sabato 2 febbraio 2013

BRESSON – «Une femme douce» (1969)
Prima sequenza: il “volo a velo”...



Quadro fermo sul dettaglio di una porta a vetri. Al centro geometrico: la maniglia di ottone che permette di aprire. Nell’attesa, passi risuonano nella stanza, e una mano giunge a dare un senso alla maniglia. Lo sguardo subisce, di spalle, l’ingresso della donna, invece di cercarla frontalmente per ruotare con lei nello spazio. Da sinistra: il braccio della donna, una mano che preme verso il basso: la prima spaccatura della visione. Immobile, persistente. La porta viene aperta, la donna indugia, vi transita e poi si blocca. Il quadro stretto (camera fissa) è ora diviso in due dalla schiena massiccia: la testa è fuori campo in alto, le gambe fuoricampo in basso. La mole dell’abito scuro, sbarrato dalla croce obliqua delle bretelle, sembra notificare una preclusione. Invece la domestica riprende il movimento ed esce dal campo verso destra, restaurando la visibilità totale. Stacco. Il quadro, avanzato in ripresa di qualche metro, mostra ora il balcone, dove un dondolo oscilla a vuoto mentre un tavolo sbanda e poi cade, senza una ragione, crollando e facendo crollare un vaso di fiori. Il rumore incrementa il disagio dell’ellissi: omissione d’atto d’ufficio, omissione dell’accaduto. Quadro fisso e rumore protagonista: rumore del vaso, del tavolo, e poi – a suggerire l’idea disastrosa – la pugnalata feroce di una frenata d’auto sulla strada (invisibile)... Al contempo la donna rientra in campo, ancora da sinistra, e di nuovo si ferma, interdetta quanto lo spettatore. Altro stacco. Veduta esterna, con il balcone in alto. Soave, morbido, indicibilmente persuasivo, il volo-a-vela di uno scialle bianco che fluttua in aria contro il cielo, disegnando un aprile crudele quanto un suicidio, e lentamente perde quota. Il quadro è questa volta mobile, dacché, vacillando, asseconda il candore per mantenerlo al centro. E altre brucianti frenate sulla strada stridono in ossimoro, duramente, sfregando contro quest’immagine, tentando di sfregiarla con il suono, ma senza riuscirvi. Ultimo stacco. Due automobili ingombrano il quadro, ora orizzontale, e abbordano il marciapiede dopo le frenate. Sono inquadrate una dietro l’altra: al bianco dell’una si aggiunge il rosso dell’altra. Come a preannunciare un schiaffo bicromo sui nostri occhi esterrefatti, ossia quando la cinepresa, ruotando verso destra e seguendo le gambe (nuova sineddoche) degli automobilisti, raggiunge il corpo di una donna prona sul selciato: il bianco della camicetta, il rosso del rivolo di sangue. Prospettiva mantegnesca, ma due volte a rovescio: il corpo è veduto dal lato della testa, ed è prono invece che supino. Gli apostoli sono ritti in piedi, ma non se ne vedono che i piedi. Ugualmente a rovescio il tutto si spiega: la stanza, la domestica, il balcone, il tavolo che oscilla, la sciarpa che cade, le frenate... Una sciarada della tragedia, costruita su immagini parziali, frammentarie, spietatamente allusive e mai prensili, sui quadri di una non-rappresentazione... e su un tempo che è sempre in ritardo, su un affannoso inseguimento dell’accadere che vale come un fallito tentativo di salvataggio.

[in “Rifrazioni”, n. 7, 2011]

giovedì 24 gennaio 2013

EROS E THANATOS IN MIZOGUCHI



Mizoguchi Kenji – Eros è Thanatos


Il classicismo cinematografico giapponese trova in Kenji Mizoguchi il suo esponente forse piú rappresentativo... sempre che per classicismo si voglia intendere una situazione di piena maturità (congiunta a perfezione estetica) entro le coordinate di uno storicamente conseguito valore di esemplarità assoluta – il che è quanto la nozione, in fin dei conti, prevede e impone. Ciò significa che le opere di Mizoguchi sondano la via di un paradigma linguistico che, in sede cinematografica, si offre come squisitamente nipponico, un modello al quale, a controprova, per molti anni non potrà e non vorrà sottrarsi neppure il grande Akira Kurosawa. Ed esse lo fanno sia affidandosi a “soggetti” totalmente affogati nella dimensione favolosa e tetra del Giappone feudale premoderno (dal decimo al diciasettesimo secolo), sia ricercando per quei soggetti cosí faticosamente tragici una peculiarità espressiva le cui atmosfere trasudano da ogni immagine e da ogni sequenza dei films di Mizoguchi, ovvero una sorta di “panneggio formale” complesso e ardito, a pieghe multiple, capace di restituirne il climax ineffabile (la proiezione immaginosa a ritroso) prima ancora che la presunta verità oggettiva: mai riducendo a storia – infatti – ciò che alla storia non si acconcia poiché antistorico per condizione intima.
Nato nel 1898, Mizoguchi ha iniziato a produrre opere cinematografiche già poco piú che ventenne, ed esattamente dal 1922, dapprima dedicandosi ad adattamenti di testi narrativi letterari, poi – dopo l’avvento del sonoro – a films di carattere realistico-biografico. Insieme a Yasujiro Ozu e Mikio Naruse, per tutti gli anni Trenta e Quaranta ha tenuto ben saldo tra le mani il monopolio della qualità nel cinema della sua terra, benché sia il caso di specificare che i capolavori piú persuasivi sono in verità da collocarsi negli ultimi dieci anni della sua vita, cioè in quel periodo davvero “aureo” che va dalla fine della catastrofe bellica alla morte del regista, distrutto dalla leucemia il 24 agosto 1956. Il suo ultimo film, La strada della vergogna, pur di apprezzabilissima fattura, certamente risente della fase terminale della malattia, ma negli anni immediatamente precedenti Mizoguchi aveva messo in fila una serie di lavori di straordinaria potenza linguistica, come Vita di O-Haru, donna galante (1952), I racconti della luna pallida di agosto (1953), L’intendente Sansho (1954), Gli amanti crocifissi (1954) e L’imperatrice Yang Kwei-fei (1955).
In tali testi – i quali, con i pressoché coevi Tarda primavera (1949) e Viaggio a Tokio (1953) di Ozu, hanno contribuito in maniera determinante alla “scoperta” del cinema giapponese in Occidente – troviamo appunto irrobustita al massimo grado, e quasi portata all’incandescenza, la temperie delirante dell’opera di Mizoguchi, che si intrica intorno al fulcro tematico di uno sprofondamento nell’irrazionalità “scatenata” del medioevo nipponico e che in parte vien fatta propria anche dai primi films del giovane Kurosawa, da Rashomon (1950) a I sette samurai (1957). La condizione letteralmente disumana a cui è piegato l’intero universo femminile, il malinteso e quasi paranoide senso dell’onore nel contesto di un classismo spietato, banalmente orrendo, sempre declinante nell’idolatrico culto del potere e del denaro, ossia nell’annichilimento di ogni plausibilità degli affetti e nel continuo precipitare del sesso nella morte, sono la marca specifica di interpretazione che Mizoguchi elabora intorno al proprio atroce abisso arcaico: come una chiave di accesso al rapporto altrimenti impoetico che in sede di linguaggio cinematografico viene a istituirsi, per qualsiasi soggetto, tra soggetto e sua rappresentazione.

