni di legge deve essere perseguito)[8].
Le seconde – ossia le arti allogra­fiche – prevedono invece l’infinita riproducibilità dell’o­pera come condizione di vita dell’opera medesima: un testo di qualsivoglia narratore o poeta è inesauribilmente moltiplicabile, tanto che lo si intenda co­me insieme di caratteri alfabetici sulla carta quanto che lo si identifichi con una catena di suoni articolati da voce uma­na. Va precisato però che, in questo modo, si parla (ancora) di opera come oggetto fisico – car­ta stampata oppure onde sono­re nello spazio – quando tali entità non sembrano essere altro, per un ro­manzo o per una poesia, che la necessaria ricaduta sensibile di un testo vero e proprio situato altrove. Ciò che Good­man pare trascurare, o non rilevare con sufficiente chiarezza, è che l’oggetto fisico, proprio nel caso delle arti che egli chiama allografiche, non costituisce realmente l’opera nel proprio fondamento di (comunque radi­cale) unicità, quan­to piuttosto un sup­porto occasionale della medesima. La pagina x del­l’edi­zione x delle Fleurs du Mal, impressa con quei caratteri e quell’inchiostro su quella carta, non è in sé quella poesia di Baudelaire (ad esempio la poe­sia L’albatros) ma solo una sua registrazione scrit­turale con­tingente, la qua­le – purché rispettosa dell’esatta successione di segni grafici stabilita da Baudelaire (o piut­tosto dal curatore auto­rizzato per consenso una­nime, Claude Pichois) ­– è pienamente legitti­ma­ta a rap­presentare quella poesia di Baude­laire esattamente quanto qualsiasi altra registrazione scrit­turale (orto­graficamente cor­ret­ta) di qual­siasi altra edizione francese delle Fleurs du Mal. Bisogna infatti riconoscere che la poesia L’albatros è comunque unica e immodi­ficabile, in un certo senso non replicabile in nessun modo, anche se infinite sono le modifi­che e le repliche che si possono legittimamente effet­tuare sulla sua “ricaduta” in oggetto sen­sibile, una “ricaduta” a prescindere dalla quale (tuttavia) nes­suna opera let­teraria sarebbe evidentemente fruibile.
Ora, è bene avanzare subito un’osservazione a mio avviso cruciale: la musica pertiene sia al regime autografico sia al regime allografico, il che costituisce la vera ragione della difficoltà dell’individuazione delle sue opere. Nella musica, intesa come arte autografica, il prodotto artistico dovrà essere infatti definito come l’evento che l’esecutore o gli e­se­cu­to­­­ri, eventual­mente anche sotto la guida e la respon­sabi­lità di un direttore, realizza­no in oc­ca­sione di quel dato concerto, dunque come quella precisa performance musicale, dato che solo così l’ogget­to artistico potrà dirsi unico e irripe­tibile. Laddove, per contro, la musica dovrà esse­re considerata arte allogra­fica se si ritiene che l’opera musicale coincida esatta­men­te con il testo-partitura che viene realiz­za­to da un musicista compositore prima e a pre­scinde­re da ogni sua (eventuale) performa­zione. Vi è un solo oggetto-evento fisico che può costituire la IX Sinfonia di Bru­ckner ese­guita il tal giorno del tale anno e nel tale luogo dalla Columbia Symphony Orchestra di­retta da Bruno Walter, non essendo nessun altro evento si­mile (esecuzione della medesi­ma sinfonia da parte di altri musicisti o da parte dei medesimi musicisti ma in altro luogo e/o mo­men­to) intercambiabile con esso, mentre, al contrario, qual­siasi tra­scrizione corretta dello spartito licenziato da Anton Bruckner per la sua IX Sinfonia, al pari dell’eventuale insieme di fogli originariamente da lui vergati a Sankt-Florian[9], è equi­va­lente a (e intercambiabile con) tutti gli altri esemplari, oggi pressoché innu­me­revoli, di quel­lo spartito, comunque e da chiunque vergati e/o stampati, purché testual­mente (ov­ve­ro nella successione di simboli grafici) con­formi all’originale.
