lunedì 27 settembre 2010
domenica 26 settembre 2010
MONTAGGIO SCOMBINATO
Macrostrutture della narrazione cinematografica: il racconto multiplo a montaggio scombinato
(pubblicato in «Rifrazioni», n.3, Bologna, 2010)
Nella letteratura dell’Occidente la prassi delle acronie narrative è reperibile fin dalle piú remote origini. L’Odissea, ad esempio, inizia platealmente in media res, vale a dire con il protagonista già prigioniero di Calipso, cosí che solo giunto al Canto IX il lettore – grazie a un’ampia e potente costruzione analettica –potrà apprendere dalla bocca dell’eroe il resoconto (proferito a beneficio dei Feaci) che gli consentirà di risalire all’inizio della storia, vale a dire alla partenza di Odisseo da Ilio e alle prime avversità del suo tormentatissimo viaggio verso Itaca.
Nello sviluppo della narrazione cinematografica, invece, il flash-back – che è la piú semplice e primitiva forma di acronia – deve essere considerato una conquista relativamente tarda, collocabile in epoca comunque post-griffithiana, se è vero che per trovarne un primo esempio compiuto ed efficace occorre attendere il 1919, ossia Il gabinetto del Dottor Caligaris (Robert Wiene), nel quale alcuni eventi sono immaginati come annotati sopra un vecchio taccuino, e pertanto vengono visualizzati da una sequenza filmica che li restituisce allo spettatore dopo che questi ha già appreso il loro séguito[1].
La narratologia genettiana[2] affronta i problemi di ordine del racconto muovendo dal principio secondo cui esiste una “normalità di stato”, ossia un grado zero a livello narrativo che coincide con la condizione per cui il tempo del racconto e quello della storia si muovono in parallelo tra loro[3]. Si tratta di una condizione – per cosí dire – del tutto naturale, dato che risponde alla tendenza, nella vita di tutti giorni, a riferire una serie di eventi accaduti iniziando dal principio (della successione cronologica dei fatti) e procedendo verso la fine (della medesima). Una simile inclinazione produce ciò che è da indicarsi come linearità del racconto, una sorta di vincolo aprioristico rispetto a cui dovranno essere considerate acronie (nient’altro che figure retoriche[4] di tipo narrativo) tutte le diversioni (trasgressioni) operate contro di esso o, in altri termini, tutti gli scarti (écarts) da ciò che costituisce la linearità, dunque l’ipotetico “grado zero” narrativo.
Genette ha chiamato analessi le acronie che prevedono una “retrocessione” del racconto, ossia il recupero di eventi accaduti prima di altri già narrati, e prolessi quelle che prevedono una “anticipazione”, ossia il resoconto di eventi accaduti dopo quelli che sono ancora da narrare. Le analessi in letteratura sono talmente frequenti (come del resto anche nel cinema) che non vale la pena di citare ulteriori esempi dopo quello dell’Odissea di cui dicevo, mentre il caso forse piú puro e significativo di prolessi, nel romanzo classico moderno si trova all’inizio de La morte di Ivan Ilič di Lev’ Tolstoj, dove il narratore dedica il primo capitolo alla descrizione di un fatto (Ivan Ilič è morto) di cui il racconto, in uno sviluppo diacronico che occupa tutti gli altri undici capitoli, andrà in seguito a fornire i motivi, i precedenti, i sintomi e le premonizioni, secondo un criterio di progressiva ricostruzione postuma del fatto medesimo.
Nel cinema situazioni del tutto analoghe (ossia autentiche prolessi) sono reperibili – per fare solo due esempi – in capolavori come Rebecca la prima moglie (Hitchcock, 1940) e Viale del Tramonto (Wilder, 1950). Nel primo dei due films un lungo piano-sequenza iniziale mostra l’avvenuta distruzione del palazzo di Manderley, vale dire l’esito conclusivo di una vicenda di cui poi la pellicola (dalla seconda sequenza in poi) andrà a narrare il percorso. Nel secondo – che contempla un vero e proprio guizzo di genialità elocutiva – abbiamo un protagonista che annuncia in apertura il ritrovamento di un cadavere in una piscina, e poi inizia a riferire – in prima persona (voice-over intradiegetica) – il concatenarsi delle vicende che porteranno a quella morte e a quel ritrovamento, lasciando di stucco lo spettatore con la rivelazione (finale) che il morto (iniziale) è precisamente lui stesso, ossia colui che sta narrando.
Ora, la distinzione tra analessi e prolessi è in verità meno scontata di quanto si potrebbe credere, dato che si tratta anche di una questione di punti di vista: a seconda che si consideri come “racconto primario” una certa parte del testo piuttosto che un’altra, sarà possibile, e opportuno, definire quell’altra (acronica rispetto alla prima) come una prolessi ovvero una analessi. È chiaro infatti che, di solito, è il buon senso (nient’altro che l’assai poco scientifico e poco rigoroso buon senso) a dirci quale è il “racconto primario” e quali sono dunque, rispetto ad esso – ma solo rispetto ad esso ovviamente! – le analessi e le prolessi, dato che in fin dei conti il buon senso, e nient’altro che il buon senso, impedisce di considerare come “racconto primario” le prime otto pagine di un romanzo (La morte di Ivan Ilič) che ne conta piú di sessanta.
Tutto ciò per notare che anche “moderate” occasioni di rottura della linearità (presenti in tutto il cinema classico, anche di target popolare) possono prestarsi ad aprire, in sede di analisi critico-narratologica, problemi di impervia natura, i quali corrispondono, com’è ovvio, a nette conseguenze fruizionali ed estetiche, dunque a pregi (e talora a difetti) del testo. Lo sbalorditivo meccanismo allestito da Bergman in Persona (1966) – in base al quale noi assistiamo per due volte consecutive alla resa filmica del medesimo monologo (stesse parole, stesso sonoro e dunque stessi toni della voce) che un’infermiera psicologa impone alla sua muta paziente, e dove ciò che varia tra la prima e la seconda volta è solo la posizione della cinepresa, dato che la prima volta è inquadrato il volto dell’infermiera e la seconda quello della malata – dimostra come la categoria delle acronie (almeno al cinema) travalichi di gran lunga il campo specifico delle analessi/prolessi, divenuto insufficiente a comprendere la vasta panoramica delle crisi del racconto lineare. Ciò almeno dal settimo decennio del secolo scorso, cioè dall’epoca di Persona e della Nouvelle Vague (Godard sopra tutti).
Val la pena di aggiungere che in Persona la figura di ripetizione, il fatto cioè due brani consecutivi di testo vadano a coprire una sola e medesima porzione di storia narrata, si motiva splendidamente nell’esigenza (per Bergman irrinunciabile) di “mostrare” i volti di entrambi i personaggi durante quel monologo cruciale, di fortissima intensità drammatica, senza dover per forza scegliere uno dei due o senza dover abdicare alla caparbietà di uno sguardo indagatore in primo piano. Il campo-controcampo, in un caso simile, avrebbe infatti tolto alla sequenza gran parte della sua micidiale efficacia, e Bergman lo ha evitato esattamente come si evita il banale per attingere al sublime! Tale ripetizione è ciò che gli ha consentito di “giocare” su una sorta di geometrica corrispondenza tra i due volti, arricchendo la sequenza ripetuta di un incanto ulteriore – uno splendore geometrico e meccanico appunto! – basato sulla simmetria delle due riprese, entrambe costruite (dopo l’incredibile fiat sonoro di un gong extradiegetico) secondo uno stesso processo visivo, ossia partendo dalla medesima distanza e angolazione della macchina da presa (mani delle donne), procedendo con lo stesso spostamento verso il volto di tre quarti, poi con lo stesso avvicinamento progressivo al volto in primo piano, e giungendo infine al medesimo ritratto frontale in dicotomico chiaro-scuro (mezzo viso in luce, mezzo in ombra), per chiudere con il suggello (solo alla fine del secondo brano, e dunque alla fine dell’intera sequenza) della fusione dei due volti in uno solo. Come dire: due metà della stessa “persona”!
Esempi splendidi di cinema a forte difficoltà narratologica, sui piani dell’ordine e della durata del racconto[5], si trovano poi in opere come Quarto potere di Orson Welles (1941) e Rapina a mano armata di Stanley Kubrick (1955). In Quarto potere, il pretesto narrato-strutturale del “falso documentario”, vale a dire la presentazione di una biografia operata a partire da un montaggio di frammenti che vengono dati come “ritrovati” (indiziariamente ricostruiti dalle testimonianze di coloro che hanno conosciuto il cittadino Kane), produce la grande innovazione di un tempo del racconto che non segue – nemmeno in maniera residuale – la cronologia delle vicende descritte (tempo della storia), ma si muove liberamente tra il prima il dopo “storici” con fare pressoché anarchico, tra l’altro parodiando (e dunque facendo esplodere) la lingua dei cinegiornali dell’epoca. In altri termini, la scelta wellesiana, ovviamente destinata (nel 1941) a lasciare sbalorditi gli spettatori di tutto il mondo, fu di proporre un testo narrativo come si trattasse di una vera e propria inchiesta giornalistica (quanto mai adeguata al proprio oggetto: il tycoon della carta stampata Charles Foster Kane) basata tuttavia su materiali audiovisivi. Sotto tale aspetto Quarto potere non differisce da opere cinematografiche recenti, ugualmente strutturate come pseudo-reportages giornalistici, come ad esempio Grizzly Man di Werner Herzog (2005). Ciò attesta un impressionante valore fondativo del lavoro di Welles. E però, occorre dirlo, l’analogia si limita all’aspetto del rifiuto radicale della linearità del racconto, che è senza dubbio il dato di piú macroscopica evidenza per entrambe le opere. Tale analogia non può infatti mettere in ombra quanto di originale e di rivoluzionario Grizzly Man offre in proprio: Herzog non ha “inventato” la storia, come Welles, non ha finto di averla trovata e giornalisticamente ricostruita (come accade per altro anche in certi romanzi classici), ma ha invece realizzato un assai speciale reportage (in senso stretto) su una vita umana realmente esistita, tentando la fedeltà del biografo scrupoloso, ossia utilizzando materiali audiovisivi altrui e realmente documentaristici (le riprese a videocamera fatte dall’uomo degli orsi, che Herzog ha potuto acquisire dopo la morte di costui), e ha allestito quindi una sorta di ready-made cinematografico, sapientemente capace di restituire in presa diretta il vissuto autentico di un determinato individuo e tuttavia montandolo secondo l’estro di una vena narrativa (un gusto della fiction) che appartiene a Herzog da sempre. Grizzly Man è pertanto ciò che Quarto potere non poteva essere: un capolavoro di affabulazione ambigua basato su una spregiudicata contaminazione dei generi, e anche – se vogliamo – la prova (dopo i precursivi esperimenti di Dziga Vertov) che la distinzione tra cinema “narrativo” e cinema “documentario” può anche essere poco piú che un obsoleta abitudine classificatoria.
Quanto a Rapina a mano armata di Kubrick, si deve osservare che questa formidabile prova del grande regista americano[6] coniuga, nel suo capitolo narratologicamente piú importante, il “racconto ripetuto” di Persona (anticipandolo) con la costruzione “a reportage” di Quarto potere. La sequenza (o insieme di sequenze) che mi piace chiamare della settima corsa, giustamente collocata nel cuore del film, presenta la ripetizione ossessiva di un unico frammento storico-cronologico, ossia la ripetuta narrazione di un medesimo intervallo di tempo, il quale va dal momento in cui all’ippodromo (dove la rapina si svolge) viene annunciata la settima corsa della giornata[7] fino a un imprecisabile (anche perché ogni volta diverso) momento successivo... In sostanza, è come se, giunto a un certo punto del suo sviluppo, il racconto si inceppasse e non potesse che tornare indietro, per ri-descrivere con maggior ampiezza l’accaduto (la storia), ogni volta inquadrandolo da un punto di vista diverso... Si tratta, da parte di Kubrick, di una dichiarazione di principio molto audace e destabilizzante, sebbene del tutto inoppugnabile: nessun atto testuale narrativo è cosí efficace da poter coprire in modo esauriente la complessità dei fatti (siano essi realmente accaduti o presunti tali da una finzione), dato che il reale (vero o fittizio che sia) è in sé molteplice e articolato – troppo complesso appunto – e quindi al limite indescrivibile, inconoscibile. Pertanto, laddove la restituzione (almeno parziale) di quella complessità si renda indispensabile alla minima comprensione, il narratore non potrà far altro che rifiutare la linearità del racconto e tornare piú volte sulle proprie tracce, sul proprio già detto, ciascuna volta completando e aggiungendo informazioni o anche, in certo qual senso, correggendo interpretazioni precedentemente fornite[8].