L’originalità dell’arte di Mizoguchi si fonda su una rilettura del nesso di eros e thanatos nel quadro della violenza posta in atto dal potere in una società barbaramente feudale com’è quella del Giappone antico. Il sesso vi precipita di continuo nella morte in quanto le motivazioni di ogni atto individuale, entro tali coordinate culturali, rendono assurda la vita stessa e la deprimono in non-vita. E andrò poi a spiegare come una simile impostazione ideologica, che alligna in ogni film come un traurig motiv unificante e imprescindibile, si ripercuota sullo “stile” del regista sovradeterminandolo e rendendo – appunto – esclusive e inconfondibili le scelte estetiche della sua produzione terminale. Ciò che tiene insieme le opere di tale fase è una sorta di idee fixe, una costante tematica la quale, ben oltre la varietà delle situazioni letteralmente e in superficie tematizzate, e dunque ben al di là (o al di qua) delle storie narrate, è sempre presente e sempre incombente sul significato ultimo che i diversi films propongono, da cui dipendono e a cui si assecondano, in esso e da esso (soltanto) trovando il loro scopo e traendo la loro forza. Il “significato” si crea, insomma, in tali opere, quasi per condensazione di pensieri (e di esempi) che la costante tematica in oggetto coagula attorno a sé e al tempo stesso “illustra”, facendosi carico di risolvere simbolicamente – con la propria sempre rinnovata epifania, con il proprio ergersi a conclusione finale inevitabile – ogni accusa e ogni denuncia circa l’insostenibilità della vita in generale, circa la tragedia delle vite vissute in particolare, nel luogo tragico dell’arcaismo dei secoli feudali.
Va da sé che tale costante, tale idee fixe, è proprio e precisamente la ricaduta letale di ogni tentativo di amore, la morte come destino che segue e perseguita ogni slancio erotico che non sia stato preliminarmente sottomesso a una regolamentazione precauzionale, sterilizzante e dunque ugualmente mortifera, a una mortificazione, pertanto, preventiva e castrante, entro regole sociali di casta (e di famiglia) che non sembrano avere altro senso se non quello di impugnare le categorie dell’onore e dell’obbedienza come armi capaci di inibire ogni libertà erotica, ovvero, evidentemente, di scongiurare la pericolosità devastante – per la conservazione ad aeternum del potere – dell’amore in quanto tale.
Forse in maniera del tutto indipendente dall’archetipo europeo del nesso amore-morte (archetipo greco, mitologico, melodrammatico, poi infine anche psicanalitico) Mizoguchi arriva a una propria deliberata e matura elaborazione del concetto. Ma vi arriva, con ogni probabilità, appunto perché libero dall’archetipo e dalle sue implicazioni dialettiche... Voglio dire che il nesso in lui è il risultato di una riflessione e di un’analisi critica, ed è altresí il prodotto di una scelta di metodo interpretativo effettuata: sicché, nella sua visione, nulla mette al riparo, nulla giustifica, nulla attenua, nulla fornisce alibi. La punizione dell’amore con la morte (Gli amanti crocifissi) o la sottrazione dell’amore da parte della morte (Vita di O-Haru), l’abbraccio mortifero o il coitus morti interruptus, sono qualcosa che distrugge l’armonia della vita, niente affatto ribadendola.
Mi spiego meglio, o almeno ci provo. In Occidente l’archetipo (lo chiamo cosí per comodità terminologica, quindi senza mettere in campo o dover difendere alcuna professione di fede junghiana) agisce nel “bene” e nel “male”. Il suo fondamento greco lo sottrae a qual si voglia accezione sbilanciata, a qualunque monopolio del negativo. Del resto, esso non fa che ridurre la morte a evento funzionale alla vita e alla sua riproduzione incessante e necessaria. Cosí Narciso si riscatta ed è glorificato in un fiore (rinasce) attraverso la morte che la sua maldiretta (eterodiretta?, omodiretta?) sessualità gli ha procurato; cosí Isotta muore e trova nella morte la propria estasi, il piacere sessuale piú sublime, una felicità definitiva (non diversamente dalla Santa Teresa della cappella del Bernini); cosí si ricongiungono nella morte, in un amplesso eterno, Paolo e Francesca, «quali colombe dal disïo chiamate / con l’ali alzate e ferme al dolce nido», in un inferno tutto sommato tollerabile se Francesca, rimarcando l’unificazione, può dire che «amor condusse noi ad una morte». Cosí, infine, per Georges Bataille «l’erotismo è conferma della vita fin dentro la morte».
Va rimarcato: vita, e non morte, fin dentro la morte eros produce e procura! Laddove in Mizoguchi, al contrario, thanatos perseguita eros come un nemico, come una punizione, come una nemesi preordinata e invincibile, niente affatto necessaria e tuttavia puntualmente incombente come per un meccanismo di causa-effetto, e altresí per un’incidenza solo deducibile a-posteriori: cosí accade perché cosí è (senza dover essere) alle latitudini (anti)storico-culturali del Sol Cadente medievale.
Sarà bene qui aprire una parentesi. Parrebbe di capire (ammesso di poterci capire qualcosa guardando il tutto, ossia entrambi i “poli”, dall’Europa) che la valenza archetipica, psico-antropologicamente motivabile, del nesso eros-thanatos, presso la cultura, che muovendo dall’agorà greca, si è sviluppata nel cristianesimo (cultura della morte di dio stesso, a ben guardare), sia esattamente quanto pone al riparo l’Occidente dalla declinazione totalmente catastrofica che agisce in Mizoguchi. Non è facile comprendere – infatti – la dinamica scellerata che nei films del giapponese tiene le redini del gioco e determina la tragedia, e sicuramente non è facile proprio perché entro le nostre coordinate culturali quel nesso sussiste in una dimensione psico-antropologia profonda e ha una certa valenza: caduta sí, ma anche riscatto. Per la cultura cui apparteniamo, l’erotismo – negazione dell’atto sessuale riproduttivo – ribadisce la continuità vitale esattamente là dove essa, se si presta fede alle apparenze, sembrerebbe abolita: cosí è la morte, in quanto implicita trasgressione del vivente e del perpetuo tramando, in quanto pura utopia nel seno di una natura in incessante rigenerazione, è la morte come atto simbolico e assoluto, che la pulsione erotica cerca di raggiungere, attraendo chi ne è posseduto nel suo luogo misterioso, in un luogo prossimo a quello che la morte, come verità ultima ma inesperibile, presidia: luogo della perdita dei sensi e della caduta del senso, del cedimento e della vertigine, dell’esperienza panica (dionisiaca) come fuoriuscita dall’io, luogo sempre adombrato e quasi allegorizzato dall’emozione irrapresentabile dell’orgasmo. Per dirla con la stupefacente “rivelazione” del Tasso, nel luogo del compianto forse piú alto che la scrittura italiana abbia mai concepito:
    
Non morí già, ché sue virtuti accolse
       tutte in quel punto e in guardia al cor le mise;
       ...
       Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse,
       colei di gioia trasmutossi, e rise:
       e in atto di morir lieta e vivace
       dir parea: “S’apre il ciel; io vado in pace”.