In altri termini: siamo in grado di sostenere che possediamo infiniti oggetti – diversi tra loro ma tra loro per­fetta­mente equivalenti – i quali tutti ugualmente costituiscono, allo stesso identico titolo di legitti­mità, la IX Sinfonia di Bruckner (regime allografico) solo se ci riferiamo alla musica come attività di produ­zione di scritti musicali, ma potremo tuttavia affermare che possediamo un solo oggetto, unico e irri­petibile, il quale (nel caso specifico) è fruibile solo una volta in una determinata occa­sione evenemenziale, che costituisce la IX Sinfonia di Bruckner ese­guita da Bruno Wa­lter con la Columbia Symphony Orchestra il tal giorno del tale anno nel tale luogo (regime auto­gra­fico) se ci riferiamo alla musica come attività di produzione di suoni.
Qui si inserisce la distinzione da farsi – credo in modo assai opportuno – tra musica e letteratura. Perché se è vero che anche una poesia può essere “eseguita” in modo estetica­mente significativo, tanto che l’esecutore potrebbe giungere a determinare una specie di nuova coscienza pub­blica del testo originale e del suo autore (ad esempio Carmelo Bene, grandioso reinventore di Majakovskij), è tuttavia altrettanto vero che per la musica – che viene fruita davvero solo nell’esecuzione sonora – non si tratta di eccezione o di caso par­tico­lare, ma della norma (senza esecutore specifico e senza il suo apporto estetico non c’è musica affatto) e d’altronde l’esecutore è sempre obbligato a fornire un’interpretazione “forte” (ossia personale, indirizzante) del testo originale. Egli di fatto lo reinventa: non fos­s’altro perché il testo originale, in senso stretto, neppure esiste, ovvero esiste solo come insieme di indicazioni (notazione) per l’esecutore, le quali in­dicazioni sono per loro natura assolutamente “povere” rispetto a ciò che sarà l’effettiva rea­lizzazione del­l’opera (la sua epifania) in suono, in ciò che chiamia­mo appunto (ma forse erroneamente) interpretazione. La più ricca e articolata ed esaustiva delle notazioni musicali, lo spartito più evoluto dal punto di vista della complessità tecnica scritturale, sarà sempre solo una serie di scaraboc­chi sulla carta, per altro illeggibili alla stragrande maggioranza dei fruitori, in attesa – per­ché la musica inizi veramente ad esistere – di qualcuno che a quei segni grafici doni corpo e vita permettendo ai suoni di librarsi nello spazio esistenziale. Anche i grandi autori di spartiti ovviamente furono (o sono) musicisti: ma prima di tutto perché anch’essi ovvia­mente suonavano, creavano mu­sica viva, che poi, per nostra fortuna, annotavano in segni sul pentagramma, permettendo ad altri musicisti di farla vivere ancora oggi.
Spero d’altra parte sia chiaro che non intendo sminuire l’importanza del fatto che esi­stono “le opere” di Schubert, ovvero di qualsiasi altro autore che ci abbia lasciato notazioni della sua musica. Sopra tutto per quanto concerne l’ambito della così detta “musica classica”, chiedo invece che si rifletta su quanto segue: da un lato l’esistenza delle partiture consente di apprezzare, in sé e per sé, tutto il valore dei grandi musicisti del passato (e anche dei me­no grandi), ovvero delle loro composizioni, ma dall’altro, ogni volta che queste vengono eseguite ciò che ne nasce è una sorta di opera di collabora­zione tra compositore ed esecutore, dove non mi pare neppure necessa­rio stabilire una gerarchia tra l’uno e l’altro, dato che ogni singolo ca­so fa comunque testo a sé. Ricorderò solo, en passant, il paradosso in cui è incorso Keith Jarrett – grandissimo pianista di formazione jazz – quando ha preteso di ese­guire le opere per clavicembalo di Bach escludendo, a suo dire, ogni ansia interpretativa e cercando (verosimilmente in polemica con Glenn Gould) di essere freddo e neutrale nel­l’applicare la presunta “lettera” dello spartito. Il paradosso consiste nel fatto che chiunque abbia fre­quentato Jarrett (ossia la musica da lui composta) riconoscerà nella sua versione delle Varia­zioni Goldberg lo sprigionarsi di un meraviglioso mix di struttura bachiana e di sensibilità jarrettiana; e nessuno, d’altra parte, potrà mai in buona fede essere certo che le Variazioni suonate da Jarrett siano più prossime a Bach di quelle suonate da Gould. Se non altro perché nessuno (che possa pronunciarsi oggi senza l’ausilio di tavolini a tre gam­be) ha mai sentito le Variazioni Goldberg suonate da Bach stesso.