Chiaro che con tutto ciò il flash-back classico ha pochissimo a che vedere, e anche parlare di analessi pura e semplice sarebbe erroneo... Una figura di questo tipo – dico il “racconto inceppato” di Rapina a mano armata – non è infatti compresa nello schema fornito da Genette, dato che ogni frammento (ogni ripetizione della sequenza) è al tempo stesso risarcitivo e anticipatorio, inestricabilmente analettico e prolettico, e neppure gli aggiustamenti operati da Christian Metz in materia di macrosintagmatica del linguaggio cinematografico[9] riescono a renderne conto in modo apprezzabile, ossia a dare di tale figura una definizione chiara e comprensibile, assestandola all’interno di una precisa elaborazione teorica.
Relativamente recente è l’idea di costruire un film raccontando in parallelo piú storie tra loro separate, non comunicanti, e dunque vagando dall’una all’altra senza apparente coerenza diegetica, per costringerle poi magari a ricongiungersi tutte in un unico esito successivo, vale a dire facendo in modo che situazioni (trame) dapprima autonome si scoprano interconnesse – magari grazie a un evento il quale, con il suo inverarsi, le metta tra loro in comunicazione – e dunque risultino far parte, ma solo a posteriori, di una trama unica, la quale sarà in grado di restaurare (di conseguenza) la dimensione temporale della storia[10].
L’esempio cinematografico piú persuasivo di racconto cosí concepito si trova nella pellicola di Robert Altman America oggi, che è del 1994 (solo quindici anni fa). Tale prassi, tuttavia, generatrice di quel che si potrebbe chiamare “racconto multiplo”, non implica vere e proprie rotture della linearità, dato che da un lato (a) nulla permette di evincere dal passaggio da una trama all’altra, e dai continui ritorni su trame già intessute – da questo nomadismo dello sguardo dell’autore, insomma – sicure inosservanze della successione temporale della storia complessiva, e (b) nessuna delle trame, se presa in se stessa, ossia se ricostruita nella sua integrità sommandone gli spezzoni uno dopo l’altro (nello stesso ordine in cui il film li presenta), prevede al proprio interno aspetti analettici o prolettici o qualsiasi altra inversione dell’ordine cronologico.
I films di Alejandro González Inarritu – dove è per altro ben visibile il contributo creativo di Guillermo Arriaga, soggettista e sceneggiatore con ampie corresponsabilità – pongono in evidenza un ulteriore salto di qualità in materia di complessità strutturale della narrazione, e dunque di costruzione macrosintagmatica. Il che a mio avviso, sia chiaro fin d’ora, non implica necessariamente un parallelo salto di qualità in sede estetica... E anzi, proprio quest’ultimo aspetto, vale a dire il pregio di tali opere cinematografiche – ma solo dal punto di vista narratologico di cui sto trattando – è ciò che vorrei di cercare di discutere: non tanto per formulare giudizi sul lavoro di Inarritu, quanto piuttosto per capire fino a che punto scelte di quel tipo (che si potrebbero riassumere nel concetto di “racconto multiplo a montaggio scombinato”) contribuiscano a rafforzare il potere espressivo e l’interesse artistico dei suoi film.
Tra di essi prenderò in considerazione solo Amores perros (2000), la prima e credo il piú interessante tra i lavori finora realizzati dal duo Inarritu-Arriaga. Per rendere conto dello speciale profilo narratologico (macrosintagmatico) di questo film, si dovrà innanzi tutto osservare che esso si apre con il racconto anticipato (prolessi) dell’incidente automobilistico intorno al quale tutto il testo ruota, grazie al quale cioè le diverse linee di sviluppo degli eventi tematizzati si incontrano e danno corpo alla storia complessiva della pellicola. Esso, infatti, mette in comunicazione i dapprima lontani e incomunicanti “dati” relativi alla vita delle coppie Octavio-Susana, Daniel-Valeria, El Chivo-Maru, ovvero tre vicende umane separate che non si sarebbero mai potute tra loro congiungere altrimenti. E qui interviene un’ambiguità formale che è il caso di sottolineare. La pellicola presenta titoli diversi per ciascuno dei tre “episodi”, con veri e propri stacchi e diciture a tutto schermo su fondo nero, come avviene tradizionalmente nelle pellicole comprensive di piú opere (magari firmate da diversi autori, come Rogopag o Capriccio all’italiana, per citare solo sue esempi). D’altronde, si tratta pur sempre di “storie” relative a persone che non si conoscono, anche perché appartengono a classi sociali non conciliabili tra di loro, tanto che la regia (incrementando l’effetto d’ambiguità) applica registri stilistici differenti a ciascuno degli “episodi”, quasi fossero messi in gioco tre diversi autori oltre che tre diversi testi. Ciò che raccoglie tali capitoli, ricucendoli nella prospettiva di un solo film a trama omogenea, è esattamente quell’evento catastrofico (l’incidente d’auto) reso possibile da un quadro di convivenza antropologica che comprende tutte le separatezze e può finire per ridurle (talvolta, cioè in questo caso) a destino comune: lo sterminato contesto megalopolitano di Città del Messico.
La sequenza della fuga in automobile – i cui motivi remoti sono per altro correlati al ruolo che presso tutte e tre le situazioni-coppia gioca l’amore per i cani – funge dunque da collante per una solamente “plausibile” trama unica... Quasi piú un’ipotesi, insomma, che un dato di fatto, poiché per giunta non è possibile stabilire fino a che punto l’unitarietà sia relativa agli elementi presunti reali della storia o non sia piuttosto tutta situabile al livello del racconto, il quale in tal modo li forzerebbe alla propria logica sovrana. Come dire: è la vita che mette in comunicazione le persone tra loro (i cani, gli incidenti d’auto causati dall’amore per i cani) o non è invece la volontà di chi la vita osserva – in questo caso: del narratore extradiegetico – a scorgere e a costruire con i mezzi del linguaggio, e cioè a posteriori, un’unità a tutti i costi, e dunque a conferire senso (ordine, direzione...) al non-senso e al caos della realtà?
Dopo il prologo di cui si diceva, la narrazione della fuga si ripeterà altre due volte per intero (identica, se non fosse per sottili variazioni di punto di vista e code di completamento) e ancora altre due volte per mezzo di ulteriori richiami parziali, dato che tutto ciò a cui assistiamo conduce lí oppure parte da lí. Ma questo tutto è a sua volta spezzettato in molteplici frammenti, che si susseguono nel testo secondo un ordine temporale (quello del testo stesso, ossia dello svolgersi della pellicola nel proiettore) che solo in parte rispetta il desumibile sviluppo cronologico dei fatti narrati. Desumibile, ho detto. Perché solo tramite l’aiuto di una logica che si applica dal di fuori, ossia che lo spettatore è chiamato a mettere in campo, diventa possibile mettere ordine (ancora una volta: conferire senso) a ciò che “accade”, o piuttosto a ciò che “si ritiene che accada”.
Ci sono i fatti – sembra sostenere il film, i fatti nella loro brutale e immediata occorrenza – privi di tempo narrativo giacché in sé privi di racconto. Essi vengono prima del racconto! E poi c’è un narratore che li concatena, che li sistema, che dà loro un senso. E per farlo il narratore chiede la partecipazione attiva di un fruitore complice, capace di collaborare alla buona riuscita dell’operazione artistica. Senza tale complicità nemmeno la piú banale delle analessi sarebbe in effetti ammissibile... Il narratore non è l’unico responsabile, dato che il lettore deve collaborare con lui, e Amores perros non fa altro che chiedere al lettore una collaborazione quanto mai robusta, una partecipazione intellettuale di livello alto, perché – in fondo – è precisamente una facoltà del fruitore dare senso al testo. Certo Inarritu-Arriaga forniscono appigli, aiuti alla ricostruzione (ma si potrebbe anche dire che allestiscono esche, trappole perfino, che giocano sporco), dato che sovente lasciano trapelare all’interno dei uno dei racconti eventi appartenenti a un altro: qualche volta semplicemente inserendo una breve sequenza estranea tra due sequenze che sarebbero omogenee (contigue) se la prima venisse espunta, altre volte creando vere e proprie zone di osmosi, in cui per un breve tratto le storie si incontrano e i personaggi irrelati si incrociano tra loro. L’effetto è di per sé altamente fastidioso, dato che è impossibile – a quel punto del film e non conoscendo il resto – capire che cosa accade. Ma appunto, allo spettatore è concesso e richiesto di formulare ipotesi, di misurarsi con il proprio stesso desiderio di capire (di con-prendere, di tenere insieme), e anche di esercitare facoltà mnemoniche e deduttive che in seguito verranno utili. In seguito, appunto: quando il mosaico comincerà a comporsi e dal caos inizierà ad emergere un ordine, meglio ancora: un destino. Quello straordinario e inopinabile destino che costringe un auto a schiantarsi contro un’altra, e tre storie diverse a incontrarsi, e da quell’incontro a ricevere (ciascuna di esse) una “spinta” che ne muterà il significato.
Solo a titolo esemplificativo, do qui un resoconto della struttura macrosintagmatica della parte iniziale del film, riferendone l’esatta successione sequenziale. Si noterà che la tecnica di montaggio applicata in Amores perros prevede uno schema geometrico di sistematica interruzione e ripresa delle scene, nel senso che ciascuna delle tre sequenze su cui verte il primo episodio (Octavio e Susana) è interrotta dalle altre due uno stesso numero di volte... in un gioco di incastri ad alta precisione ludica (oltre che ritmica)! Fermo restando il fatto che occorrenze apparentemente gratuite (irrelate) che sono riferibili agli altri due episodi (Daniel e Valeria, El Chivo e Maru) vengono inserite in luoghi strategici, come per richiamare quell’esigenza (tutt’altro che di facile soddisfazione) di aristotelica unità drammaturgica (di tempo, di luogo, di azione) che il racconto, infatti, andrà in seguito e in qualche misura a restaurare.
1. Prologo. Sequenza della fuga in auto con incidente finale. Tempo: alla metà circa dello sviluppo della storia.
Primo episodio: Octavio e Susana
2. Prima sfida di cani nel “cinodromo”, vince il cane del Biondo. Tempo: inizio della storia.
3. Susana rientra a casa, il cane di Ramiro esce, la bambina di Susana sta con la baby-sitter. Tempo: inizio della storia, in presumibile contemporanea a 2.
4. El Chivo gira con i suoi cani e il carretto in cerca di rottami (preambolo al Terzo episodio). Tempo: inizio della storia, in contemporanea presunta a 2 e a 3.
5 (2). Seguito della prima sfida cani... è la sequenza 2 che continua.
6 (3). Rientra in casa Octavio, dialoga con Susana, poi rientra anche di Ramiro, marito di Susana e fratello di Octavio, e litiga con Susana... è la sequenza 3 che continua.
7 (2–5). Il Biondo e i suoi amici , dopo la sfida, escono con il cane, per un attimo incrociano il Chivo con il suo carretto (intersezione con il Terzo episodio), quindi incontrano Cofee, il cane di Ramiro... è la sequenza 2–5 che continua.
8 (3–6). Susana si reca in camera di Octavio e lo ringrazia per averla difesa da Ramiro... è la sequenza 3–6 che continua.
9. Nuovo brevissimo inserto dal Terzo episodio: El Chivo guarda la foto dell’uomo che deve uccidere e carica la pistola. Tempo indeterminato... Non c’è continuità sequenziale con i precedenti (4 e 7). Si suppone in contemporanea a 8.
10 (3–6–8). Octavio esce dalla camera e sulla porta di casa apprende che Cofee ha sgozzato il cane del Biondo, il quale arriva e lo minaccia... è la sequenza 3–6–8 che continua, ma viene qui ripresa e portata a termine (per incrocio logico) anche la sequenza 2–5–7.
11. Octavio pranza in casa, giunge a tavola anche Ramiro. Tempo indeterminato, ma successivo alle precedenti sequenze, rispetto alle quali c’è stacco cronologico.
12. Nuovo inserto (anticipo) del Terzo episodio: El Chivo si muove nei pressi del ristorante dove sta pranzando la sua vittima, poi la uccide e fugge. Tempo indeterminato, ma successivo a 9... si può supporre in contemporanea a 11.
13. Preambolo al Secondo episodio: Daniel rientra a casa con la moglie e i figli, riceve telefonate “mute” (si saprà poi che è l’amante Valeria che lo cerca). Tempo: del tutto indefinibile rispetto a quanto precede (nel film).