Estasi, orgasmo, morte. La rinascita («a dar si volse vita con l’acqua») è tutta compresa nel cerchio magico dell’estinzione e della rinuncia. Il culmine del possesso carnale, o meglio la spirale ascendente dell’erotismo, è all’origine psicologica di ogni mito di redenzione, di ogni esperienza estatica: ossia di ogni proiezione di immediatamente percepiti e indissolubili legami tra la manifestazione massima della vita e il suo contrario: l’amore, la morte.
Ma questa, appunto, è cultura (sensibilità psichicologica) europea, che poco ha da spartire con il Giappone di Mizoguchi. Quando gli amanti vengono crocifissi, nel racconto loro dedicato, e vengono crocifissi per il solo fatto di essere amanti, non v’ha ombra di redenzione che aureoli i loro corpi legati insieme sulla carretta del supplizio, e non c’è estasi che tenga in quei paraggi. La morte si dà sí come effetto dell’amore, ma esattamente ed esclusivamente in una chiave di destino perverso, e umanamente (per volontà tutta umana, per agghiacciante dovere sociale) pervertito. Qui la morte rammenta piuttosto – volendo ricorrere a un luogo topico del nostro immaginario poetico – il pozzo di sangue in cui Lady Macbeth tuffa mani che niente e nessuno potrà mai mondare. Si tratta insomma di quella morte che contrasta e abbatte la vita, negandola, annientandola. Non c’è riscatto, non c’è motivo, non c’è schema – se non falso e opprimente – che possa legittimare il rapporto: eros produce distruzione perché a mezzo della distruzione della vita viene grottescamente punito, e il “nesso” è infatti da Mizoguchi interpretato come un increscioso esito della stupidità umana.
In Vita di O-Haru, donna galante (da un romanzo seicentesco di Ihara Saikaku) assistiamo alla disperante continua capitolazione della protagonista, che di vicissitudine in vicissitudine è sempre piú umiliata nella propria condizione di donna e nella propria sensualità femminile, la quale viene descritta – in sé e per sé – come una sorta di colpa naturale e ciò nonostante (o perfino proprio per questo) drasticamente irredimibile. Quello che a mio avviso è il capolavoro piú intenso di Mizoguchi muove da una prolessi che coglie in incipit la matura età di O-Haru (Kinuyo Tanaka), ovvero la sua estrema decadenza: quasi come una derelizione e uno schianto prefigurato nella morte che incombe, in quella morte decretata, cioè, per la donna non piú giovane dalla società dell’epoca. Una lunga sortita analettica (in sostanza il racconto primario) consente di ripercorrere l’esistenza pregressa della cinquantenne, che ebbe il torto – proprio al momento della consacrazione come cortigiana imperiale – di innamorarsi di un maschio di bassa condizione sociale (Toshiro Mifune) e la pena di veder subito applicata, a eterna vergogna dei due amanti, la nemesi inesorabile: l’uomo viene decapitato e la donna è esiliata da Kyoto e declassata al rango di puttana. Il via alla rammemorazione che il testo si accinge a tematizzare è dato dalla pressoché mistica visione subita da O-Haru in un tempio, dinnanzi a una statua buddista, nei cui tratti ella crede di scorgere il volto di Katsunosuke, l’innamorato ucciso, e di cogliere – pertanto – l’intero tragico senso della propria esistenza. Cosí quel che si era poco prima rifiutata di narrare alle compagne di meretricio («Come ti sei potuta ridurre cosí? Ho sentito che lavoravi alla Corte da giovane... come sei arrivata cosí in basso?» – «Non chiedetemi niente del passato!») O-Haru prende a viverlo nel ricordo... e con lei lo ripercorre, come un inesauribile tragitto di sciagura, anche lo spettatore. Data la propria origine aristocratica e la fama di donna dai facili costumi, O-Haru verrà chiamata da un feudatario potentissimo a partorire per lui un figlio che poco dopo le sarà sottratto, per essere cosí espropriata della maternità e subito ricacciata nella melma. L’arroganza della ferocia maschile non cesserà di perseguitarla nemmeno quando la donna tenterà di farsi monaca, poiché sarà sufficiente un attentato sessuale da parte di un profittatore a ripiombarla nell’infamia e a riadditarla al pubblico ludibrio.
Occorre però mettere innanzi, a questo punto, un’osservazione che a me pare assai importante. Il rocambolesco susseguirsi di vicende sciagurate, di cui O-Haru è protagonista e vittima, non sembra poter scalfire in nessun modo la dura, misurata e quasi glaciale neutralità formale con cui Mizoguchi tali vicende narra in immagini e a parole. Una specie di impassibilità dello sguardo, una grammatica della visione scandita da un ritmo estetico di pura contemplazione, una oggettivazione estrema – pur nell’afflato pressoché onirico del presupposto rammemorativo – sottrae al film la partecipazione emotiva dello spettatore (dato che gli nega di fatto l’immedesimazione dell’io-narrante), mettendolo in condizione di valutare tutto con un distacco che nel cinema occidentale – fatta forse eccezione per pochissimi autori, Robert Bresson ad esempio e solo in parte – sarebbe pressoché inconcepibile. E qui sta forse la marca piú autenticamente originale di Mizoguchi, nonché la sua grandezza.
A livello prettamente tecnico-linguistico: l’alternarsi in tutte le scene di piani lunghi e brevi secondo un preciso impianto ritmico, la scelta di una distanza focale media per tutti i personaggi e per tutte le situazioni, con campi mai ravvicinati e conseguenti figure ogni volta inquadrate per intero, i movimenti di macchina lenti e concepiti “a seguire” gli attori nei loro brevi spostamenti trasversali o di fuga, la quasi assoluta assenza di primi piani frontali dei volti a favore di riprese di profilo, e sovente addirittura di spalle, sono tutti elementi di rappresentazione scelti come altrettanti indispensabili mezzi per la piena e adeguata funzionalità linguistica del film: una funzionalità linguistica che per Mizoguchi è garanzia di efficace produzione di contenuto critico da parte del materiale narrativo, da parte della storia allestita in spettacolo. Uno stile calibratissimo, dunque, teso a realizzare un assoluto rigore della rappresentazione, la quale viene concepita come semplice esposizione di fatti e di ripercussioni di fatti, giacché (come già sottolineato) non si tratta per nulla di contingenze soggettive, di personali emozioni e umane reazioni, di dati da descrivere entro il quadro di una casistica particolare, ma piuttosto di oggettive istanze del potere e della cultura, iperdominanti e ipostatiche, sublimate – quasi – nella loro ieratica legalità, in altre parole di inevitabili e già da sempre prevedibili meccanismi di un accadere che non potrebbe essere diverso da ciò che è, che non potrebbe manifestarsi diversamente da come si manifesta, entro quei presupposti (anti)storici dogmatici e violenti.
«Spero che arrivi un tempo in cui ci si potrà amare senza preoccuparsi della classe sociale», sono le ultime parole di Katsunosuke, pochi secondi prima che la sua testa sia mozzata; ma il colpo di spada che la recide è lí a dimostrare che quel tempo non potrà mai giungere, è lí a sancire la stasi pantocratica di una società che non conosce il divenire e il mutamento. E le parole di Katsunosuke, da quel colpo, sono messe a tacere per sempre.
L’unico concetto disponibile alla nostra psicologia che possa indicare il modo in cui gli avvenimenti accadono in Vita di O-Haru è dunque – alla fine – quello di fato, nell’accezione mitica del termine. Ma vi è ancora una differenza, una difficoltà. Nei greci antichi, nelle narrazioni omeriche, il fato è sovrumano, si muove secondo logiche impersonali perché correlate al divino, insediate in un altrove della volontà che all’uomo non compete né comprendere né mutare; mentre in Mizoguchi sono gli uomini, la vita sociale degli esseri umani (una vita che sembrerebbe addirittura da loro scelta) a determinare la stessa ineluttabile predestinazione dell’accadere... E allora qui c’è qualcosa che per noi non torna. Nulla ci è detto delle emozioni dei personaggi del film, nessuna psicologia si applica alla recitazione e alle tecniche di ripresa, che non concedono nemmeno la piena visione dei volti, degli sguardi, delle espressioni facciali. Nella narrativa cinematografica occidentale, classica e no, lo spettatore sa sempre (è di continuo chiamato a sapere) quel che i protagonisti della storia provano sentimentalmente, al di là di quello che fanno o dicono. In Mizoguchi, al contrario, apprendiamo dalle sole parole e dai soli fatti tutto quel che c’è da sapere (invero pochissimo) circa le emozioni e i sentimenti di uomini e donne. La psicologia è bandita giacché, con ogni evidenza, nulla essa conta ai sensi dei destini e delle tragedie che incombono, nella disumanazione totale di cui gli esseri umani sono vittime! Si ama per coazione disperata, si muore per conseguenza predestinata. Eros è thanatos perché né erosthanatos – nella classica ricostruzione che Mizoguchi propone della non-vita nipponica arcaica – avranno mai il benché minimo valore.