Così, per poter definire la musica un’arte allografica dovremmo essere disposti a consi­derarla arte della composizione di successioni e combinazioni di suoni in senso astratto, dove ciò che conta è il progetto (mentale) di un evento solamente prefigurato e im­maginato, in at­tesa di una sua messa in atto futura, mentre intenderemo la musica come partecipe del regime autografico se decideremo che la sua attività consta nella produzione di un testo fisicamente fatto di suoni, perfor­mato dinnanzi ad almeno un fruitore che impieghi l’udito per rece­pirlo (nella più disperata delle ipo­­tesi: l’esecutore solista stesso nell’isolamento della pro­pria stan­za) e rispetto a cui eventuali scritture cartacee fun­gono esclusivamente da mezzi di conservazione mnemonica e/o da guida alla performazione. E però occorre anche ribadire che i due casi non sono simmetricamente equivalenti, poiché, mentre l’estremizza­zione del secondo è possibile e addirittura frequente, quella del primo appare assai prossima all’assur­do. Infatti, se da un lato esistono artisti musicali che con­cepi­scono la musica solo come evento (performance) di produzione sono­ra (la maggior parte dei musici­sti jazz, ad esempio: sia quando utilizzano partiture sia quan­do non le utilizzano affatto), dall’altro non paiono facilmente reperibili situazioni di artisti musicali che abbiano deli­be­rato di escludere, come inutile o non pertinente, il momento della produ­zione di suoni a favore della sola, e in sé bastante, scrittura di partiture, se non in ambiti di paradossali­smo avanguardista provocatorio. D’altra parte, ciò che vale sovente per la musica jazz vale­va sem­pre per epoche (o culture) in cui non si conoscevano an­cora (o non si conoscono tut­to­ra) metodi di notazione scritturale.
Per ciò che riguarda infine la questione dei supporti moderni per la diffusione delle ope­re musicali – problema che si pone solo da un secolo a questa parte – si osserverà che un disco, analogico o digitale, che riproponga un concerto dal vivo (di musica “improvvisata” o di musica eseguita da partitura, non fa alcuna differenza) spesso ha solo il valore di preservare una memoria e consentire un ascolto allargato dell’opera riprodotta (poniamo la Quinta Sinfonia di Mahler eseguita da Sir Georg Solti a Chicago nel 1970), anche se – nella ricezione che “storicamente”, ossia nel corso del tempo, esso va poi a determinare – quel me­desimo disco potrà assumere la stessa funzione identica, presso il fruitore, di uno che, al contrario, venga inciso in studio per essere proposto come opera originale (dove, intendo dire, il momento esecutivo contingente è fina­lizzato solo alla produzione del disco e di nient’altro), vedendosi attribuito il valore di unicum arti­stico.
Ciò apre tuttavia un dilemma ulteriore, di impervia delimitazione teorica: in sostanza, se la musica è, da sempre, il prodursi di suoni in uno spazio percettivamente convissuto da chi la esegue e da chi la ascolta, quale tipo di realtà percettiva potrà garantire un disco che gira su un grammofono, ovvero una puntina di diamante che vibra in un microsolco, o magari un apparato digitale che traduce informazioni alfanumeriche in suoni, in concomitanza di circuiti elettronici e membrane amplificatrici fissate su casse di legno, rispetto alla materialità fisica di un sassofono che fa vibrare l’aria nella stessa dimensione prossemica di chi ne ascolta il suono? Il problema non si porrebbe se puntina, solco, microchip, amplificatori e casse varie non avessero la pretesa di darci precisamente l’effetto del sassofono, ma purtroppo è proprio a questo che servono: a fingere che la musica del sassofono, o del pianoforte, o dell’orchestra, sia reale. Basta ascoltare una sinfonia in un auditorium (dove perfino i colpi di tosse del pubblico fanno musica) e poi quella medesima sinfonia registrata su disco, ancorché eseguita dalla medesima orchestra nel medesimo luogo e nella medesima serata, e ancorché riprodotta da un impianto stereofonico di qualità superlativa, per cogliere la differenza abissale tra le due esperienze di fruizione! E però l’inci­sione in studio, ideata come produzione di un unicum artistico (così come talora anche quella “live” quando assume un rilievo stabile e fondativo) tende a offrirsi all’ascoltatore non già come surrogato della musica autentica, ma propriamente come musica autentica in sé e per sé.