Mi fermo. Si tratta dei soli primi 16’ di una pellicola che dura 2h e 23’ (titoli di coda esclusi). Sufficienti tuttavia a dare un’idea della problematicità della sua costruzione. Si deve anche notare, per completezza, che tutti gli spezzoni (le sequenze effettive) sono a loro volta “montati” ossia sono costituiti da “piani” cinematografici da brevi a brevissimi... Ma è un aspetto che qui interessa meno. Quel che importa è sottolineare piuttosto che il racconto in Amores perros avrebbe (forse) potuto essere realizzato in modo da rendere assai meno “faticosa” la sua lettura, per esempio riunendo (per ciò che concerne la parte testé analizzata) gli spezzoni 2–5–7 e gli spezzoni 3–6–8–10 in due sequenze effettive, ossia non interrotte, passando poi alla sequenza 11 (che cosí diverrebbe la 3) ed espungendo i richiami (gli anticipi) agli episodi successivi (4–9–12, terzo episodio; 13, secondo episodio) per inserirli, a loro tempo, nei rispettivi luoghi di competenza, ossia nella seconda e nella terza parte del film. Il problema è: che cosa perderebbe l’opera in valore estetico se la sua sceneggiatura fosse cosí concepita?
Tre sole osservazioni, a mo’ di risposta (certamente) parziale e provvisoria. 1°. Ricombinare tra loro gli spezzoni in modo da rendere meno frammentario il rapporto tra tempo del racconto e tempo della storia è certamente possibile, ma solo a patto di rinunciare a qualche passaggio (laddove vi sono gli incroci tra una linea diegetica e l’altra) o a patto di risolverlo in modo differente, ovvero con escamotages che finirebbero per sottrarre completezza discorsiva al film. 2°. Proprio tentando, o anche solo immaginando, una simile procedura di “restauro forzato” della linearità del testo, ci si rende conto che è una prerogativa del linguaggio cinematografico (in quanto successione di immagini) poter lavorare su simili scombinamenti e sovrapposizioni, e che altri mezzi linguistici – data la natura piú “astratta” del materiale significante di cui dispongono – difficilmente potrebbero reggere la (chiamiamola cosí) polifonia architettonica di Amores perros senza far incappare il fruitore in ben piú gravi problemi di ricezione. Da ciò consegue che (3°) il film di Inarritu-Arriaga è del tutto legittimamente proteso verso una ricerca di potenziamento delle facoltà espressive del mezzo che utilizza, e che se il risultato in prima battuta è di rendere tanto difficile la lettura da imporre al fruitore almeno una seconda visione chiarificatrice, ciò non vuol dire che si tratti per forza di qualcosa di emendabile o comunque di negativo, se è vero (ad esempio) quel che dicono testimonianze d’epoca circa la prima opera di Godard (A’ bout de souffle, 1960), un film che anche i piú smaliziati spettatori percepivano al primo approccio – per quanto concerne la trama, vale a dire la ricostruzione delle vicende narrate – come un estenuante voyage à bout de la nuit, un’esperienza al limite della piú buia incomprensibilità.
Sandro Sproccati
[1] Ancorché, a dirla tutta, non si tratti in questo caso neppure di un vero e proprio flash-back, dato che il racconto interno non è affatto sostenuto da un personaggio-narratore e dunque rimemoratore, ma proprio e soltanto di una analessi a pretesto qualsiasi, il taccuino e ciò che sopra sta scritto: una retrocessione cronologica nel senso piú generale del termine.
[2] Gerard Genette, Figure III. Discorso del racconto, ed. it. Einaudi, Torino 1976 (ed. fr. 1972).
[3] Tempo della storia: il susseguirsi cronologico (diacronico) delle vicende narrate, che dalla finzione narrativa vengono proposte come realmente accadute. Tempo del racconto: il susseguirsi dei significanti o elementi di testo nel corso della narrazione realizzata con mezzi espressivi diacronici, come il linguaggio verbale e quello cinematografico. Per i problemi di ordine del racconto cfr. Genette, Figure III cit. pp. 81-134.
[4] Da Barthes in poi la retorica è concepibile come luogo (e studio) delle eccezioni all’uso “normale” del linguaggio, ossia delle trasgressioni (intenzionalmente operate per lo piú a fini estetici) di norme stabilite dai codici linguistici. Cfr. Roland Barthes, Il grado zero della scrittura. Nuovi saggi critici, Einaudi, Torino 1982 (ed. fr. 1953), e poi Gruppo µ, Retorica generale. Le figure della comunicazione, Bompiani, Milano 1980.
[5] Nella proposta di Genette i problemi di durata sono quelli relativi al rapporto tra l’estensione del testo (tempo del racconto) e l’ampiezza della porzione di storia che vi corrisponde (tempo della storia), ossia che è da esso narrata. Cfr. Genette, Figure III cit., pp. 133-161. Osserverò che per quanto riguarda il cinema è assai agevole individuare unità omogenee a livello di tempo della storia (una sequenza di un film è sicuramente tale) e valutare quale rapporto esse vengano a intrattenere con l’estensione cronologica dei brani di racconto che le rappresentano. Ad esempio, una ripresa in continuità (priva di tagli) implica necessariamente l’effettiva identità di estensione dei due tempi (a tot minuti di pellicola corrispondono tot minuti di tempo narrato – ciò che Genette per il romanzo chiama scena), e quando una ripresa in continuità risolve da sola un’intera sequenza avremo il cosiddetto piano-sequenza. Se invece si considera un frammento di racconto (un tratto di pellicola) capace di coprire un’intera sequenza ma non costituito da un’unica ripresa (vale a dire “montato”) saremo di fronte alla situazione che Genette chiama sommario, nell’ambito della quale il tempo del racconto è necessariamente inferiore al tempo della storia (poniamo: 35 minuti di pellicola per 4-5 ore, presumibili, di vicenda rappresentata: la sequenza del “ballo” nel Gattopardo di Visconti). Ovvio che la quasi totalità dei testi cinematografici, non essendo realizzata tramite un unico piano-sequenza, produce il sommario come condizione complessiva. Ma, ancora per esemplificare, un brano di testo realizzato per mezzo di una lunga ripresa al ralenti (è quanto accade in Arancia meccanica di Kubrick, nella sequenza in cui Alex riconquista il potere sui Drughi) andrà a costituire una situazione che è l’esatto opposto del sommario, dato che in quel brano il tempo del racconto sarà inevitabilmente maggiore del tempo della storia. Cfr. anche Robert STAM, Robert BURGOYNE, Sandy FLITTERMAN-LEWIS, Semiologia del cinema e dell’audiovisivo, ed. it. Bompiani, Milano 1999, cap. III.
[6] Si tratta del suo terzo lungometraggio, dopo Paura e desiderio (1953) e Il bacio dell’assassino (1955), ma sicuramente del suo primo capolavoro.
[7] Ed è tale annuncio, fatto dallo speaker nell’altoparlante dell’ippodromo («E ora diamo il via alla settima corsa!») ossia un elemento di natura fonica, a fornire ogni volta al fruitore la certezza che il racconto è tornato indietro. Anche in Persona (1966) sarà un elemento auditivo (ma là simbolico e non diegetico), ossia il suono del gong, a sancire la ripresa del già narrato.
[8] E si noti che non si tratta affatto di aggiunte e correzioni mosse a partire da “racconti nel racconto”, come avviene in Rashomon di Akira Kurosawa (1950), dove sono testimoni piú o meno attendibili, ma inevitabili portatori di visioni “soggettive”, che – narrati come narratori interni – espongono diverse versioni dell’accaduto. Qui, nel film di Kubrick, è esattamente e soltanto il narratore complessivo (extra-diegetico) ad assumersi la responsabilità di riferire il passato a piú riprese, e in modi diversi, sfuggendo cosí alla tipologia consueta della metadiegesi analettica, vale a dire anche a quella fortemente scioccante (giacché multipla e contraddittoria) che Kurosawa aveva inventato per Rashomon.
[9] Christian Metz, La significazione nel cinema, ed. it. Bompiani, Milano 1995 (ed. fr. 1972).
[10] Qui si ha anche la piú chiara dimostrazione della differenza sostanziale – di cui nessun realismo estetico ha mai potuto o voluto tener conto – tra il piano della cosí detta realtà, con il suo accadere frammentario e caotico, privo di “direzione”, e la natura propria della narrazione, che è gioco forza discorso e, in quanto tale, non può che “orientare” il caos secondo logiche intellettualmente comprensibili, razionali, ovvero in un ordine (un senso) ben strutturato, diegetico.
SACRAMENTA (2002)
Sacramenta
[2002]
1. La malafica
— Serrata in ammalie tante o male leve, laviche bordure di venticose púlipe, o vetero pertugio (inane) di male idee, te ne vieni ora a perorare, qui, male — male che ti colga, a te megera triste!
— Ventricolare oracolo fallace e falso, immonda fauce che sproloquia, idee, non sue, non d’altri, non certo di quel fallo (non mai esperito, dico), ma di ignobile ostentato istinto, della depravazione.
— Dito che ti percorre a sostituto, che ti deflora ad artificio, che idee ti slabbra in nere gole deplorate, in recessure, in fichi secchi alle tue nozze convolati, tra pochi e troppo pochi biechi a scontornare (idee), diabolico mingegno, orlo, marchingegno mai statuto o pattuito...
— La malafica si protende, il muso è duro, gli spigoli che accentua, le forme dice che riforma informi, e non dice e non tace (lei) ma accenna, sentenze che blatera a sproloquio, a blessura di indefessi sfasci, e fascio che l’avvolge tutta.
— Umori e non amori sempre, giammai amata, giuncata forse, e che? tu la vorresti (forse) qui impalare? Umori sozzi che emette ripugnanti, lei, il buscio della piovra dei fanatici piú ciechi, gli integralisti della croce...
— Cosí mai laeta e mai ratta, una magra livida bagascia impazza, ché dal guizzo di scemenza ministeria è travoltata, ché l’ha conquisa il fallo abnorme d’onda media, il pulpo glande, il golpe in vulpe, il mafio-sondo-tele-crimo-e-ciarlatano-piduista, il nostro picciol cotidiano pater noster (onnipervasivo).
— Ma sanza in oltre penetrarla! E se ciascun la schifa, la tua sfica, il tuo abisso d’orrida sgualdrina, la tua fica, che trame intrica per un tarlo di rivalsa, una foia contr’al mondo che di regola andrà buca — allora spalancati, gorgo, e ciò che segue ingoia: che il tuo dio ti maledica!
2. Il merdunto
— Ce la smerci, la tua merda, dentr’ai tubi! E li colludi, ti colludi coi conflitti, bocca stolta, bocca fresca: dentr’ai tubi che la sparano facondi, la tua merda esiziale, exenziale e craxa,
— Glassa di verminosi ignobili pastrucchi, filàna dentaria a bocca tutta, che trangugia e sputa: a scatarrare – dalla bocca tisica – anatemi vetero-comuni, semper proni alla bisogna come i lor destinatari (d’altra parte). E’ la tua parte,
— La tua broda vomitata che pervade, che s’incista ne’ meandri della testa, che fluisce (tutta) come lava, come ava, come smerda (e ci pervade) che ci ingorga gli interstizi, gli spiragli perdurati, i pochi nostri, avanzati...
— Senza scampo ti scalmani e li riempi, e ci riempi. Merdunto! del signore! Merdovunque! Merdatutto! Acclamato da signore sdilinquite che abborracci al mandolino, tu, il gran presunto seduttore, bòtolo, che sei rogno pustoloso, e napoleíno! Attaccato al campanello,
— C’è il conflitto da galera, la manona, la mannaia, la mannoia, da cui ti scongiurò – dicono – quel perfido baffino. E tu lo sputi e spremi e sproni e speroni e smaroni, e su ci smerdi emeriti tranelli, tu, mariuolo da due soldi, il Merdingloria!
— Che allestisci – affermi – la baldoria sconfinata, la smisurata gaudendia del futuro, il cibo in terra, il nutrimento e l’abundantia, la pappana sempiterna, al popolino...
— E negl’atri antri ti nutri delle fole bibliche, dei prestanomi, dei dellutri, dei bongiorni, dei tramonti, degli sgorbi della sera... e allora, sai che ti proclamo? Schiacciaci, spaccaci, ammaccaci, e poi dacci i nostri cocci, i cocci di noi stessi vuoti, da inghiottire, da evacuare,
— E filacche di scaracchi, pozzi neri per nuotare, mefitiche atmosfere, cloache e discariche (abusive?) che per tua lungimiranza, per la provvidenza che dispensi senza posa, ci assorbiranno tutti dentr’ai gorghi e crateri puzzolenti,
— Che saranno a noi ricetti prediletti, o zampilleranno per di fuora fuoco e fiamme, e distruzione, e ammorbi miasmi d’organismi putrefatti, o gran merdoso! O mar mare dei maramaldi, o losco lusco, o bel mafioso!
— Io m’arrendo e (prostrato) ti idolatro, come il dio dell’ultimo giudizio, come Giovanni in Patmos io t’attendo e io t’invoco, e le tue laudi, ecco, a rosario dispiegato, canto – o immane immenso (immerdo) immondo Coso...