 [“Rifrazioni” n. 11, Bologna, 2013]

«IL GRIDO» DI ANTONIONI


Psicovisione del vuoto: il Grido del paesaggio


Ho ancora viva la memoria di quando, ragazzo poco piú che tredicenne, mi trovai per caso a passare con mio padre in una zona di Ferrara che amavo già allora e che ho sempre amato in sèguito, sbalorditiva per quella sua ovvia e facilmente interiorizzabile tristezza, bella come la malinconia, paese e città in un sol tempo, mesta e terribilmente nobile, arrogante nella sua delicatezza: con case basse, di epoca indefinita, antiche e semplici, uniformi, piú che sobrie... pressoché sussurrate dal tempo come in un alito di luce scialba: silenti e come vaghe nella prospettiva di strade difettose e lievemente concave al centro, dove al piede e all’occhio si oppongono ispidi acciottolati onnipresenti. Non era la bella Ferrara medievale in senso proprio, non la città dei monumenti dico, ma un’immagine piú dimessa (e per me piú vera) della magnificenza degli estensi: era quell’estremo lembo della zona vecchia che sta tra il corso della Ghiara – cosí detto perché un ramo del Po vi fu coperto da Biagio Rossetti all’alba del Rinascimento – e la via Scandiana, al temine della quale, negli stessi anni, i pittori di Borso si arrabattavano a suscitare Mesi sulle vaste pareti di Schifanoia.
E non avrei il ricordo di quel transito mio specifico – io, che in quella zona ci ritorno ogni qual volta approdo alla città dell’infanzia e del rimpianto, alla mia Ferrara odiata con amore, come si possono cordialmente odiare solo i rimorsi – se mio padre non mi avesse indicato, quel giorno, una casa in particolare – non so piú quale – come la casa di Michelangelo Antonioni... e se non avesse aggiunto, in tono tra la deferenza e il compiacimento, che si trattava del piú grande autore cinematografico nostro paesano, ovvero di un ferrarese tra i piú grandi in assoluto. Osservo qui – e anche questo partecipa ai rimpianti – che alla fine degli anni Sessanta il medico di campagna, mezzo contadino e mezzo chirurgo, già conosceva le opere del regista piú difficile e introverso, del piú complicato e anche contestato tra i creatori del cinema italiano! Io no, ovviamente, ma quel nome mi è rimasto dentro come un segno di fuoco nell’immaginario, come un mito resistente, fino alle successive visioni di Blow Up e di Professione: reporter, nella fase d’entusiasmo dei miei anni liceali e poi universitari, e quindi fino alla passione, susseguente, del recupero delle opere piú classiche, quelle cioè che dovevano aver prodotto l’alta opinione nella mente di mio padre, tra i Cinquanta e i Sessanta: Cronaca di un amore, I vinti, Il grido, L’avventura...
Quel che vorrei azzardare è che vi sia un rapporto, anche al di fuori della suggestione di cui son vittima, tra il paese che Antonioni ha sempre vissuto come irrinunciabilmente suo – ovvero anche quando soggiornava a Roma e a Londra – e le atmosfere ansiose, i cieli pallidi, gli strazi urbani, i campi deserti e sconfortanti, le rovine quotidiane, opprimenti e tormentate, che fanno da sustrato psicovisivo alle indicibili sofferenze esistenziali dei suoi personaggi. Tali “visioni”, in parte uscenti dal soggetto appositamente filmato, ossia da quei paesaggi, in parte create a mezzo di sapienti tecniche di ripresa, ossia capaci di rendere tali quei luoghi, concorrono in modo essenziale a determinare la forza mostruosa del cinema di Antonioni, ovvero a costituirne l’efficacia in relazione a ciò che egli vuole narrare. In base a una “poetica” condivisa con un’area importante della poesia del Novecento, da Thomas Stearns Eliot in poi, le immagini della desolazione sono infatti in Michelangelo correlativi oggettivi di ciò che altrimenti non si potrebbe dire affatto, a meno di dirlo in maniera letterale, banale e didattica, del tutto inefficace: la profonda disperazione che è nella vita dell’uomo (occidentale) contemporaneo, la sciagura della sua deviazione tecnicistica e consumistica, la sua perdita di spiritualità e di autenticità nel rapporto sociale e intersoggettivo. Insomma quel che, a fianco di Antonioni, anche se con mezzi assai diversi, andava dicendo nella stessa traiettoria storica – con altrettale e anche piú cupo sconforto – Pier Paolo Pasolini.
Che in Antonioni, come in molti altri registi degni del titolo, si contempli l’urgenza di spremere dal quadro visivo (qui inteso come sfondo, e dunque completamento dell’azione scenica) tutto ciò che esso può conseguire nella definizione di un senso morale, di una persuasione indotta, tale da riqualificare gli atti, i gesti, gli sguardi, le parole e ancor più i silenzi, dei personaggi, come qualcosa che ne determina – non per convenzione simbolica: per convergenza e per correlazione oggettiva, e pertanto, semmai, nel flusso potente di una produzione allegorica – la temperie psichica, è dato ovvio e che non metterebbe conto di sottolineare, in linea di massima... Ma in lui, diversamente che in altri – e in ciò è il punctum – non è tanto la ricerca dell’eccezione, dell’insolita visuale, a fare testo, quanto piuttosto l’adesione a una norma paesistica già data, ritrovata senza troppo sforzo nella realtà vissuta e nella memoria, che è “normalità” (appunto) per chi ha sentito sulla pelle propria e di tutti, fin da quando è nato, la gravità opprimente di un vuoto dell’aria e delle cose, dell’orizzonte lontano e del cielo sempre pallido che lo sovrasta (e su di esso preme), nelle lande inospitali della campagna ferrarese e nelle vie deserte per definizione della piccola capitale di una “bassa” che è tra le padane la piú bassa di tutte.
Si noti che nei films di Antonioni sono assai rare le costruzioni temerarie di inquadratura, e che l’azzardo pirotecnico a forte impatto emotivo è quasi del tutto assente dalla sua opera. Dico – per farmi intendere – le riprese alla Welles (come il bastione di Acapulco visto dall’alto di un elicottero in The Lady from Shanghai, o i soffitti minacciosi di Citizen Kane, o i quadri sghembi a chiaroscuro espressionista in The third man, tutto wellesiano anche se firmato da Carol Reed... per non parlare delle acrobazie di cinepresa in Touch of Evil o dei montaggi a fotocollage impazzito di F for Fake), oppure potrei dire ancora il simbolismo visivo delle rotazioni doppie e triple di ripresa in Fassbinder (Martha e Roulette cinese), o ancora le zoomate rapaci in Hitchcock... E potrei continuare a lungo, se solo osassi sfiorare i nomi di Jean-Luc Godard o di Dziga Vertov. Certo, anche nel ferrarese troviamo esempi notevoli di gestione sperimentale della tecnica di ripresa – e basterebbe rammentare il piano-sequenza finale di Professione: reporter, con la lentissima, magica e necro-metaforica, avanzata dell’occhio della macchina (e dunque dello spettatore stupefatto) oltre la grata della finestra, dall’interno all’esterno, oppure il ralenti infinito dell’esplosione della villa in Zabriski Point – ma è come se queste prove d’abilità non fossero del tutto indispensabili alla definizione del suo cinema.