Non significa nulla poi il fatto che (anche) in questo caso l’opera originale sia fisicamente depositata in una serie potenzialmente infinita di oggetti tra loro identici, o pres­soché identici, dato che si tratta di supporti, solo supporti: di un testo idealmente unico, il quale – esso stesso e solo esso – costituisce l’opera; e la cui necessaria materialità non si colloca in­fatti a livello del vinile o del CdRom, bensì a livello dei fenomeni fisici di tipo on­dulato­rio a cui tali oggetti (in combinazione con un ade­guato dispositivo di riprodu­zio­ne del suo­no) possono dare vita. Piuttosto si tratterà di valu­tare se il ventaglio che il disco of­fre di infinite riproduzioni del testo, ovvero – in termini più banali – se le infinite possibili fruizioni del disco stesso, non facciano rientrare la situazione in quello che Genette chia­ma il regime delle arti autografiche a oggetto multiplo.

Considerazioni a latere (teatro).
Per quanto attiene il teatro, l’equivoco si palesa già in tutta la sua imponenza non appena esaminiamo con cura il normale utilizzo di un’espressione così apparentemente chiara e “innocua” come quella di testo teatrale. Con tale espressione viene infatti comunemente inteso uno scritto verbale che costituisce la base (da seguire puntualmente per ciò che con­cerne i dialoghi tra i personaggi) per una messa in scena di teatro classico o classico-moder­no. Allo stesso modo, e seguendo la stessa logica (che in verità è assai poco logica), se citiamo “le opere di Racine” intendiamo parlare senz’ombra di dubbio degli scritti che Racine ci ha lasciato, nei quali sono registrati alla lettera i dialoghi verbali (orali) delle sue tragedie e altre­sì annotati alcuni (ma solo alcuni) dettagli dell’allestimento scenico e dei gesti degli attori... Ma per afferrare al volo tutta l’enormità dell’errore che tali abiti terminologici rivestono, e di conseguenza tutta la complessità dei problemi inerenti il teatro come arte, basterà riflettere sul fatto che – se ammettiamo (come non si può non ammet­tere) – che l’opera teatrale si realizza appunto a teatro, e prevede una serie di esseri umani viventi che si muovono ed eventualmente parlano di fronte a una platea di esseri umani ugualmente reali e viventi, convenuti in quel luogo e in quel momento per fruire l’opera nell’hic et nunc del suo porsi in praesentia – se ammettiamo quanto detto come assolutamente certo e inoppugnabile – ecco allora che il testo del teatro (ossia il significante che ne costituisce l’opera) non potrà mai avere la forma di una scrittura verbale, non potrà mai essere pubblicato come libro che raccoglie (per esempio) Tutte le commedie di Luigi Pirandello... cosa che per altro l’editoria persiste tranquillamente a fare.
Il testo teatrale, in quanto tale, deve necessariamente essere individuato, con il massimo rigore possibile, in una performance, esattamente una performance, che si svolge una volta sola in un luogo preciso dinnanzi a degli spet­tatori (che non sono affatto lettori, bensì spettatori) e che implica di solito diversi attori oltre che un regista direttore. D’altra parte sappia­mo che fino all’epoca di Molière nessun uomo di teatro si riteneva tale perché in grado di “scrivere” testi verbali, e che il suo (eventuale) realizzare scritture delle proprie opere valeva per lui quanto varrebbe oggi il registrarle con una videocamera: pura memoria, necessità del tramando e del documento. In quanto arte performativa, il teatro, come la musica, affida tutta la propria specifica potenza significante a un luogo che non è affatto costituito da un insieme di tratti grafici su una pagina cartacea, ma che è invece uno spazio reale, fisico, tridimensionale, spesso architettonico, dove l’opera accade e accadendo reclama per sé una fruizione simultanea al suo accadere – in tempo reale – che nel caso della musica coinvolge (principalmente) l’udito del fruitore, mentre per il teatro (principalmente) vista e udito insieme.