(continua)
BACO PRODUCTION
Baco Productions – Lo sguardo infinito dell’anti-documentario
(pubblicato in «Rifrazioni», n.3, Bologna, 2010)
L’anti-documentario è una delle declinazioni espressive che il cinema contemporaneo piú ardimentoso frequenta ormai con certa assiduità e varietà di modi. C’è l’arrangiamento proposto dal superbo Werner Herzog (Grizzly Man, The White Diamond) che flette sull’idea, da cui si slancia, di immettere entro la cornice angusta della registrazione di eventi – e ciò a mezzo di scombinamenti grammaticali e sintattici a dir poco fantasiosi – una cospicua dose di lirica adesione, una einfühlung delirante, che procede a sovrapporre la potenza dell’invenzione diegetica alla (presunta) nuda realtà dei dati ritrovati nelle zone piú bizzarre della vita. E si intende qui di una parafrasi che è tutta nelle corde del regista, da sempre: poiché perfino i suoi films piú drasticamente narrativi – quelli degli esordi e non solo, Aguirre furore di Dio, Cuore di Vetro, Fitzcarraldo, tanto per dirne tre – implicavano il pro-filmico sforzato a farsi veritiero, ossia vissuto fino in fondo (altro che recitazione!) e che si ponesse, infatti, il piú lungi possibile dal prolasso dell’artificio scenografico, dalle viltà illusioniste del cinema-romanzo tipico, e potesse attingere dunque a una persistente conquista di sincerità rischiosa, pur nella sostanziale accettazione dei presupposti narrativi di una storia inventata e di un soggetto avventuristico. E vi sono molteplici ulteriori accezioni d’arte anti-documentaria nel cuore del giovane cinema europeo, e anche americano. In regioni cioè ove si contemplano (tuttavia con sentimento di bruciore gastrico) Bruno Dumont – per fare un esempio – intento a spremere realtà fattuale contestuale umana dall’uranio puro di Bresson, arricchito però di una feccia deteriore, accattonesca (il va sens dire: in memento Pasolini), oppure Todd Solondz, capace di allestire una “non-fiction” (in Storytelling) dietro cui peripatizzano gli antecedenti delle persone (e non già blandi personaggi) che abitano i quotidiani loculi dell’impagabile Cassavetes... e anche altri cineasti di valore, de cuyos nombres no quiero acordarme.
La premiata ditta Baco Productions (Fabio Badolato e Jonny Costantino) si insinua nella fessura, invero assai tumida, dell’anti-documentario (incisione stretta, dico, ma pronta a schiudersi, come ogni solco, vivo, che si rispetti) muovendo dal lato opposto rispetto ai casi sopra citati, ovvero partendo dal “documentario” tout court, ma implicandolo in un chiaro disegno metalinguistico che ne stravolge la consueta portata – e ancor piú i consueti scopi – per farne strumento atto a trarre dalla “realtà dei fatti” materiale da costruzione (anche come materiale di recupero, di furto) in vista di una testualità filmica, di una semiosi audiovisiva, che si ponga piú come indagine sulle potenzialità stesse dell’espressione cinematografica che come inchiesta sui soggetti (pre-testi pro-filmici, vita viva affrontata e riferita) di volta in volta tematizzati, e che quindi concorra a tracciare il senso, i limiti, le pulsioni, le inibizioni, le rimozioni, gli scarti, gli scatenamenti, le liberazioni, di una complessa quanto ambiziosa – sebbene altamente ipotetica, arrischiata – poetica dello sguardo. Nella logica, ovviamente, di uno sguardo che è piú desiderante di quanto non sia oggettivo, piú affamato che sazio, piú gettato nella sua trionfale sconfitta che non appagato dalla conoscenza di ciò che vede (la quale sarebbe poi il presupposto della didattica documentaristica tradizionale). Una poetica e una logica che dunque finiscono per delineare la figura davvero eversiva di un occhio anti-albertiano, infinitamente mobile e sempre decentrato, talora per questo anche pressoché accecato, eppure iper-vedente proprio in quanto visionario, perché destabilizzato e sempre messo fuori gioco dall’ineffabile (superiore) invisibilità del reale.
In Le Corbusier in Calabria (2009), la piú recente delle prove del duo, si notano con facilità tre dati: il primo, che la lingua nuova dell’opera, anche a mezzo di un montaggio funambolico, oltre che di una frenetica, parossistica instabilità della ripresa, si avvale di un’immagine risicatamente tesa ad avocare a sé pregnanti equivocità visive, ovvero tanto “il visibile” quanto “l’invisibile”, tanto il pittorico quanto il fotografico, tanto il gradevole quanto l’indigesto, poiché fa fluire dinnanzi allo spettatore una rapida trascorrevolezza cangiante e fortemente evocativa, la quale rende l’occhio appunto precario e malfermo, lo distoglie e lo disloca dalle sue abitudinarie espugnazioni prospettiche, dalle sue pretese di certezza, e lo affascina invece che oggettualizzarlo (storicamente, per la cultura occidentale, quale ipostasi soggettiva della conoscenza); il secondo, che tale scelta spinge con forza il testo entro regioni dell’estetica – di un’estetica dell’immagine post-cubista, post-lecorbusieriana – che poco hanno a che fare con lo statuto didattico del “documentario”, di cui viene denegata l’autorevolezza anche a mezzo di un ripudio della parola, del commento verbale e didascalico; il terzo, infine, che quella scelta e quella rinuncia aprono la via a dimensioni audiovisive (ché di cinema pur sempre si tratta: e quindi di testo audio-visivo) in cui l’audio è solo musica, ed è musica a sua volta non didattica, non decorativa... dato che è invece anch’essa testuale al pari delle immagini, nella sua perfetta con-fusion con la componente visiva.
E qui, a proposito del terzo dato, varrà la pena di sottolineare la valenza dirompente cui viene ad assurgere, in Le Corbusier in Calabria, l’allestimento di plurali facoltà – da parte del fruitore – di aderire al testo secondo un percorso del tutto ad libidinem: di volta in volta scegliendo (poiché Badolato-Costantino sfruttano a fondo le versatili virtú del supporto dvd) la traccia musicale – banalmente si direbbe: la colonna sonora, ma non sono colonne sonore! – da associare alle immagini... Il che non genera l’effetto di rendere secondarie quelle tracce, come potrebbe apparire all’approccio di uno sprovveduto, ma invece quello di ottenere tanti testi complessivi quante sono le tracce medesime. Provare per credere, diceva colui... Ogni diversa interpretazione musicale delle immagini – ché interpretazioni sono, con i vari musicisti coinvolti a posteriori in un atto di libero “appropriamento” del testo – si dispone a modificarne la valenza estetica, il che vuol dire a partorire un nuovo significante globale, muovendo da un programma di produzione che tale insistita palingenesi ha cercato e voluto, e con la conseguenza di restituire alla natura audiovisiva dell’opera esattamente (pienamente) la sua epifania apocatastatica.
La percezione che del soggetto pseudo-trattato (ma trattato comunque, e con che ricchezza di rilievi! con quale cuore!) viene ad avere lo spettatore – la Calabria delle arsure e dei germogli, delle spregiudicatezze devastanti e degli abbandoni, la Calabria di una bellezza superlativa proprio in quanto malinconicamente sciupata, il suo corpo femminile sprecato, usato, abusato, violentato, abbandonato, denudato con ferocia lussuriosa, consunto dal tempo eppur brillante tra le pieghe della memoria, bellissimo perché antico – è per paradosso (ma quale paradosso? nessun paradosso in tutto questo!) piú ricca, piú persuasiva, piú intima, piú autentica. La sostanza di uno sguardo che è indagine sullo sguardo (stesso), di un occhio insaziabile che muove alla ricerca di ogni dettaglio, che si estroflette quasi divaricandosi come un giano bifronte, che esce dalla propria orbita per poi vedere solo se stesso in quanto ansia (stessa) del vedere, e del capire, che dunque si fa amore per lo sguardo e sua infinita ricostruzione, statuisce il contrario di quello sguardo di Medusa – del documentario classico – che impietrisce e paralizza e uccide l’oggetto del proprio dominio, mummificandolo.
Cosí, a ritroso, si intende come esplicativa degli intenti (della solida poetica) della premiata Ditta l’opera precedente di Jonny Costantino e Fabio Badolato: tesa com’è – nel dittico sulla pittura di Flavio de Marco, Mimesi (2007) e Storie dell’occhio (2008) – a sondare il rapporto profondo e impossibile tra immagine e visione, nella consapevolezza (qui) che se da un canto è sempre e solo la visione a fondare l’immagine, di controcanto è altresí la visione a distruggerla, a sterminarla, quando essa si placa nella pura contemplazione (rappresentazione?) e lo sguardo cessa pertanto di essere desiderante. Ancora l’anti-documentario muove i suoi passi da un testo-pretesto... Ora tuttavia da qualcosa che ha già dentro la propria stessa carne la valenza di linguaggio e di immagine: la pittura appunto, l’operare dell’artista per la produzione del significante visivo. Ma è un lavoro di superfetazioni, di stratificazioni aggiunte, quello che Baco Productions in questo frangente decide di allestire: perché uno sguardo interno, anticipatorio (e metonimico) dello sguardo cinematografico agisce in entrambe le opere al fine di rendere piú spessa la visione e di centrare il problema autentico dell’immagine, dico il suo irriducibile porsi al limite di uno spessore (appunto) che deve tradursi in ansia... dato che l’immagine è in sostanza seduzione dell’occhio, richiesta di una penetrazione, invocazione di uno sguardo che desideri oltrepassarne la soglia, il che poi vuol dire che ambisca a sfondarne la cortina (fisica, corporea) per deflorarne il sigillo interno (mentale), perdendosi tuttavia nell’interminabile sussulto e orgasmo della deflorazione stessa (entretien infini, diceva Maurice Blanchot dell’insensato gioco della poesia).
Nel primo dei due film, titolato Mimesi, è l’artista De Marco a fungere da occhio interno, un occhio che raddoppia quello dello spettatore (del film) per metterlo in difficoltà, ossia per soggiogarlo ad una prigionia del (non) vedere dalla quale solo con la forza di un’adesione totale, di un dispendio, di una catarsi, egli potrà forse cercare di liberarsi. Senza riuscirci, giacché la tensione aumenta. Ed è la via scelta dall’anti-documentario per problematizzare il proprio stesso costituire testo, la propria stessa pretesa di mostrarci qualcosa. Lo stolto indica la luna, mentre il saggio guarda il dito! Sí, perché il problema vero è la presunzione del mostrare, e del vedere, non ciò che viene visto. Il testo visivo (cinematografico in questo caso) è tale perché ha l’ambizione di far vedere qualcosa, ma se accetta l’idea che quel che conta è ciò che mostra (documentario consueto, pittura realistico-prospettica) vorrà dire che rifiuta di porre se stesso come oggetto della visione. La trasparenza del testo, il suo essere mero strumento ai fini della presa di possesso di ciò che sta al di là di esso (oltre la cornice della finestra che albertianamente apre) segna la fine di ogni istanza artistica e di ogni fruizione estetica. Essa è nient’altro che la moneta passata di mano in mano di cui parlava Mallarmé, allorché implorava alla poesia di essere ben altra cosa. E per rivendicare invece uno sguardo che fondi il testo, che lo renda, esso stesso, termine e significato della visione, meta della fruizione (in una parola: opera d’arte) occorrerà invece un ispessimento della sua superficie (significante) tale da farle assorbire il desiderio fruizionale per irretirlo e rilanciarlo nella propria medesima frustrazione, nel proprio dover restare inappagato, poiché oltre tutto – come è ovvio – l’appagamento è l’opposto del desiderio.
Nel secondo film del dittico, Storie dell’occhio, una pseudo-contemplatrice – la donna che (non) guarda – introduce il tema della crudeltà della visione. Qui la faccenda si fa estremamente complicata... Perché già l’artista De Marco, nell’opera pittorica di cui viene fornita anti-documentazione, ispessisce la propria pittura superfetando una pittura precedente, quella di Francesco del Cossa e della sua cerchia nel ciclo dei Mesi di Palazzo Schifanoia. E lo fa partendo dalla convinzione che il fascino inesauribile di tali immagini del Quattrocento (ammesso che siano del Quattrocento e non di sempre) dipende dal loro essere – checché ne pensino le facilonerie didattico-turistiche prima ancora che storico-artistiche, se qualcosa riescono a pensare – sostanzialmente impenetrabili all’occhio. Per lo meno è questo che De Marco in loro rileva, ovvero che “trasferisce” su di loro rendendole palinsesto del proprio sguardo e di tutti quelli che nel precipitare dei secoli si sono là depositati, dato che lo sguardo attuale (l’operazione pittorica che lo materializza) muove esattamente a uno scavo e a una messa in rilievo degli ipotetici ma iperattivi sguardi precedenti.