Il fatto è che, di fatto, non lo sono, poiché non su di esse si basa l’energia (incredibile energia!) del linguaggio di Antonioni. Diciamo piuttosto che ciò che rende uniche e fortemente espressive le calme e calibratissime inquadrature dei suoi primi films, e piú in generale di tutto il suo cinema, è la capacità di creare attraverso di esse (per mezzo di sfondi paesistici che sono là a surdeterminarne il senso – sur o sub... anche in modo subliminale, plausibilmente) atmosfere interiori di una densità che si pone ai limiti dello psicologicamente tollerabile. Ne Il grido – che è probabilmente il suo piú alto capolavoro giovanile (1957) – una mano tesa nel vuoto, ad esempio, è qualcosa che si staglia sopra un varco visivo effettivo, un vuoto dell’anima trasferito al vuoto dello scenario rurale piatto e privo di volumi, dove in verticale si stagliano – quasi a costituire la migliore delle ipotesi – linee sottili e senza spessore di pali elettrici o di spogli filari di pioppi schierati in parate spettrali lungo canali stretti e a loro volta rettilinei in fuga trasversale verso l’invisibile...
Pianura sconciamente disumana, giacché disumanata, depravata dalle opere violente di insediamenti spietati e spietatamente improvvidi, lungo i secoli, che reca la memoria del proprio smarrimento progressivo: pianura maledetta da accanimenti di abuso intenso di ogni zolla coltivabile e resa ancor piú “sterile” dal carico infinito di un’infinita e dolorosa (umana o disumana) rassegnazione: prodotto incongruo e increscioso di bonifiche che la malaria hanno solo trasferita, per cosí dire, in una ubiquità pervasiva, travasando la palude del disincanto fin dentro le midolla delle cose e delle case. Oppure case e paesi interi di inospitale infelicità, come Francolino sul Po, in mezzo a quelle lande: case che son piú tetre – dietro facciate di parvenze di un piccolo benessere – dell’inferno del villaggio di Kurz nel fitto della giungla, nel Cuore di tenebra, e comunque tenebrose come l’inferno della vita insensata che accudiscono.
Il grido! L’allegoria vi agisce su tutti i piani e su tutti i livelli: nell’estenuante risposta che le sequenze dànno alla lentezza del paesaggio, nell’influenza reciproca di quadri e situazioni narrative, nel richiamo continuo a “spine nel fianco” (della vita) che il visivo in quanto tale, in quanto contesto, infligge a tutto ciò che di umano esso ammette (ma per tolleranza, si direbbe, piú che per ospitalità), e nello scontro e nel conflitto – infine – tra gli atti e le parole dei personaggi e la “divina Indifferenza” di quelle non-cose, non-oggetti, che sono le cose e le case della campagna ferrarese. Francolino e Stienta rappresentano Goriano: una crasi, non solo lessicale, di Goro e Ariano, entrambi situati sul Po ma a un diverso grado di “altitudine”: in quella voragine progressiva che il fascino malato della foce apre su ciò che finge di fecondare, per inghiottirvi – si direbbe – tutto il vegetale e l’animale che la contaminazione richiama a sé. E poi Ravenna, giustamente a far le vesti di Ferrara, in quanto essa stessa (simile nell’atmosfera, ma forse per il regista meno “marcata” di fastidiosi sentimenti) padana e palustre nel piú profondo delle viscere, e altresí nel piú liscio della pelle.
Centrale, perché ripetuto come un’ossessione, è il non-luogo della pompa di benzina, dove Aldo per un poco si rifugia nel suo falso movimento: lievemente rialzato per l’argine di un canale, tale “punctum” della catastrofe non può che leggersi come ripetizione differente di un’altra e piú antica Ossessione fluviale: quella dell’osteria della Dogana, 1943, nel primevo stupendo grido di consenso alle “tematiche della miseria” da parte del piú aristocratico dei maestri del cinema italiano, Luchino Visconti, che era stato preparato a quel fatale coup de dés – in piena guerra, in pieno fascismo moribondo, in piena catastrofe della patria – dai realisti poetici francesi, da Vigo, da Renoir e da Carné, i primi (forse) ad allegorizzare in dimensione di tragedia l’ambiente fisico di una società di miserabili. Ma in Antonioni, nel suo Grido, lo sconfinato squallore del paesaggio (umano e disumano) fornisce il significante allegorico con solerzia ancor piú immediata. Quasi elementare, visto oggi... ma bisognava accorgersene! Muovendo in doppia direzione dalla pompa di benzina, dalla casa della benzinaia, vagamente opulenta e perfino carnalmente ospitale, ma tuttavia disperata, la strada parte dirigendosi nel vuoto: ovunque si vada, si cade nel nulla. E la fuga è sempre e solo sconfitta, ritorno inopinato, circolo vizioso.
E poi quella torre industriale da cui Aldo si getta, quell’ambiente (umano e disumano) che fa da sfondo al compianto finale dell’opera, quell’alberello spoglio – a sinistra della madonna china sul suo cristo – che richiama consimili arbusti simbolici nelle Pietà del Quattrocento belliniano, dove il grido è già lanciato nel vuoto prima ancora che Irma possa emettere un suono, e anche dopo che il suono si è fatto silenzio mortale, tutti questi elementi non fanno che “realizzare” per il cinema quel che forse la pittura “realizza” da sempre (non potendo in vero disporre d’altra forma linguistica di descrizione): che il dramma degli esseri viventi è specchiato nei luoghi in cui essi vivono o son gettati a vivere. «L’accordo straziante tra la spoglia livida del Cristo, come corazzato dalla morte, e il picco immobile della Vergine impietrita che sovrasta i monti lontani; il funereo pennacchio e lo sterpo attoscato sulla roccia levata di quinta a stringere l’intarsio freddo e rigato del cielo dopo la tempesta d’autunno; i monti di verde lavato presso il borgo pallido; ogni cosa si rilega in una lettura netta e crudele, senza comparazione a quei tempi.» (Roberto Longhi, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, sulla Pietà di Giovanni Buonconsiglio, poeta di un solo dipinto, 1495 ca., Vicenza, Musei Civici).