Del resto si può osservare che anche quando la poetica di un certo regista pretende la maggior fedeltà possibile a un te­sto preesistente (uno scritto di Vittorio Alfieri, ad esempio) una com­ponente cospicua di improvvisazione, sia a livello di interpre­tazione del testo realizzata dalla messa in scena (regista, scenografo, ecc.), sia e sopra tutto a livello di conti­gen­ti performances degli attori, è del tutto inevitabile... Ma bando alle ciance! Queste sono quisquilie, dato che a nessuno verrebbe mai in mente di utilizzare il termine opera in campo cinematografico per indicare una sceneggiatura (scrittura verbale), e di sostenere quindi che le sceneggiature utilizzate da Welles costituiscono i testi del suo cinema, magari aggiungendo che il fluire delle immagini e dei suoni sullo schermo (tutto ciò che è impresso sulla pellicola finale) è soltanto una interpretazione del testo stesso! E io qui sostengo – con la maggior veemenza possibile – che aveva totalmente ragione Antonin Artaud[10] a infuriarsi di fronte a un malinteso che non concerne affatto questioni di lana caprina (da teorici maniacali), come taluni vorrebbero far credere, bensì la possibilità stessa che il teatro abbia senso, la sua forza creativa, il suo valore morale e politico, il fatto stesso che il teatro sia degno di esserci e di agire, tra le arti dell’uomo, per la vita dell’uomo e per la sua dignità. Artaud sosteneva che il teatro non ha nulla a che fare con la parola scritta, che esso è dispiegamento di corpo e di spazio, nello spazio, carne viva e sangue dell’attore, percezione sensoriale completa (visiva, auditiva, olfattiva, persino idealmente tattile e gustativa) dello spettatore, in quanto a sua volta corpo egli stesso, immerso nello spazio di un’azione, e che il teatro è dunque solo azione, che la parola stessa a teatro è azione, dato che è essa stessa corpo, e che dunque può essere solo parola-soffio, parola-grido, parola-parola, fremito articolatorio di muscoli e mem­brane della bocca, intensità corporea di un suono che si produce e riecheggia nello spazio[11].
Nei libri di Shakespeare, sembra suggerire Artaud, non c’è affatto il teatro di Shakespeare, non c’è nulla del teatro di Shakespeare, se non il vago e vacuo ricordo di ciò che quel teatro fu o la blanda indicazione di ciò che quel teatro potrà essere se qualcuno decidesse di lavorare su quelle notazioni fino a farle rivivere in qualcosa di simile al teatro di Shakespeare, ma in sostanza in un’opera nuova. D’altra parte, non si tratta solo di “notazioni”, si tratta, non di meno, di superbi capolavori letterari, degni della migliore letteratura di tutti i tempi! Che cosa sono, allora, i libri intitolati Romeo e Giulietta, La tempesta, Re Lear, oppure Tutto il teatro, di Shakespeare? Ovvio, sono opere letterarie, nulla di diverso da opere letterarie... nulla di diverso, ad esempio, dai libri intitolati Gordon Pym, La lettera rubata, oppure Tutti i racconti, di Poe. Va da sé che le opere di Shakespeare non sono racconti, e che richiedono una lettura che tenga conto della specificità della loro forma letteraria, ovvero (se è possibile) anche una sorta di capacità da parte dei lettori di rap­portarne la materia diegetica alla dimensione specifica dell’evento teatrale; ma la loro godi­bilità non è inferiore a quella dei migliori capolavori narrativi, così come a quella dei più grandi testi poetici. Nulla di strano. Anche i poemi epici dell’Ariosto e del Tasso non sono propriamente né racconti né poesie... Costituiscono anch’essi un genere a sé stante, il quale richiede un approccio culturale e psicologico specifico.
Il dato tuttavia è: le opere di Shakespeare (o di chi per lui, visti i dubbi – qui non pertinenti – che circolano a proposito dell’esatta identità di quest’uomo), qualora siano intese come scritti per il teatro, cioè come libri, sono di fatto opere letterarie, e funzionano in base al regime allografico che è di tutte le (altre) opere letterarie. Mentre se, invece, ci riferiamo (ad esempio) a una messa in scena dell’Amleto – realizzata rispettando alla lettera la notazione fornita dallo scritto shakespeariano, oppure magari anche in base a vistose manipolazioni e volontarie modifiche di tale notazione – saremo di fronte a un’opera teatrale a tutti gli effetti, il cui funzionamento è drasticamente autografico (unicum irripetibile, o a repliche similari ma non identiche), allo stesso modo di certe messe in scena del teatro odierno e d’a­vanguardia, che non sono sostenute da alcuna base notazionale oppure sono sostenute da notazioni così sommarie (e inutilizzabili in altro contesto) da non essere per nulla riconducibili a fruizioni di tipo letterario o di natura estetica in generale.