In Storie dell’occhio il processo avviato (da De Marco) viene magnificamente condotto a ulteriori conseguenze, senza cedimenti didattici, perché al riparo di un’intenzione (a propria volta artistica) di cui nessun “documentario” banalmente inteso potrebbe avvalersi. Come già detto, nel primo capitolo una donna è guardata nel suo (non) guardare la pittura di De Marco, e sotto di essa quelle dei maestri ferraresi di Schifanoia, e tra questa e quelle le innumerevoli immemorabili altre pitture che la fruizione ha sedimentato. Il suo (non) sguardo condensa la potenza dell’immagine, il carne della (non) percezione di ciò che essa (non) rappresenta, la tumefazione del visibile che rimbalza sulla superficie per statuirne la linguisticità estetica... Alla fine: lo spessore del significante.
Nel secondo e nel terzo (breve) capitolo la cinepresa si erge a occhio unico e dispotico. Ma nel suo errare sulle immagini (di Schifanoia in leit motiv, intercalandovi tuttavia citazioni o accostamenti improbabili a materiale iconografico eterogeneo e ovviamente ancora richiami all’intervento di De Marco) si accosta ad esse in base a scelte – inquadrature, carrelli, zoom, sfocature... – che spingono la macchina verso un utilizzo al limite delle sue possibilità tecniche e, pertanto, schiacciano il vedere verso il confine della propria insussistenza, senza dubbio in modo rammemorativo dell’antefatto piú emozionante che il cinema possa offrire in materia: la lunga sequenza non diegetica, la carrellata esplorativa sugli affreschi e sulle tavole di Andrej Rublëv, che conclude l’omonimo film di Tarkovskij (1969). Quasi inutile insistere, lo spessore dello sguardo sfida qui la cecità che in esso si annida (e a cui esso si vota): sia ritrovandola (ritrovandosi) nel delirio delle immagini “restituite” – quelle dei ferraresi antichi e quelle del pictor novissimus – sia costruendola (costruendosi) in quanto visione inturgidita fino al parossismo dal (nel) linguaggio cinematografico. E il suggello che si potrà apporre a questa duplice sfida sprigiona il bagliore di una rivelazione, dato che recita cosí: poiché si tratta infine dello stesso spessore e della stessa cecità, poiché sono infine le stesse immagini, e quindi la stessa cosa.
Sandro Sproccati
VAGHE STELLE
VAGHE STELLE DELL’ORSA: CINEMA E FILOSOFIA DELLA CRUDELTA’
(«Rifrazioni» n. 5, 2011)
Il problema – piú ancora che il tema – che Luchino Visconti ha affrontato in Vaghe stelle dell’Orsa, è quello dell’impossibilità di liberarsi dalla “maledizione delle radici”.
La libertà di autodeterminazione, che all’essere umano dovrebbe essere garantita come un bene imprescindibile, è già in partenza negata, resa utopica, dal fatto che si nasce all’interno di una cultura e di una condizione sociale specifica, dal fatto di essere in realtà a priori completamente definiti – perfino nella propria natura psicologica piú profonda – dal contesto umano in cui si forma, dunque dall’insieme delle istanze di pensiero altrui che attorno al proprio “io” si condensano, costituendolo e rendendolo ciò che è.
Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
Tornare ancor per uso a contemplarvi
Sul paterno giardino scintillanti,
E ragionar con voi dalle finestre
Di questo albergo ove abitai fanciullo,
E delle gioie mie vidi la fine.
Tornare ancor per uso a contemplarvi
Sul paterno giardino scintillanti,
E ragionar con voi dalle finestre
Di questo albergo ove abitai fanciullo,
E delle gioie mie vidi la fine.
Il testo leopardiano (Le ricordanze) agisce da stimolo per una teoria della “dannazione originaria” che emblematicamente, perfino allegoricamente, si sostanzia nella storia narrata e dunque in una specifica e assai scabrosa vicenda umana. La storia di una giovane donna, la quale ha creduto di poter sfuggire alla propria drammatica adolescenza e alla sofferenza che in essa si è sviluppata mettendo tra se stessa e il borgo natio (tra se stessa e gli abitanti di Volterra, tra se stessa e il fratello, tra se stessa e la madre nel frattempo impazzita) tutta la distanza di un matrimonio con un americano e di una vita a Parigi. Lo schema geografico metonimico è cogente: la modernità di Parigi e degli Stati Uniti contro la vetusta, sontuosamente arcaica (addirittura pre-latina ossia etrusca) antichità di Volterra. Il futuro contro il passato. Al quale passato, tuttavia, per tornare con la forza di un rimosso devastante, per tornare alla superficie della coscienza e divenire cosí nuovamente attuale, e dunque doloroso e distruttivo, e assolutamente violento, basta l’occasionale ritorno di Sandra alla casa paterna per una cerimonia di famiglia. E nemmeno la presenza del marito americano – trascinato da Sandra con sé come un antidoto ai miasmi velenosi che dal quel luogo emanano – potrà impedire che il regresso alle origini (con tutto ciò che di negativo esso comporta) si compia e ri-precipiti Sandra in un gorgo di male e di disperazione.
Occorre aggiungere subito un dato: Visconti elegge a specchio della propria riflessione un personaggio femminile (Sandra, appunto), facendone una sorta di alter-ego di se stesso: per affondare il bisturi dell’introspezione psichica nel corpo dolente della propria stessa condizione, segnata dalla castrante onnipotenza del passato (sia individuale, sia famigliare, sia sociale). Per Visconti: la tara ereditaria e culturale di una delle piú importanti dinastie italiane contro la ricostruzione di un’identità e di una coscienza politica faticosamente conquistate per mezzo dell’arte e del relativo sviluppo di affilati strumenti critici. Banalmente parlando: Visconti intellettuale comunista contro tutto ciò che Luchino era (e non poteva non essere!!!) in quanto, appunto, Visconti.
Insomma, evitando i luoghi comuni della psicanalisi e il freudismo popolare presente in tanto cinema d’autore europeo ed americano (Hitchcock incluso), l’autore riesce a mettere in luce – coraggiosamente traendolo dall’ombra dell’indicibile, ossia di un rimosso che non è mai del tutto tale e che si manifesta piuttosto nella chiave di una coscienza oscura – un plesso di disperazione che egli stesso ha vissuto sulla propria pelle, quasi come una condanna a cui l’hanno votato le proprie origini biografiche.
Si intersecano nel film temi di critica (e autocritica) che sono al tempo stesso occorrenze storiche, psicologiche ed esistenziali:
1) La decadenza e il marcimento a cui non può sottrarsi una classe sociale – la borghesia italiana di alto lignaggio e di grandi mezzi economici – priva ormai di ragion d’essere storica se non per una ovvia, ma proprio per questo depravata e depravante, volontà di potenza e di autoconservazione. Pertanto non-detta (ma ampiamente allusa) è l’apologia delle classi nuove, del proletariato ideologicamente sano (rappresentato dal candore e dalla pulizia morale dell’antico innamorato di Sandra). E qui la domanda – assai scabrosa, a sua volta – potrebbe essere: Visconti in collaborazione con Pasolini?
2) Il legame inscindibile di ciascun individuo con il luogo della nascita, dell’infanzia e dell’adolescenza (il “paterno ostello”), dalle cui esalazioni nocive nessuna california (Andrew, il marito americano di Sandra), nessuna terra promessa, potrà mai mettere definitivamente al riparo. Lungi dal garantire sicurezza e coscienza di sé, l’origine determina l’impotenza dell’individuo, tarpando le ali a ogni utopia e frustrando qualsiasi desiderio di vita autentica, voluta e costruita.
3) La corruzione a cui è eletto un popolo che basa la propria cultura solo sulla nostalgia del passato. Volterra, la città che si sgretola, tetra e funebre nell’attesa del proprio destino di morte certa, che i vede i propri antichi palazzi in procinto di farsi inghiottire uno dopo l’altro dalle “balze”, è davvero la metafora perfetta di una nazione che paga un tributo micidiale alle glorie e alle dignità a cui seppe assurgere ma che non le appartengono piú, e che sconta oggi la colpa di una storia troppo illustre, che si vota a uno “sguardo alle rovine” tale da impedirle qualsiasi spirito di rinnovamento e qualsiasi modernità.
4) La famiglia, innalzata a valore assoluto e pertanto a ricettacolo esclusivo di ogni mozione affettiva, denunciata – con crudele lucidità – quale impedimento al libero dispiegarsi delle relazioni umane, quale sciagurato ostacolo all’amore e alla solidarietà collettiva. Il legame morboso che Sandra intrattiene con il fratello Gianni è un marchio indelebile, una tara ereditaria, che deriva da una vita chiusa su se stessa, autoreferenziale, incapace di aprirsi all’altro e al diverso da sé.
5) Il peso che ogni evento dell’esistenza, ogni scelta, ogni debolezza, ogni cedimento, determinano sull’individuo, e dunque il peso di un passato al quale non si sfugge, che riemerge potente anche quando ci si illude di averlo dimenticato e reso innocuo... Un peso che si rivela nel fantasma del rapporto incestuoso di Sandra con Gianni, che ricompare potente e devastante non appena la donna – prima fuggita lontano – rivede il fratello a Volterra, rendendo inutile la presenza nuova di Andrew, a cui pure Sandra vorrebbe affidare la propria salvezza.
Quel che occorre sottolineare è la determinazione con cui Visconti (quasi nietzschianamente “al di là del bene e del male”) decide di abbattere ogni limite imposto dalla moderazione, dal buon senso, dal sentire condiviso, dal moralismo e dal pudore – ossia dalle mura mentali che la falsa coscienza (politica) erige per la difesa dello “status quo” sociale – per scendere veramente fino in fondo all’abisso che abita l’anima dei suoi personaggi, e cioè la sua stessa anima, e cioè anche la nostra. La forza del film risiede nella capacità di fornire allo spettatore, che sia in grado di spogliarsi a sua volta di ogni precostituito rifugio psicologico, uno specchio in cui riflettersi e cogliere il proprio limite, mettendo a repentaglio perfino qualcosa della propria (costruita) identità individuale.
Scrive Visconti: «Lo spettatore [...] dovrebbe trovarsi alla fine chiamato direttamente in causa, obbligato a chiedersi [...] se non si celino dentro di lui una Sandra, un Gianni, un Gilardini». Come in Zerkalo di Tarkovskij, il passato dei protagonisti diviene il passato di ciascuno di noi, laddove un grumo di inesprimibile (poiché intollerabile) oscurità deve affiorare ed essere ri-conosciuto, perché qualche “scampo” sia possibile.
Questa è del resto la crudeltà a cui il film si vota, un’artaudiana rivitalizzazione della catarsi tragica, ed è questa la psicanalisi non banale che Vaghe stelle dell’Orsa mette in opera. Diceva Artaud che perché un evento di teatro abbia significato lo “spettatore” dovrà uscire dal luogo in cui si è svolto scoprendosi diverso da com’era prima di entrarvi... E questo è precisamente ciò che pretende il film di Visconti.
CONTRA BABINAM
IL LUOGO DELL’OPERA O CONTRA BABINAM
Autografia e allografia, oggettualismo e performatività (musica, teatro, cinema)
(pubblicato in «Rifrazioni», n.2, Bologna, 2010)
Poiché l’attività che chiamiamo arte rientra con ogni evidenza nel campo più vasto dei fenomeni umani di comunicazione linguistica, essa dovrà gioco forza basarsi sulla produzione da parte di un soggetto (l’autore, eventualmente anche plurale) di entità fisiche (oggetti o eventi) che siano investite di valore simbolico, per usare il termine più ampio possibile, ovvero di significato. Da quando esistono riflessioni filosofiche intorno al problema, in pratica da quando esiste il concetto stesso di arte, a tali entità fisiche è conferito il titolo di “opere d’arte” – che può essere anche convertito in quello, assai più tecnico, di “testi artistici”. A lungo l’estetica classica, così come la storiografia e la critica, hanno dato per scontato che affinché gli scopi dell’arte siano conseguiti (in sostanza: perché un dipinto possa infondere persuasioni, perché un racconto possa riferire vicende, perché una melodia possa suscitare emozioni, perché l’arte insomma possa produrre “contenuti”) l’opera dovrà essere qualcosa di immediatamente evidente, di completamente riconoscibile, qualcosa che non richieda in alcun modo preliminari ricerche o definizioni di statuto, in definitiva qualcosa di circoscritto e di ben chiaro alla mente e ai sensi di chi voglia fruirla.