[In “Rifrazioni” n.10, Bologna, 2012]

sabato 16 aprile 2011

LACLOS E IL CINEMA



Statuti della narrazione: l’irriducibilità delle Liaisons dangereuses alle prerogative del linguaggio cinematografico

di Sandro Sproccati




I due films che hanno di recente dedicato omaggi significativi a Les liaisons dangereuses, il piú entu­siasmante romanzo erotico-epistolare di tutti i tempi – Le rela­zioni peri­colose di Stephen Frears (1988) e Valmont di Milos Forman (1989) – offrono lo spunto per formulare alcune considerazioni, forse non superflue, circa il difficile rap­porto tra racconto letterario e narrazione cinematografica. Vale a dire inducono a mettere in mora le idee piú comuni e acritiche che una (per solito data come scon­tata) liaison (dangereuse, io credo) porta con sé, inficiando la corretta frui­zione delle opere del cinema cosí come di quelle della letteratura.
In prima istanza e nonostante le apparenze e le consuetudini invalse (sia pro­duttive sia ricettive) bisognerà disporsi ad attestare con adeguato puntiglio il fatto che il linguaggio del cinema è strutturalmente diverso – e quindi non omolo­gabile – al linguaggio della narrazione letteraria. Ciò per due ordini di motivi: innanzi tutto perché il cinema basa la propria forma linguistica su ma­teriali audio-visivi che solo in minima parte (voci dei personaggi ed eventuale voce fuori campo) posseggono natura semiotica analoga a quella del materiale verbale (scritto) della fin­zione romanze­sca; poi perché la realizzazione di un’opera di cinema prevede adibi­zioni e dettagli tecnici – momenti fondamentali ai fini dell’esito artistico! – che so­no completamente altri rispetto a quelli che pertengono al lavoro di uno scrittore.
E dico che occorre puntiglio, nel sottolineare questo dato di sostanziale discor­danza tra linguaggi, per il semplice motivo che troppo spesso esso viene miscono­sciuto nelle discussioni (piú o meno colte) circa il rapporto tra quel film e quel romanzo (o racconto) da cui il film è tratto. Al punto che talora perfino esponenti della critica cosí detta specializzata – e dunque non solo fruitori terminali, che discorrono sorseggiando un cocktail al bar – si chiedono banalmente, e diciamo pure assai scioccamente, se il film sia migliore o peggiore del “suo” celebre roman­zo eponimo, ossia vanno a misurare la qualità estetica del primo sulla base di una possibile concorrenza che esso farebbe al secondo.
La verità – assiomatica, per cosí dire – è che tra un film e il suo soggetto scritto (sia esso opera d’arte preesistente o testo elaborato ad hoc e solo in vista del film) c’è un rapporto tutt’al piú strumentale, un rapporto forse necessario in fase elaborativa, ma non certo cogente a livello di esiti finali, i quali contemplano tutt’al più la condivisione di una stessa materia diegetica. Ma la componente diegetica di un’opera non è affatto il suo testo, e ciò vale sia per un racconto letterario sia per un film, dato che il signi­ficante estetico ha sempre ambizioni semantiche assai piú ampie e complesse, quindi decisamente ulteriori, rispetto alla banale facoltà di “raccontare una storia”[1].
Infinite sarebbero le considerazioni che potrei addurre per sviluppare e rafforzare la tesi introdotta, ma – con un’opportuna tonsura all’iperbole – direi che tre argomenti in tutto possono anche bastare. Primo argomento. Il segno visivo, ossia l’imma­gine, e specialmente l’immagine fotografica su cui il testo filmico fonda la propria componente linguistica priorita­ria, ha per sua natura caratteri che il segno verbale non conosce, e in particolare quello di unire un’assoluta forza di persuasione – forza (se non violenza) eidetica, infatti – a una quasi altrettanto spiccata, e in un certo senso conseguente, incapacità di mentire. Secondo argomento. La qualità e l’identità stessa di un testo cinematografico – cosí come è leggibile allorché viene reso pubblico ­– vengono ordite in gran parte durante una fase terminale di manipolazione di materiali (pre-elaborati) che non ha alcun corrispettivo in altre forme di testualità artistica, essendo il montaggio (come giustamente sostenevano i grandi registi russi degli anni venti[2], e come ha ribadito in sede di indagine teorico-semiotica Christian Metz[3]) la prerogativa qualificante del cinema come mezzo espressivo e artistico. Terzo argomento. Proprio Metz ha sottolineato in piú occasioni la sua convinzione che possa rientrare nel concetto di montaggio, appunto come essenziale processo costitutivo del cinema, l’insieme di quei “movimenti di macchina” che appartengono alla fase di produzione dei materiali filmici e che contribuiscono a rendere il punto di vista del narratore (gestore delle immagini) assolutamente dinamico rispetto alla materia diegetica (il narratum), ossia capace di costringere lo spettatore a “letture guidate o forzate” della medesima, e dunque di modificarla e plasmarla ­secondo logiche squisitamente visive[4].
Il primo argomento merita tuttavia qualche ulteriore riflessione. Si tratta di comprendere come il “fattore di verità” a cui l’immagine del cinema è adesa (proprio in quanto immagine, e ancor piú in quanto immagine di origine fotografica)[5] implichi uno speciale statuto della finzione narrativa rispetto alle condizioni in cui essa si attua nel romanzo o nel racconto letterari. Uno statuto fortemente condizionato dal fatto che – in linea di principio – le immagini non sono in grado di mentire. Nel racconto letterario le parole del narratore principale (extra-diegetico) sono ovviamente per definizio­ne veritiere, e occorre assumerle come tali nel momento in cui si accetta il “patto finzionale” che istituisce la diegesi. Nel film avviene la stessa cosa, e con piú forza ancora, dato appunto il quoziente di verità che l’immagine fotografica in quanto tale comporta... Ma mentre in un romanzo le parole di un personaggio qualsiasi (in un dialogo virgolettato, ad esempio) sono sempre relativamente indecidibili, proprio perché legate alla soggettività di chi le pronuncia, e dunque possono essere tranquillamente sospettate di mendacia, nel racconto cinematografico le parole di un personaggio mantengono il loro carattere di indecidibilità solo fin tanto che rimangono parole (dallo spettatore udite) sulla bocca di qualcuno (visto)... poiché, non appena l’analessi va ad aprire il suo sipario e inizia a mostrare (in immagini) il racconto di uno dei personaggi, dando quindi corpo visivo alla meta-diegesi del cosí detto flash-back, ecco che un’immensa forza, esattamente quella dell’immagine, costringe il narratore narrato ad essere veritiero (e sempre e solo veritiero) almeno quanto il narratore che lo narra[6].
Va dunque da sé che la traduzione di un romanzo in un film non è mai solo una traduzione, e nemmeno un adattamento, ma costituisce piuttosto la creazione di un’opera nuova, del tutto autonoma. Quando poi si trattasse di un caso assolutamente “limite”, quale quello di un romanzo a struttura specialissima, Les liaisons dangereuses, che il genio di Choderlos de Laclos ci ha consegnato poco piú di due secoli fa, ecco che il tentativo stesso di trarne materia (vale a dire di farne il soggetto) per una narrazione cinematografica non potrà riuscire che del tutto “fallimentare”. In quel romanzo vige una costituzione narrazionale che ne fa una sorta di unicum (almeno a livello di opere di alto valore artistico) della storia della letteratura. Non si tratta, infatti, semplicemente di un romanzo “epistolare”, almeno non nello stesso senso di come lo sono certe altre opere della medesima epoca, che assecondano la “moda” di quella forma narrativa, e non allo stesso titolo, ad esempio, del Werther di Goethe.
Cercherò di spiegarmi. Nelle Liaisons dangereuses una serie di personaggi, principali e secondari, producono tutti insieme un fitto epistolario, scambiandosi lettere che contengono informazioni su fatti accaduti (o narrati come tali), ma anche esortazioni a compiere fatti, rimproveri e rimostranze, reazioni dei personaggi di fronte alle vicende narrate, elogi e suggerimenti... Ogni partecipe delle vicende entra nel gioco sempre e soltanto scrivendo una lettera o essendone il destinatario, ovvero anche essendo citato in una lettera che si scambiano altri due personaggi. Qualche volta lettere ricevute vengono allegate a una lettera che qualcuno spedisce a qualcun altro. E – si badi bene – non una sola parola del libro, quindi non una sola informazione per il lettore, viene mai spesa da un narratore esterno, e tutti i personaggi del romanzo esistono come figure finzionali solo nella misura in cui le lettere dànno corpo alle loro gesta, ai loro caratteri e ai loro pensieri.
L’implacabile geometria a incastri allestita da Laclos è interamente affidata dunque a parole di marca fortemente soggettiva: parole scritte, tuttavia, e che proprio in quanto tali costituiscono l’intero testo del libro. L’autore sostiene, in prefazione, di essere entrato in possesso dello scabroso plico per puro caso, e di averlo riprodotto nel libro cosí come esso era, e questa è la sola finzione-cornice che si permetta di allestire quale piccolo podio extra-diegetico in cui risarcire (parzialmente) la propria ostentata sparizione. Siamo pertanto in presenza di una situazione paradossale: di fatto il narratore esterno non esiste, e la vicenda si racconta per cosí dire “da sola” attraverso la voce (la scrittura) dei suoi protagonisti. Il che equivale per altro a dire che è come se una buona decina di romanzi autobiografici fossero tra loro intrecciati in un groviglio che il lettore è chiamato a dipanare[7].
Ora, già questo basterebbe a mettere fuori gioco qualsiasi azzardo di trasposizione cinematografica del libro, dato che il corrispettivo della situazione proposta dalle Liaisons dovrebbe prevedere un film tutto costruito per mezzo di flash back (essendo una lettera citata in un romanzo nient’altro che una possibile forma di analessi)[8] privi di racconto primario o di racconto cornice, il che – anche considerando gli spericolati esperimenti tentati da David Lynch in tale direzione, o in modo piú ingenuo da Christopher Nolan – non può darsi affatto, per il semplice motivo che non è tecnicamente possibile.
Ma c’è di piú. La storia narrata nel suo complesso, ovvero la sostanza diegetica, è nel libro di Laclos il frutto di una serie di collegamenti congetturati – di induzioni probabilistiche, si potrebbe dire – che il lettore opera sotto la propria responsabilità psicologica, “interpretando” le lettere e colmando le lacune che esse lasciano al proprio fianco come prodotto inevitabile della loro parzialità (giacché parziale è la visione che delle vicende ha ogni singolo personaggio). Ma in una pellicola cinematografica tutto quello che è “mostrato” accade, per cosí dire, centralmente, e niente può avere di soggettivo o di congetturabile.
Il problema è: come si potrebbe “rendere” in un film la stessa ambiguità, la stessa indecidibilità, che impregna in tutti i suoi aspetti la narrazione delle Liaisons? In altre parole, come si potrebbero mantenere e riprodurre attraverso il linguaggio cinematografico le crepe che continuamente il romanzo apre – in seguito ai legami semantici ipotetici che esso permette di istituire (“legami pericolosi” per il lettore oltre che per i personaggi) – nell’apparente densità compatta della sua materia diegetica? Come si potrebbe infine rendere giustizia, usando il linguaggio filmico, alla bellezza diabolica di questo capolavoro semiotico assoluto, tutto giocato su uno smottamento pauroso del “fattore di verità” nell’ambito del patto narrazionale? Io credo che non si possa, punto e basta. E che dunque nulla abbiano potuto, in tale direzione, i due films che ho citato all’inizio.
La pellicola di Forman è senza dubbio piú raffinata e coinvolgente di quella di Frears (benché quest’ultima si avvalga di una serie di interpreti di maggior peso specifico: John Malkovich come visconte di Valmont, Glenn Close nei panni della marchesa di Merteuil, Michelle Pfeiffer in quelli della presidentessa di Tourvel) ma forse proprio perché è drasticamente piú inventiva, piú libera e in definitiva meno “fedele” al romanzo. Forman, con il suo Valmont – che non a caso rinuncia a riprodurre testualmente il titolo del libro – ha insomma intuíto e reso operativa la necessità di usare Laclos come mero pretesto, come vago canovaccio per l’allesti­mento di un racconto autonomo, ripensato su una voluta semplificazione dell’in­treccio originario, su una sua dichiaratamente svincolata rilettura, laddove invece Frears tenta una “fedeltà” impossibile e talora perfino comica.
Ma anche al di là di queste valutazioni – che, se corrette, non fanno che ribadire l’assunto della sostanziale irriducibilità delle Liaison dangereuses al linguaggio del cinematografo, per altro confermato dalla mediocrità di altri esperimenti “minori” qui non citati giacché nemmeno citabili – rimane a mio avviso che la generale discrepanza tra narrazione letteraria e narrazione filmica trova in queste malriuscite “trasposizioni” del capolavoro di Laclos una conferma perentoria e significativa.