Considerazioni a latere (cinema).
Nel cinema la costruzione del testo – certamente da identificarsi con la successione diacronica delle immagini (in movimento) sul quadro cinematografico e con il diffondersi dei suoni nel medesimo ambiente in cui il quadro è visibile – è talmente articolata da porre, se non proprio problemi di corretta individuazione dell’opera, almeno notevolissime difficoltà in sede di analisi semiologica del significante e del lavoro necessario per ottenerlo. Si possono riconoscere tre fasi generali ben distinte tra loro: 1) il lavoro performativo di una trou­pe di attori e tecnici diretti da un regista generale, a cui verrà attribuita – in modo qui più convenzionale che in qualsiasi altra arte – la responsabilità dell’opera, e dunque la qualifica di autore; tale pluralità di soggetti attivi, in questa prima fase, implica sia persone che verranno riprese (in sostanza fotografate dalla mdp) in ambienti appositamente reperiti e/o scenograficamente allestiti (e che dunque finiranno per far parte delle immagini del testo finale), sia persone impegnate nella realizzazione delle riprese medesime, come curatori della fotografia, tecnici delle luci, del suono, dei costu­mi, scenografi, attrezzisti, e altri ancora; 2) il lavoro di costruzione della pellicola definitiva a partire dai materiali filmici girati sul set, per mezzo di una prassi (montaggio) che è già in sé e per sé una vera e propria arte, in quanto consiste nell’organizzare frammenti linguistici grezzi in un testo organico e coerente, grazie a competenze e consapevolezze non inferiori a quelle che uno scrittore deve porre in campo allorché organizza parole (elementi lessicali e sintattici di una lingua) in una narrazione letteraria; 3) la proiezione sullo schermo della pellicola finale, la qual fase – benché mero dettaglio esecutivo alla portata di qualsiasi meccanismo automatico – risulta indispensabile alla fruizione del testo cinematografico vero e proprio, che (val la pena di sottolinearlo) non coincide con la pellicola in sé, ma esattamente con il quadro luminoso che la pellicola consente di proiettare sullo schermo e con i suoni che a tale quadro sono associati[12].
Ma, accanto a queste tre fasi principali, si devono considerare molti altri momenti (esterni o paralleli ad esse) non meno indispensabili alla produzione di un film – ovviamente uso la parola nel suo senso estensivo, e cioè antonomastico, di opera cinematografica, non in quello meramente letterale e tecnico-materiale di “pellicola di celluloide”. Vi sono infatti stadi di testualità verbale che precedono l’allestimento del set: scrittura del soggetto, cioè di un racconto in senso tradizionale, talora appositamente realizzato come lo può fare un narratore letterario, talaltra reperito nel mare magno della letteratura già esistente; elaborazione – anch’essa scritturale – della sceneggiatura, ovvero di un testo ugualmente verbale che costringe il soggetto all’interno di una gabbia adeguata al linguaggio del cinema (taglian­dolo e suddividendolo in ipotetiche sequenze traducibili in immagini), e altresì stabilisce con provvisoria esattezza i dialoghi parlati, individuando dunque il materiale che rimarrà verbale anche dopo la traduzione del soggetto in narrazione filmica; studi preliminari, da parte del regista e dei suoi tecnici di fiducia, sulle locations in cui i vari set verranno allestiti; reperimento, rielaborazione o anche composizione di testi musicali di supporto estetico-espressivo, che verranno anch’essi impressi sulla pellicola insieme ai dialoghi verbali (registrati a parte o durante la ripresa delle immagini, con microfoni sul set)... Ma il mio elenco potrebbe continuare fino a stancare il più pignolo dei lettori, perché davvero macchinosa e drasticamente polisemiotica è la produzione di un testo cinemato­grafico.