Ma il problema del corretto riconoscimento dell’opera, ossia dell’individuazione di ciò che propriamente ed effettivamente costituisce il testo di una operazione artistica, e pertanto di ciò che forma la cosa esteticamente fruibile, emerge non appena si evita di ritenere ovvio ciò che non lo è affatto, cioè che il fruitore abbia sempre a che fare con entità oggettuali nel senso concreto del termine. Anche se con qualche difficoltà, la recente teoria dell’arte ha accettato l’opposizione, abbastanza elementare e intuitiva a dire il vero, tra arti oggettualistiche e arti performative, accanto alla distinzione (sicuramente più complessa e controversa) tra arti autografiche e arti allografiche, di cui parlerò in seguito[1]. Ora, tutte le esperienze d’arte che producono eventi in luogo di oggetti veri e propri – e tra esse, per restare nell’esclusivo ambito delle modalità tradizionali, si potranno citare al minimo la musica e il teatro[2] – pongono a ben guardare difficoltà notevoli in sede di individuazione (riconoscimento) del “luogo” esatto in cui si situano le loro opere. Ciò accade per un motivo semplice, vale a dire perché tali prassi linguistiche conoscono non solo il testo come evento (ovviamente fisico[3], anche se non precisamente oggettuale: l’insieme di suoni prodotti in un certo ambiente, oppure l’insieme di azioni compiute da un certo numero di attori su un palcoscenico o in qualsiasi altro luogo), ma altresì il testo come notazione grafica (lo spartito musicale, il copione o il testo verbale di una commedia o di una tragedia) e ancora – benché ciò sia del tutto rilevante solo per la musica – il testo come registrazione dell’evento (l’edizione discografica).
Nelle (nuove) arti performative visuali, più o meno basate su novecentesche contaminazioni tra linguaggi visivi e teatro (come nella body art e derivati vari) o tra linguaggi visivi e azioni d’intervento ambientale (come nella land art e derivati vari), la scarsa chiarezza circa il problema di che cosa esattamente debba essere fruito come opera, ossia di dove si collochi effettivamente il testo dell’operazione, prende spesso il sopravvento. Ricorderò – a tal proposito – come artisti anche esperti finiscano non di rado per presentare quale loro opera dapprima un’azione, ossia una performance, eseguita dal vivo dinnanzi al pubblico, poi magari un filmato in cui tale azione risulta audio-video-registrata, tranquillamente dando a entrambe le “entità” lo stesso titolo e altrettanto tranquillamente lasciando che il fruitore possa confondere tra esse come se fossero intercambiabili e come se si trattasse, in sostanza, della stessa opera. Si può, senza tema d’errore, evincere che per tali artisti non vi è alcuna differenza tra un’azione meta-teatrale e il filmato audiovisivo che la riprende. Mentre, invece, delle due l’una: o (1) la performance vale in sé e per sé come quella precisa opera che ha quel titolo, così che si tratterà, in tal caso, di un lavoro d’arte fruibile al livello massimo delle sue potenzialità solo ed esattamente nell’hic et nunc del suo accadere (intendo: quel giorno, in quel luogo, e da quel preciso gruppo di persone presenti), mentre di conseguenza la registrazione audiovisiva avrà solo la valenza di un documento finalizzato alla conservazione mnemonica e alla diffusione ulteriore – la stessa valenza che le fotografie dei dipinti hanno per le opere di pittura che riproducono – oppure (2) la performance medesima è stata eseguita (non di fronte al pubblico, ma) con il solo e preciso scopo di ottenere un testo audiovisivo, il quale – esso stesso e nient’altro – costituisce l’opera nella sua integrità, tanto che, in questa seconda evenienza, nessuno dovrebbe poter assistere alla performance come si assiste a una rappresentazione (per intenderci) teatrale[4]. Tertium non datur, a meno che per tertium non si intenda (3) che le due “entità” – performance e audiovisivo – costituiscono due diverse opere (ben distinte anche se tra loro apparentate) di un medesimo autore.
Considerazioni principali (musica)
Il caso più complesso in materia di individuazione del luogo del testo è quello che (non da qualche decennio, ma da molti secoli) propone la musica, arte performativa per eccellenza. Infatti la presenza di una “scrittura musicale” – depositata in una mole immensa di segni a inchiostro su supporto cartaceo, i quali, nel modo più efficace possibile, mettono a disposizione degli addetti ai lavori (ma quasi mai del destinatario finale) ciò che chiamiamo la storia della musica oltre che una serie di dati linguistici forti (immodificabili) che consentono di trattarne la materia con una certa oggettività – rende il problema assai delicato. Qui val la pena di ricorrere appunto alla distinzione goodmaniana tra arti autografiche e arti allografiche[5].
Le prime, secondo il filosofo americano, sono quelle che producono opere originali costituite da un esemplare unico e non riproducibile (come ad esempio un dipinto a olio di Matisse o una scultura a scalpello di Michelangelo o la Cattedrale di Chartres: regime autografico a oggetto singolo[6]) oppure opere originali riprodotte in una serie limitata di esemplari pressoché identici tra loro e tutti “autenticati” dall’artista (come ad esempio una cartella di incisioni a tiratura limitata: regime autografico a oggetto multiplo). Va precisato che il criterio della non-riproducibilità si pone solo in maniera da escludere la presenza di esemplari identici all’originale e dotati del suo medesimo valore estetico, dato che: a) la riproducibilità tecnica – in epoca contemporanea – è sempre di per sé possibile, e tuttavia si tratterà esattamente di quella condizione di cui parla Benjamin[7], che se da un lato sottrae “aura” all’originale, dall’altro non pretende affatto di sostituirlo con le sue copie (diciamo allora: la fotografia di un dipinto, che lo riproduce senza aver alcuna pretesa di sostituirsi ad esso); b) la riproduzione è comunque sempre possibile anche in un altro senso, ovvero in chiave di falsificazione, e dunque come creazione di pseudo-valore, come truffa estetico-economica (l’originale rimane unicum non replicabile dacché ogni sua eventuale replica che pretenda di spacciarsi per originale costituisce un “falso” che a termini di legge deve essere perseguito)[8].
Le seconde – ossia le arti allografiche – prevedono invece l’infinita riproducibilità dell’opera come condizione di vita dell’opera medesima: un testo di qualsivoglia narratore o poeta è inesauribilmente moltiplicabile, tanto che lo si intenda come insieme di caratteri alfabetici sulla carta quanto che lo si identifichi con una catena di suoni articolati da voce umana. Va precisato però che, in questo modo, si parla (ancora) di opera come oggetto fisico – carta stampata oppure onde sonore nello spazio – quando tali entità non sembrano essere altro, per un romanzo o per una poesia, che la necessaria ricaduta sensibile di un testo vero e proprio situato altrove. Ciò che Goodman pare trascurare, o non rilevare con sufficiente chiarezza, è che l’oggetto fisico, proprio nel caso delle arti che egli chiama allografiche, non costituisce realmente l’opera nel proprio fondamento di (comunque radicale) unicità, quanto piuttosto un supporto occasionale della medesima. La pagina x dell’edizione x delle Fleurs du Mal, impressa con quei caratteri e quell’inchiostro su quella carta, non è in sé quella poesia di Baudelaire (ad esempio la poesia L’albatros) ma solo una sua registrazione scritturale contingente, la quale – purché rispettosa dell’esatta successione di segni grafici stabilita da Baudelaire (o piuttosto dal curatore autorizzato per consenso unanime, Claude Pichois) – è pienamente legittimata a rappresentare quella poesia di Baudelaire esattamente quanto qualsiasi altra registrazione scritturale (ortograficamente corretta) di qualsiasi altra edizione francese delle Fleurs du Mal. Bisogna infatti riconoscere che la poesia L’albatros è comunque unica e immodificabile, in un certo senso non replicabile in nessun modo, anche se infinite sono le modifiche e le repliche che si possono legittimamente effettuare sulla sua “ricaduta” in oggetto sensibile, una “ricaduta” a prescindere dalla quale (tuttavia) nessuna opera letteraria sarebbe evidentemente fruibile.
Ora, è bene avanzare subito un’osservazione a mio avviso cruciale: la musica pertiene sia al regime autografico sia al regime allografico, il che costituisce la vera ragione della difficoltà dell’individuazione delle sue opere. Nella musica, intesa come arte autografica, il prodotto artistico dovrà essere infatti definito come l’evento che l’esecutore o gli esecutori, eventualmente anche sotto la guida e la responsabilità di un direttore, realizzano in occasione di quel dato concerto, dunque come quella precisa performance musicale, dato che solo così l’oggetto artistico potrà dirsi unico e irripetibile. Laddove, per contro, la musica dovrà essere considerata arte allografica se si ritiene che l’opera musicale coincida esattamente con il testo-partitura che viene realizzato da un musicista compositore prima e a prescindere da ogni sua (eventuale) performazione. Vi è un solo oggetto-evento fisico che può costituire la IX Sinfonia di Bruckner eseguita il tal giorno del tale anno e nel tale luogo dalla Columbia Symphony Orchestra diretta da Bruno Walter, non essendo nessun altro evento simile (esecuzione della medesima sinfonia da parte di altri musicisti o da parte dei medesimi musicisti ma in altro luogo e/o momento) intercambiabile con esso, mentre, al contrario, qualsiasi trascrizione corretta dello spartito licenziato da Anton Bruckner per la sua IX Sinfonia, al pari dell’eventuale insieme di fogli originariamente da lui vergati a Sankt-Florian[9], è equivalente a (e intercambiabile con) tutti gli altri esemplari, oggi pressoché innumerevoli, di quello spartito, comunque e da chiunque vergati e/o stampati, purché testualmente (ovvero nella successione di simboli grafici) conformi all’originale.
In altri termini: siamo in grado di sostenere che possediamo infiniti oggetti – diversi tra loro ma tra loro perfettamente equivalenti – i quali tutti ugualmente costituiscono, allo stesso identico titolo di legittimità, la IX Sinfonia di Bruckner (regime allografico) solo se ci riferiamo alla musica come attività di produzione di scritti musicali, ma potremo tuttavia affermare che possediamo un solo oggetto, unico e irripetibile, il quale (nel caso specifico) è fruibile solo una volta in una determinata occasione evenemenziale, che costituisce la IX Sinfonia di Bruckner eseguita da Bruno Walter con la Columbia Symphony Orchestra il tal giorno del tale anno nel tale luogo (regime autografico) se ci riferiamo alla musica come attività di produzione di suoni.
Qui si inserisce la distinzione da farsi – credo in modo assai opportuno – tra musica e letteratura. Perché se è vero che anche una poesia può essere “eseguita” in modo esteticamente significativo, tanto che l’esecutore potrebbe giungere a determinare una specie di nuova coscienza pubblica del testo originale e del suo autore (ad esempio Carmelo Bene, grandioso reinventore di Majakovskij), è tuttavia altrettanto vero che per la musica – che viene fruita davvero solo nell’esecuzione sonora – non si tratta di eccezione o di caso particolare, ma della norma (senza esecutore specifico e senza il suo apporto estetico non c’è musica affatto) e d’altronde l’esecutore è sempre obbligato a fornire un’interpretazione “forte” (ossia personale, indirizzante) del testo originale. Egli di fatto lo reinventa: non foss’altro perché il testo originale, in senso stretto, neppure esiste, ovvero esiste solo come insieme di indicazioni (notazione) per l’esecutore, le quali indicazioni sono per loro natura assolutamente “povere” rispetto a ciò che sarà l’effettiva realizzazione dell’opera (la sua epifania) in suono, in ciò che chiamiamo appunto (ma forse erroneamente) interpretazione. La più ricca e articolata ed esaustiva delle notazioni musicali, lo spartito più evoluto dal punto di vista della complessità tecnica scritturale, sarà sempre solo una serie di scarabocchi sulla carta, per altro illeggibili alla stragrande maggioranza dei fruitori, in attesa – perché la musica inizi veramente ad esistere – di qualcuno che a quei segni grafici doni corpo e vita permettendo ai suoni di librarsi nello spazio esistenziale. Anche i grandi autori di spartiti ovviamente furono (o sono) musicisti: ma prima di tutto perché anch’essi ovviamente suonavano, creavano musica viva, che poi, per nostra fortuna, annotavano in segni sul pentagramma, permettendo ad altri musicisti di farla vivere ancora oggi.