[1] Ossia di rendere conto di una serie di vicende presunte realmente accadute nella finzione letteraria o cinematografica, le quali possono senza dubbio concorrere a formare il significato globale (e il portato estetico) dell’opera, tuttavia mai avendo la pretesa di esaurirlo, che sarebbe tanto assurda quanto quella di voler fruire films o romanzi facendosene riferire la trama da un buon espositore.
[2] Ovvio, in particolare, il riferimento a Ejzenštejn e alla sua “teoria del montaggio”. Cfr. Sergej M. Ejzenštejn, Il montaggio, con un saggio di Jacques Aumont, ed. it. Marsilio, Venezia 1986.
[3] Christian Metz, La significazione nel cinema, ed. it. Bompiani, Milano 1975.
[4] È sufficiente pensare all’effetto ricezionale implicato sulla “psicologia” del fruitore dalle riprese in soggettiva, o piú in generale dalle strategie di focalizzazione, o anche – per andare a casi specifici – dalle inquadrature e movimenti di macchina simbolici (zoom, griglie, sfuocature volute, ripetizioni di sequenze ecc. ecc.) che troviamo, ad esempio, nel cinema di Fassbinder o di Bergman... Una congerie vastissima di tecniche e meccanismi semiotici che sono del tutto inagibili e ignoti ad altre forme d’arte.
[5] L’immagine fotografica, infatti, porta a compimento l’ambizione “referenziale” (realistico-mimetica) con cui la pittura del Rinascimento ha marcato una volta per tutte la rappresentazione visiva dell’Occidente. La fotografia non si limita a dar luogo a un segno in cui il legame tra significante e oggetto rappresentato è meno convenzionale (giacché piú motivato, vedi Peirce, concetto di “icona”) di quanto non lo sia nel segno verbale; la fotografia utilizza materialmente l’oggetto rappresentato per produrre il segno stesso, ossia rende il referente del tutto indispensabile – in un preciso hic et nunc spazio-temporale, che è quello della genesi del significante – dato che chiede alla fisicità fenomenica del referente di produrre la luce che andrà a imprimersi sulla pellicola fotosensibile o – se non sulla pellicola – sul sensore elettronico di un dispositivo digitale.
[6] Val la pena di ricordare qui lo “scandalo” che Alfred Hitchcok sollevò con la sua analessi bugiarda, in Paura in palcoscenico (1950), allorché giunse a lasciare sconcertati e quasi allocchiti i suoi spettatori, dopo averli messi di fronte alla loro incapacità di individuare il “colpevole” non già per insufficiente perspicacia (come vorrebbe la logica classica del film giallo) ma proprio a causa del loro aver “ciecamente” creduto a ciò che avevano “visto”: all’interno di una iniziale analessi che solo alla fine del film è destinata a rivelarsi il frutto malefico di una menzogna del protagonista.