Quel che bisogna tener presente – data la complessità che ho tentato di descrivere – è che voler parlare di autografia o di allografia per il cinema diviene impresa più che mai ardua. Tanto per co­minciare, l’opera finale (il testo fruito dagli spettatori) parrebbe appartenere al regime autografico, sia pure a oggetto multiplo, dato che si tratta sempre e soltanto di quella precisa e immodificabile successione di immagini e di suoni che, nello spazio di quel tempo ben determinato, si materializzano nella sala di proiezione... Ma, in compenso, i materiali che la compongono – essendo riconducibili sia alla “fotografia” (regime autografico) sia alla “verbalità” (regime allografico), sia alla “musica” (regime autografico o allografico a seconda di come la si consideri), sia al “rumore” (nessun regime, direi) – sono da tal punto di vista indecidibili. E anche la differenza (o il rapporto) tra oggettualistico e performativo nel cinema rischia di non essere più una questione molto chiara. Ciò per almeno due buoni motivi: 1) il testo finale è in sostanza qualcosa di fisico (immagini più suoni) ma non tanto oggettuale quanto lo sono le immagini (non certo i suoni) delle arti tradizionali[13]; 2) inoltre, tutto ciò che concorre a produrlo proviene da atti performativi in senso strettissimo (performances degli attori, della mdp, degli operatori di quest’ultima, dei tecnici vari, degli animali e perfino degli oggetti che vengono ripresi), così che un film può anche legittimamente essere inteso come un’unica grande performance collettiva registrata, che non a caso può essere accostata al teatro benché sia destinata a ricadere – appunto – in un testo semi-oggettuali­stico che il teatro non conosce[14].
Performance filmata, sicuro... E però – con ogni evidenza – tale da escludere a priori quell’am­bi­guità a cui facevo cenno all’inizio, riferendomi a certe pratiche di così detta video­arte o a certe sperimentazioni para-teatrali che si ascrivono all’ambito (oggi assai lato) delle arti visive in generale. Nessuno potrà mai di sospettare, infatti, che il cinema allestisca performances (ciò che infatti viene denominato, con chiaro intento limitativo, profilmico) per uno scopo diverso da quello di registrarle su pellicola o su supporto digitale, ottenendo come oggetto estetico – vale a dire come unico ed esclusivo testo fruibile – la registrazione medesima (assai rielaborata): null’altro che la proiezione luminosa, con annessa emissione di effetti acustici, che tali performances rende sì percepibili al pubblico, ma solo a patto di modificarle per mezzo del montaggio e di virtualizzarle completamente, trasformandole, appunto, in immagini e suoni.


                                                                                                Sandro Sproccati
(2009)



NOTITIA TITULI EXPLICATORIA
A esorcizzare gli equivoci, e ancorché un pizzico di mistero nelle cose della mente di per sé non guasti, desidero far rilevare che l’intestazione del presente appunto preliminare (che è infatti tale in relazione a un progetto di piú ampia portata) si deve alla circostanza che ha propiziato in nuce la brama di redigerlo. Τrattasi di una discussione “natalizia”, anzi per la precisione scatenatasi la notte di capodanno 2009, a Comacchio, nell’at­tesa di un brindisi andato poi diserto, una sorta di Cena de le Ceneri in versione gaudente e lagunare, tra i fumi dell’alcool e le code delle anguille, con amici tra i piú cari, che sono inoltre miei sodali nel consesso redazionale di «Rifrazioni»: durante la quale cena, talune mie proterve dichiarazioni mi opposero (sopra tutti) allo stimatissimo Pietro (Petrus) Babina, che è protervo quanto me. Poiché mi pregio di vedere in tali dispute un che di simile alle nobilissime – speriamo! – contese dei teologi patristici, presso cui lo scazzo filosofico non andava a inficiare una piú profonda concordia nel quadro della fede condivisa, ecco, appunto, il titolo: Contra Babinam.



[1] Intanto vanno segnalati però i libri che con maggior merito hanno fatto (o tentato di fare) chiarezza sulla questione: Nelson Goodman, I linguaggi dell’arte, Il Saggiatore, Milano 2003 (edizione originale: 1968), e – sulla scorta di questo, ma con risultati più cauti e articolati – Gérard Genette, L’opera d’arte. Im­manen­za e trascendenza, Clueb, Bologna 1999 (edizione originale: 1994).