Spero d’altra parte sia chiaro che non intendo sminuire l’importanza del fatto che esistono “le opere” di Schubert, ovvero di qualsiasi altro autore che ci abbia lasciato notazioni della sua musica. Sopra tutto per quanto concerne l’ambito della così detta “musica classica”, chiedo invece che si rifletta su quanto segue: da un lato l’esistenza delle partiture consente di apprezzare, in sé e per sé, tutto il valore dei grandi musicisti del passato (e anche dei meno grandi), ovvero delle loro composizioni, ma dall’altro, ogni volta che queste vengono eseguite ciò che ne nasce è una sorta di opera di collaborazione tra compositore ed esecutore, dove non mi pare neppure necessario stabilire una gerarchia tra l’uno e l’altro, dato che ogni singolo caso fa comunque testo a sé. Ricorderò solo, en passant, il paradosso in cui è incorso Keith Jarrett – grandissimo pianista di formazione jazz – quando ha preteso di eseguire le opere per clavicembalo di Bach escludendo, a suo dire, ogni ansia interpretativa e cercando (verosimilmente in polemica con Glenn Gould) di essere freddo e neutrale nell’applicare la presunta “lettera” dello spartito. Il paradosso consiste nel fatto che chiunque abbia frequentato Jarrett (ossia la musica da lui composta) riconoscerà nella sua versione delle Variazioni Goldberg lo sprigionarsi di un meraviglioso mix di struttura bachiana e di sensibilità jarrettiana; e nessuno, d’altra parte, potrà mai in buona fede essere certo che le Variazioni suonate da Jarrett siano più prossime a Bach di quelle suonate da Gould. Se non altro perché nessuno (che possa pronunciarsi oggi senza l’ausilio di tavolini a tre gambe) ha mai sentito le Variazioni Goldberg suonate da Bach stesso.
Così, per poter definire la musica un’arte allografica dovremmo essere disposti a considerarla arte della composizione di successioni e combinazioni di suoni in senso astratto, dove ciò che conta è il progetto (mentale) di un evento solamente prefigurato e immaginato, in attesa di una sua messa in atto futura, mentre intenderemo la musica come partecipe del regime autografico se decideremo che la sua attività consta nella produzione di un testo fisicamente fatto di suoni, performato dinnanzi ad almeno un fruitore che impieghi l’udito per recepirlo (nella più disperata delle ipotesi: l’esecutore solista stesso nell’isolamento della propria stanza) e rispetto a cui eventuali scritture cartacee fungono esclusivamente da mezzi di conservazione mnemonica e/o da guida alla performazione. E però occorre anche ribadire che i due casi non sono simmetricamente equivalenti, poiché, mentre l’estremizzazione del secondo è possibile e addirittura frequente, quella del primo appare assai prossima all’assurdo. Infatti, se da un lato esistono artisti musicali che concepiscono la musica solo come evento (performance) di produzione sonora (la maggior parte dei musicisti jazz, ad esempio: sia quando utilizzano partiture sia quando non le utilizzano affatto), dall’altro non paiono facilmente reperibili situazioni di artisti musicali che abbiano deliberato di escludere, come inutile o non pertinente, il momento della produzione di suoni a favore della sola, e in sé bastante, scrittura di partiture, se non in ambiti di paradossalismo avanguardista provocatorio. D’altra parte, ciò che vale sovente per la musica jazz valeva sempre per epoche (o culture) in cui non si conoscevano ancora (o non si conoscono tuttora) metodi di notazione scritturale.
Per ciò che riguarda infine la questione dei supporti moderni per la diffusione delle opere musicali – problema che si pone solo da un secolo a questa parte – si osserverà che un disco, analogico o digitale, che riproponga un concerto dal vivo (di musica “improvvisata” o di musica eseguita da partitura, non fa alcuna differenza) spesso ha solo il valore di preservare una memoria e consentire un ascolto allargato dell’opera riprodotta (poniamo la Quinta Sinfonia di Mahler eseguita da Sir Georg Solti a Chicago nel 1970), anche se – nella ricezione che “storicamente”, ossia nel corso del tempo, esso va poi a determinare – quel medesimo disco potrà assumere la stessa funzione identica, presso il fruitore, di uno che, al contrario, venga inciso in studio per essere proposto come opera originale (dove, intendo dire, il momento esecutivo contingente è finalizzato solo alla produzione del disco e di nient’altro), vedendosi attribuito il valore di unicum artistico.
Ciò apre tuttavia un dilemma ulteriore, di impervia delimitazione teorica: in sostanza, se la musica è, da sempre, il prodursi di suoni in uno spazio percettivamente convissuto da chi la esegue e da chi la ascolta, quale tipo di realtà percettiva potrà garantire un disco che gira su un grammofono, ovvero una puntina di diamante che vibra in un microsolco, o magari un apparato digitale che traduce informazioni alfanumeriche in suoni, in concomitanza di circuiti elettronici e membrane amplificatrici fissate su casse di legno, rispetto alla materialità fisica di un sassofono che fa vibrare l’aria nella stessa dimensione prossemica di chi ne ascolta il suono? Il problema non si porrebbe se puntina, solco, microchip, amplificatori e casse varie non avessero la pretesa di darci precisamente l’effetto del sassofono, ma purtroppo è proprio a questo che servono: a fingere che la musica del sassofono, o del pianoforte, o dell’orchestra, sia reale. Basta ascoltare una sinfonia in un auditorium (dove perfino i colpi di tosse del pubblico fanno musica) e poi quella medesima sinfonia registrata su disco, ancorché eseguita dalla medesima orchestra nel medesimo luogo e nella medesima serata, e ancorché riprodotta da un impianto stereofonico di qualità superlativa, per cogliere la differenza abissale tra le due esperienze di fruizione! E però l’incisione in studio, ideata come produzione di un unicum artistico (così come talora anche quella “live” quando assume un rilievo stabile e fondativo) tende a offrirsi all’ascoltatore non già come surrogato della musica autentica, ma propriamente come musica autentica in sé e per sé.
Non significa nulla poi il fatto che (anche) in questo caso l’opera originale sia fisicamente depositata in una serie potenzialmente infinita di oggetti tra loro identici, o pressoché identici, dato che si tratta di supporti, solo supporti: di un testo idealmente unico, il quale – esso stesso e solo esso – costituisce l’opera; e la cui necessaria materialità non si colloca infatti a livello del vinile o del CdRom, bensì a livello dei fenomeni fisici di tipo ondulatorio a cui tali oggetti (in combinazione con un adeguato dispositivo di riproduzione del suono) possono dare vita. Piuttosto si tratterà di valutare se il ventaglio che il disco offre di infinite riproduzioni del testo, ovvero – in termini più banali – se le infinite possibili fruizioni del disco stesso, non facciano rientrare la situazione in quello che Genette chiama il regime delle arti autografiche a oggetto multiplo.
Considerazioni a latere (teatro).
Per quanto attiene il teatro, l’equivoco si palesa già in tutta la sua imponenza non appena esaminiamo con cura il normale utilizzo di un’espressione così apparentemente chiara e “innocua” come quella di testo teatrale. Con tale espressione viene infatti comunemente inteso uno scritto verbale che costituisce la base (da seguire puntualmente per ciò che concerne i dialoghi tra i personaggi) per una messa in scena di teatro classico o classico-moderno. Allo stesso modo, e seguendo la stessa logica (che in verità è assai poco logica), se citiamo “le opere di Racine” intendiamo parlare senz’ombra di dubbio degli scritti che Racine ci ha lasciato, nei quali sono registrati alla lettera i dialoghi verbali (orali) delle sue tragedie e altresì annotati alcuni (ma solo alcuni) dettagli dell’allestimento scenico e dei gesti degli attori... Ma per afferrare al volo tutta l’enormità dell’errore che tali abiti terminologici rivestono, e di conseguenza tutta la complessità dei problemi inerenti il teatro come arte, basterà riflettere sul fatto che – se ammettiamo (come non si può non ammettere) – che l’opera teatrale si realizza appunto a teatro, e prevede una serie di esseri umani viventi che si muovono ed eventualmente parlano di fronte a una platea di esseri umani ugualmente reali e viventi, convenuti in quel luogo e in quel momento per fruire l’opera nell’hic et nunc del suo porsi in praesentia – se ammettiamo quanto detto come assolutamente certo e inoppugnabile – ecco allora che il testo del teatro (ossia il significante che ne costituisce l’opera) non potrà mai avere la forma di una scrittura verbale, non potrà mai essere pubblicato come libro che raccoglie (per esempio) Tutte le commedie di Luigi Pirandello... cosa che per altro l’editoria persiste tranquillamente a fare.
Il testo teatrale, in quanto tale, deve necessariamente essere individuato, con il massimo rigore possibile, in una performance, esattamente una performance, che si svolge una volta sola in un luogo preciso dinnanzi a degli spettatori (che non sono affatto lettori, bensì spettatori) e che implica di solito diversi attori oltre che un regista direttore. D’altra parte sappiamo che fino all’epoca di Molière nessun uomo di teatro si riteneva tale perché in grado di “scrivere” testi verbali, e che il suo (eventuale) realizzare scritture delle proprie opere valeva per lui quanto varrebbe oggi il registrarle con una videocamera: pura memoria, necessità del tramando e del documento. In quanto arte performativa, il teatro, come la musica, affida tutta la propria specifica potenza significante a un luogo che non è affatto costituito da un insieme di tratti grafici su una pagina cartacea, ma che è invece uno spazio reale, fisico, tridimensionale, spesso architettonico, dove l’opera accade e accadendo reclama per sé una fruizione simultanea al suo accadere – in tempo reale – che nel caso della musica coinvolge (principalmente) l’udito del fruitore, mentre per il teatro (principalmente) vista e udito insieme.
Del resto si può osservare che anche quando la poetica di un certo regista pretende la maggior fedeltà possibile a un testo preesistente (uno scritto di Vittorio Alfieri, ad esempio) una componente cospicua di improvvisazione, sia a livello di interpretazione del testo realizzata dalla messa in scena (regista, scenografo, ecc.), sia e sopra tutto a livello di contigenti performances degli attori, è del tutto inevitabile... Ma bando alle ciance! Queste sono quisquilie, dato che a nessuno verrebbe mai in mente di utilizzare il termine opera in campo cinematografico per indicare una sceneggiatura (scrittura verbale), e di sostenere quindi che le sceneggiature utilizzate da Welles costituiscono i testi del suo cinema, magari aggiungendo che il fluire delle immagini e dei suoni sullo schermo (tutto ciò che è impresso sulla pellicola finale) è soltanto una interpretazione del testo stesso! E io qui sostengo – con la maggior veemenza possibile – che aveva totalmente ragione Antonin Artaud[10] a infuriarsi di fronte a un malinteso che non concerne affatto questioni di lana caprina (da teorici maniacali), come taluni vorrebbero far credere, bensì la possibilità stessa che il teatro abbia senso, la sua forza creativa, il suo valore morale e politico, il fatto stesso che il teatro sia degno di esserci e di agire, tra le arti dell’uomo, per la vita dell’uomo e per la sua dignità. Artaud sosteneva che il teatro non ha nulla a che fare con la parola scritta, che esso è dispiegamento di corpo e di spazio, nello spazio, carne viva e sangue dell’attore, percezione sensoriale completa (visiva, auditiva, olfattiva, persino idealmente tattile e gustativa) dello spettatore, in quanto a sua volta corpo egli stesso, immerso nello spazio di un’azione, e che il teatro è dunque solo azione, che la parola stessa a teatro è azione, dato che è essa stessa corpo, e che dunque può essere solo parola-soffio, parola-grido, parola-parola, fremito articolatorio di muscoli e membrane della bocca, intensità corporea di un suono che si produce e riecheggia nello spazio[11].
Nei libri di Shakespeare, sembra suggerire Artaud, non c’è affatto il teatro di Shakespeare, non c’è nulla del teatro di Shakespeare, se non il vago e vacuo ricordo di ciò che quel teatro fu o la blanda indicazione di ciò che quel teatro potrà essere se qualcuno decidesse di lavorare su quelle notazioni fino a farle rivivere in qualcosa di simile al teatro di Shakespeare, ma in sostanza in un’opera nuova. D’altra parte, non si tratta solo di “notazioni”, si tratta, non di meno, di superbi capolavori letterari, degni della migliore letteratura di tutti i tempi! Che cosa sono, allora, i libri intitolati Romeo e Giulietta, La tempesta, Re Lear, oppure Tutto il teatro, di Shakespeare? Ovvio, sono opere letterarie, nulla di diverso da opere letterarie... nulla di diverso, ad esempio, dai libri intitolati Gordon Pym, La lettera rubata, oppure Tutti i racconti, di Poe. Va da sé che le opere di Shakespeare non sono racconti, e che richiedono una lettura che tenga conto della specificità della loro forma letteraria, ovvero (se è possibile) anche una sorta di capacità da parte dei lettori di rapportarne la materia diegetica alla dimensione specifica dell’evento teatrale; ma la loro godibilità non è inferiore a quella dei migliori capolavori narrativi, così come a quella dei più grandi testi poetici. Nulla di strano. Anche i poemi epici dell’Ariosto e del Tasso non sono propriamente né racconti né poesie... Costituiscono anch’essi un genere a sé stante, il quale richiede un approccio culturale e psicologico specifico.