[2] Ma pressoché illimitate – occorre aggiungere – sono le estensioni modali che la prassi artistica con­tem­poranea ha proposto in sede di nuovi linguaggi dell’evento e dell’azione. Tanto che, oggi, si devono ritenere addirittura più numerosi gli artisti che, nell’ambito delle così dette “arti visive”, si esprimono con tali mezzi per­formativi rispetto a coloro (pittori, scultori, grafici, ecc.) che realizzano opere oggettuali in senso pro­prio.
[3] È necessario qui accettare e rimarcare uno dei princìpi costitutivi della semiotica saussuriana, e cioè che il significante linguistico è sempre necessariamente costituito da un fenomeno fisico, anche se eventualmente (e proprio il linguaggio verbale fa testo su ciò) sonoro o luminoso o di qualunque altra natura, e non per forza una “cosa” nel senso banale del termine.
[4] Diciamo anche che nessuno dovreb­be poterlo fare esattamente come a nessuno spettatore di cinema è concesso di poter “fruire” ciò che avviene sul set (e più in generale nell’ambito della sfera “profilmica”: riprese, laboratorio di montaggio, ecc. ecc.) come se ciò equivalesse vedere il film in una sala cinematografica.
[5] Cfr. Goodman, I linguaggi dell’arte, cit.
[6] In base all’ulteriore classificazione proposta da Genette, L’opera d’arte. Im­manenza e trascendenza, cit.
[7] Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966 (edizione originale: 1936).
[8] Tanto che Goodman utilizza esattamente il criterio empirico della “falsificabilità” per riconoscere le opere autografiche e per distinguerle a colpo sicuro dalle allografiche. Le prime sono falsificabili, dato che copie (presunte identiche) dell’oggetto-opera non equivalgono ad esso ma tendono piuttosto a spacciarsi per esso, quasi sempre per scopi fraudolenti, mentre le seconde non sono falsificabili, dato che loro copie (identiche o meno, non importa) non tendono mai a spacciarsi per falsi originali, ma si dànno invece come esemplari tutti equivalenti di un oggetto che è di per sé infinitamente replicabile.
[9] Non si deve qui confondere il valore antiquario del manoscritto originale di Bruckner con il suo valore estetico in sede musicale, che non è superiore a quello di qualsiasi sua trascrizione a mano o a stampa.
[10] Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1968 (edizione originale: 1938).
[11] Per un sunto delle più avvertite precisazioni circa la posizione di Artaud in merito al problema trattato cfr. Umberto Artioli, Francesco Bartoli, Teatro e corpo glorioso. Saggio su Antonin Artaud, Feltrinelli, Milano 1978. Fondamentali nella loro chiarezza sono poi i saggi di Jacques Derrida compresi in La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1982 (Il teatro della crudeltà e la chiusura della rappresentazione e Artaud: la parole soufflée).
[12] Non è il caso, credo, di andare ad affrontare in questa sede quali penalizzazioni o variazioni ricettive rechi con sé la possibilità, intervenuta solo da pochi decenni a questa parte, di fruire il quadro cinematografico sullo schermo di un televisore o, in tempi ancor più recenti, sul monitor di un computer.
[13] Il quadro pittorico, ad esempio, è fatto di pigmenti cromatici materialmente fissati su un supporto fisico, mentre il quadro cinematografico è fatto di luce proiet­tata (e sia pure su un supporto ugualmente fisico), di modo che se il quadro-dipinto è una cosa concreta, maneggiabile, trasportabile, possedibile, il quadro-cinema è una specie di cosa virtuale che si smaterializza ogni qual volta cessa di essere fruita nelle circostanze precise della sua ostensione al pubblico
[14] Vi è poi, a dire il vero, anche il caso del teatro filmato, in base a varie modalità e gradazioni di complessità linguistica: dal semplice film documentario che riproduce, estendendone la fruibilità, un testo teatrale più o meno così come l’avrebbe potuto recepire uno spettatore il quale, quel giorno in quel luogo, avesse avuto gli occhi e le orecchie nella posizione della mdp, a opere originali di cinema-teatro quali sono quelle a cui si sono dedicati, per fare due soli esempi, Ingmar Bergman (Il flauto magico) o Joseph Losey (Don Giovanni), e non dimenticando gli esperimenti vari che hanno prodotto in tal senso alcuni registi d’avan­guar­dia come Derek Jarman.

 

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