Il dato tuttavia è: le opere di Shakespeare (o di chi per lui, visti i dubbi – qui non pertinenti – che circolano a proposito dell’esatta identità di quest’uomo), qualora siano intese come scritti per il teatro, cioè come libri, sono di fatto opere letterarie, e funzionano in base al regime allografico che è di tutte le (altre) opere letterarie. Mentre se, invece, ci riferiamo (ad esempio) a una messa in scena dell’Amleto – realizzata rispettando alla lettera la notazione fornita dallo scritto shakespeariano, oppure magari anche in base a vistose manipolazioni e volontarie modifiche di tale notazione – saremo di fronte a un’opera teatrale a tutti gli effetti, il cui funzionamento è drasticamente autografico (unicum irripetibile, o a repliche similari ma non identiche), allo stesso modo di certe messe in scena del teatro odierno e d’avanguardia, che non sono sostenute da alcuna base notazionale oppure sono sostenute da notazioni così sommarie (e inutilizzabili in altro contesto) da non essere per nulla riconducibili a fruizioni di tipo letterario o di natura estetica in generale.
Considerazioni a latere (cinema).
Nel cinema la costruzione del testo – certamente da identificarsi con la successione diacronica delle immagini (in movimento) sul quadro cinematografico e con il diffondersi dei suoni nel medesimo ambiente in cui il quadro è visibile – è talmente articolata da porre, se non proprio problemi di corretta individuazione dell’opera, almeno notevolissime difficoltà in sede di analisi semiologica del significante e del lavoro necessario per ottenerlo. Si possono riconoscere tre fasi generali ben distinte tra loro: 1) il lavoro performativo di una troupe di attori e tecnici diretti da un regista generale, a cui verrà attribuita – in modo qui più convenzionale che in qualsiasi altra arte – la responsabilità dell’opera, e dunque la qualifica di autore; tale pluralità di soggetti attivi, in questa prima fase, implica sia persone che verranno riprese (in sostanza fotografate dalla mdp) in ambienti appositamente reperiti e/o scenograficamente allestiti (e che dunque finiranno per far parte delle immagini del testo finale), sia persone impegnate nella realizzazione delle riprese medesime, come curatori della fotografia, tecnici delle luci, del suono, dei costumi, scenografi, attrezzisti, e altri ancora; 2) il lavoro di costruzione della pellicola definitiva a partire dai materiali filmici girati sul set, per mezzo di una prassi (montaggio) che è già in sé e per sé una vera e propria arte, in quanto consiste nell’organizzare frammenti linguistici grezzi in un testo organico e coerente, grazie a competenze e consapevolezze non inferiori a quelle che uno scrittore deve porre in campo allorché organizza parole (elementi lessicali e sintattici di una lingua) in una narrazione letteraria; 3) la proiezione sullo schermo della pellicola finale, la qual fase – benché mero dettaglio esecutivo alla portata di qualsiasi meccanismo automatico – risulta indispensabile alla fruizione del testo cinematografico vero e proprio, che (val la pena di sottolinearlo) non coincide con la pellicola in sé, ma esattamente con il quadro luminoso che la pellicola consente di proiettare sullo schermo e con i suoni che a tale quadro sono associati[12].
Ma, accanto a queste tre fasi principali, si devono considerare molti altri momenti (esterni o paralleli ad esse) non meno indispensabili alla produzione di un film – ovviamente uso la parola nel suo senso estensivo, e cioè antonomastico, di opera cinematografica, non in quello meramente letterale e tecnico-materiale di “pellicola di celluloide”. Vi sono infatti stadi di testualità verbale che precedono l’allestimento del set: scrittura del soggetto, cioè di un racconto in senso tradizionale, talora appositamente realizzato come lo può fare un narratore letterario, talaltra reperito nel mare magno della letteratura già esistente; elaborazione – anch’essa scritturale – della sceneggiatura, ovvero di un testo ugualmente verbale che costringe il soggetto all’interno di una gabbia adeguata al linguaggio del cinema (tagliandolo e suddividendolo in ipotetiche sequenze traducibili in immagini), e altresì stabilisce con provvisoria esattezza i dialoghi parlati, individuando dunque il materiale che rimarrà verbale anche dopo la traduzione del soggetto in narrazione filmica; studi preliminari, da parte del regista e dei suoi tecnici di fiducia, sulle locations in cui i vari set verranno allestiti; reperimento, rielaborazione o anche composizione di testi musicali di supporto estetico-espressivo, che verranno anch’essi impressi sulla pellicola insieme ai dialoghi verbali (registrati a parte o durante la ripresa delle immagini, con microfoni sul set)... Ma il mio elenco potrebbe continuare fino a stancare il più pignolo dei lettori, perché davvero macchinosa e drasticamente polisemiotica è la produzione di un testo cinematografico.
Quel che bisogna tener presente – data la complessità che ho tentato di descrivere – è che voler parlare di autografia o di allografia per il cinema diviene impresa più che mai ardua. Tanto per cominciare, l’opera finale (il testo fruito dagli spettatori) parrebbe appartenere al regime autografico, sia pure a oggetto multiplo, dato che si tratta sempre e soltanto di quella precisa e immodificabile successione di immagini e di suoni che, nello spazio di quel tempo ben determinato, si materializzano nella sala di proiezione... Ma, in compenso, i materiali che la compongono – essendo riconducibili sia alla “fotografia” (regime autografico) sia alla “verbalità” (regime allografico), sia alla “musica” (regime autografico o allografico a seconda di come la si consideri), sia al “rumore” (nessun regime, direi) – sono da tal punto di vista indecidibili. E anche la differenza (o il rapporto) tra oggettualistico e performativo nel cinema rischia di non essere più una questione molto chiara. Ciò per almeno due buoni motivi: 1) il testo finale è in sostanza qualcosa di fisico (immagini più suoni) ma non tanto oggettuale quanto lo sono le immagini (non certo i suoni) delle arti tradizionali[13]; 2) inoltre, tutto ciò che concorre a produrlo proviene da atti performativi in senso strettissimo (performances degli attori, della mdp, degli operatori di quest’ultima, dei tecnici vari, degli animali e perfino degli oggetti che vengono ripresi), così che un film può anche legittimamente essere inteso come un’unica grande performance collettiva registrata, che non a caso può essere accostata al teatro benché sia destinata a ricadere – appunto – in un testo semi-oggettualistico che il teatro non conosce[14].
Performance filmata, sicuro... E però – con ogni evidenza – tale da escludere a priori quell’ambiguità a cui facevo cenno all’inizio, riferendomi a certe pratiche di così detta videoarte o a certe sperimentazioni para-teatrali che si ascrivono all’ambito (oggi assai lato) delle arti visive in generale. Nessuno potrà mai di sospettare, infatti, che il cinema allestisca performances (ciò che infatti viene denominato, con chiaro intento limitativo, profilmico) per uno scopo diverso da quello di registrarle su pellicola o su supporto digitale, ottenendo come oggetto estetico – vale a dire come unico ed esclusivo testo fruibile – la registrazione medesima (assai rielaborata): null’altro che la proiezione luminosa, con annessa emissione di effetti acustici, che tali performances rende sì percepibili al pubblico, ma solo a patto di modificarle per mezzo del montaggio e di virtualizzarle completamente, trasformandole, appunto, in immagini e suoni.
Sandro Sproccati
(2009)
NOTITIA TITULI EXPLICATORIA
A esorcizzare gli equivoci, e ancorché un pizzico di mistero nelle cose della mente di per sé non guasti, desidero far rilevare che l’intestazione del presente appunto preliminare (che è infatti tale in relazione a un progetto di piú ampia portata) si deve alla circostanza che ha propiziato in nuce la brama di redigerlo. Τrattasi di una discussione “natalizia”, anzi per la precisione scatenatasi la notte di capodanno 2009, a Comacchio, nell’attesa di un brindisi andato poi diserto, una sorta di Cena de le Ceneri in versione gaudente e lagunare, tra i fumi dell’alcool e le code delle anguille, con amici tra i piú cari, che sono inoltre miei sodali nel consesso redazionale di «Rifrazioni»: durante la quale cena, talune mie proterve dichiarazioni mi opposero (sopra tutti) allo stimatissimo Pietro (Petrus) Babina, che è protervo quanto me. Poiché mi pregio di vedere in tali dispute un che di simile alle nobilissime – speriamo! – contese dei teologi patristici, presso cui lo scazzo filosofico non andava a inficiare una piú profonda concordia nel quadro della fede condivisa, ecco, appunto, il titolo: Contra Babinam.
[1] Intanto vanno segnalati però i libri che con maggior merito hanno fatto (o tentato di fare) chiarezza sulla questione: Nelson Goodman, I linguaggi dell’arte, Il Saggiatore, Milano 2003 (edizione originale: 1968), e – sulla scorta di questo, ma con risultati più cauti e articolati – Gérard Genette, L’opera d’arte. Immanenza e trascendenza, Clueb, Bologna 1999 (edizione originale: 1994).
[2] Ma pressoché illimitate – occorre aggiungere – sono le estensioni modali che la prassi artistica contemporanea ha proposto in sede di nuovi linguaggi dell’evento e dell’azione. Tanto che, oggi, si devono ritenere addirittura più numerosi gli artisti che, nell’ambito delle così dette “arti visive”, si esprimono con tali mezzi performativi rispetto a coloro (pittori, scultori, grafici, ecc.) che realizzano opere oggettuali in senso proprio.
[3] È necessario qui accettare e rimarcare uno dei princìpi costitutivi della semiotica saussuriana, e cioè che il significante linguistico è sempre necessariamente costituito da un fenomeno fisico, anche se eventualmente (e proprio il linguaggio verbale fa testo su ciò) sonoro o luminoso o di qualunque altra natura, e non per forza una “cosa” nel senso banale del termine.
[4] Diciamo anche che nessuno dovrebbe poterlo fare esattamente come a nessuno spettatore di cinema è concesso di poter “fruire” ciò che avviene sul set (e più in generale nell’ambito della sfera “profilmica”: riprese, laboratorio di montaggio, ecc. ecc.) come se ciò equivalesse vedere il film in una sala cinematografica.
[6] In base all’ulteriore classificazione proposta da Genette, L’opera d’arte. Immanenza e trascendenza, cit.
[7] Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966 (edizione originale: 1936).
[8] Tanto che Goodman utilizza esattamente il criterio empirico della “falsificabilità” per riconoscere le opere autografiche e per distinguerle a colpo sicuro dalle allografiche. Le prime sono falsificabili, dato che copie (presunte identiche) dell’oggetto-opera non equivalgono ad esso ma tendono piuttosto a spacciarsi per esso, quasi sempre per scopi fraudolenti, mentre le seconde non sono falsificabili, dato che loro copie (identiche o meno, non importa) non tendono mai a spacciarsi per falsi originali, ma si dànno invece come esemplari tutti equivalenti di un oggetto che è di per sé infinitamente replicabile.
[9] Non si deve qui confondere il valore antiquario del manoscritto originale di Bruckner con il suo valore estetico in sede musicale, che non è superiore a quello di qualsiasi sua trascrizione a mano o a stampa.
[11] Per un sunto delle più avvertite precisazioni circa la posizione di Artaud in merito al problema trattato cfr. Umberto Artioli, Francesco Bartoli, Teatro e corpo glorioso. Saggio su Antonin Artaud, Feltrinelli, Milano 1978. Fondamentali nella loro chiarezza sono poi i saggi di Jacques Derrida compresi in La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1982 (Il teatro della crudeltà e la chiusura della rappresentazione e Artaud: la parole soufflée).
[12] Non è il caso, credo, di andare ad affrontare in questa sede quali penalizzazioni o variazioni ricettive rechi con sé la possibilità, intervenuta solo da pochi decenni a questa parte, di fruire il quadro cinematografico sullo schermo di un televisore o, in tempi ancor più recenti, sul monitor di un computer.
[13] Il quadro pittorico, ad esempio, è fatto di pigmenti cromatici materialmente fissati su un supporto fisico, mentre il quadro cinematografico è fatto di luce proiettata (e sia pure su un supporto ugualmente fisico), di modo che se il quadro-dipinto è una cosa concreta, maneggiabile, trasportabile, possedibile, il quadro-cinema è una specie di cosa virtuale che si smaterializza ogni qual volta cessa di essere fruita nelle circostanze precise della sua ostensione al pubblico
[14] Vi è poi, a dire il vero, anche il caso del teatro filmato, in base a varie modalità e gradazioni di complessità linguistica: dal semplice film documentario che riproduce, estendendone la fruibilità, un testo teatrale più o meno così come l’avrebbe potuto recepire uno spettatore il quale, quel giorno in quel luogo, avesse avuto gli occhi e le orecchie nella posizione della mdp, a opere originali di cinema-teatro quali sono quelle a cui si sono dedicati, per fare due soli esempi, Ingmar Bergman (Il flauto magico) o Joseph Losey (Don Giovanni), e non dimenticando gli esperimenti vari che hanno prodotto in tal senso alcuni registi d’avanguardia come Derek Jarman.
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