[7] Ed equivale anche a dimostrare la fondatezza della tesi genettiana in base alla quale l’autore di un romanzo e il narratore extra-diegetico, in quanto voce fuori campo prodotta dalla narrazione stessa, possono – e dunque devono – essere ritenuti due entità ben distinte (cfr. Gérard Genette, Figure III. Discorso del racconto, ed. it. Einaudi, Torino 1976). Nelle Liaisons dangereuses, infatti, il primo esiste e si chiama Choderlos de Laclos, il secondo semplicemente non c’è, oppure è dissolto in una sostanza ancora piú immateriale e fantasmatica di quanto non lo sia per un racconto letterario classico in terza o anche in prima persona.
[8] E non è un caso che proprio il primo flash back della storia del cinema consista nella visualizzazione del contenuto di una lettera, in Il gabinetto del dottor Caligaris di Robert Wiene, 1919.

domenica 26 settembre 2010

MONTAGGIO SCOMBINATO


Macrostrutture della narrazione cinematografica: il racconto multiplo a montaggio scombinato

 (pubblicato in «Rifrazioni», n.3, Bologna, 2010)




Nella letteratura dell’Occidente la prassi delle acronie narrative è reperibile fin dalle piú remote origini. L’Odissea, ad esempio, inizia platealmente in media res, vale a dire con il protagonista già prigioniero di Calipso, cosí che solo giunto al Canto IX il lettore – grazie a un’ampia e potente costruzione analettica –potrà apprendere dalla bocca dell’eroe il resoconto (proferito a beneficio dei Feaci) che gli consentirà di risalire all’inizio della storia, vale a dire alla partenza di Odisseo da Ilio e alle prime avversità del suo tormentatissimo viaggio verso Itaca.
Nello sviluppo della narrazione cinematografica, invece, il flash-back – che è la piú semplice e primitiva forma di acronia – deve essere considerato una conquista relativamente tarda, collocabile in epoca comunque post-griffithiana, se è vero che per trovarne un primo esempio compiuto ed efficace occorre attendere il 1919, ossia Il gabinetto del Dottor Caligaris (Robert Wiene), nel quale alcuni eventi sono immaginati come annotati sopra un vecchio taccuino, e pertanto vengono visua­lizzati da una sequenza filmica che li restituisce allo spettatore dopo che questi ha già appreso il loro séguito[1].
La narratologia genettiana[2] affronta i problemi di ordine del racconto muovendo dal principio secondo cui esiste una “normalità di stato”, ossia un grado zero a livello narrativo che coincide con la condizione per cui il tempo del racconto e quello della storia si muovono in parallelo tra loro[3]. Si tratta di una condizione – per cosí dire – del tutto naturale, dato che risponde alla tendenza, nella vita di tutti giorni, a riferire una serie di eventi accaduti iniziando dal principio (della successione cronologica dei fatti) e procedendo verso la fine (della medesima). Una simile inclinazione produce ciò che è da indicarsi come linearità del racconto, una sorta di vincolo aprioristico rispetto a cui dovranno essere considerate acronie (nien­t’al­tro che figure retoriche[4] di tipo narrativo) tutte le diversioni (trasgressioni) operate contro di esso o, in altri termini, tutti gli scarti (écarts) da ciò che costituisce la linearità, dunque l’ipotetico “grado zero” narrativo.
Genette ha chiamato analessi le acronie che prevedono una “retrocessione” del racconto, ossia il recupero di eventi accaduti prima di altri già narrati, e prolessi quelle che prevedono una “anticipazione”, ossia il resoconto di eventi accaduti dopo quelli che sono ancora da narrare. Le analessi in letteratura sono talmente frequenti (come del resto anche nel cinema) che non vale la pena di citare ulteriori esempi dopo quello dell’Odissea di cui dicevo, mentre il caso forse piú puro e significativo di prolessi, nel romanzo classico moderno si trova all’inizio de La morte di Ivan Ilič di Lev’ Tolstoj, dove il narratore dedica il primo capitolo alla descrizione di un fatto (Ivan Ilič è morto) di cui il racconto, in uno sviluppo diacronico che occupa tutti gli altri undici capitoli, andrà in seguito a fornire i motivi, i precedenti, i sintomi e le premonizioni, secondo un criterio di progressiva ricostruzione postuma del fatto medesimo.
Nel cinema situazioni del tutto analoghe (ossia autentiche prolessi) sono reperibili – per fare solo due esempi – in capolavori come Rebecca la prima moglie (Hitchcock, 1940) e Viale del Tramonto (Wilder, 1950). Nel primo dei due films un lungo piano-sequenza iniziale mostra l’avvenuta distruzione del palazzo di Manderley, vale dire l’esito conclusivo di una vicenda di cui poi la pellicola (dalla seconda sequenza in poi) andrà a narrare il percorso. Nel secondo – che contempla un vero e proprio guizzo di genialità elocutiva – abbiamo un protagonista che annuncia in apertura il ritrovamento di un cadavere in una piscina, e poi inizia a riferire – in prima persona (voice-over intradiegetica) – il concatenarsi delle vicende che porteranno a quella morte e a quel ritrovamento, lasciando di stucco lo spettatore con la rivelazione (finale) che il morto (iniziale) è precisamente lui stesso, ossia colui che sta narrando.
Ora, la distinzione tra analessi e prolessi è in verità meno scontata di quanto si potrebbe credere, dato che si tratta anche di una questione di punti di vista: a seconda che si consideri come “racconto primario” una certa parte del testo piuttosto che un’altra, sarà possibile, e opportuno, definire quell’altra (acronica rispetto alla prima) come una prolessi ovvero una analessi. È chiaro infatti che, di solito, è il buon senso (nient’altro che l’assai poco scientifico e poco rigoroso buon senso) a dirci quale è il “racconto primario” e quali sono dunque, rispetto ad esso – ma solo rispetto ad esso ovviamente! – le analessi e le prolessi, dato che in fin dei conti il buon senso, e nient’altro che il buon senso, impedisce di considerare come “racconto primario” le prime otto pagine di un romanzo (La morte di Ivan Ilič) che ne conta piú di sessanta.
Tutto ciò per notare che anche “moderate” occasioni di rottura della linearità (presenti in tutto il cinema classico, anche di target popolare) possono prestarsi ad aprire, in sede di analisi critico-narratologica, problemi di impervia natura, i quali corrispon­dono, com’è ovvio, a nette conseguenze fruizionali ed estetiche, dunque a pregi (e talora a difetti) del testo. Lo sbalorditivo meccanismo allestito da Bergman in Persona (1966) – in base al quale noi assistiamo per due volte consecutive alla resa filmica del medesimo monologo (stesse parole, stesso sonoro e dunque stessi toni della voce) che un’infermiera psicologa impone alla sua muta paziente, e dove ciò che varia tra la prima e la seconda volta è solo la posizione della cinepresa, dato che la prima volta è inquadrato il volto dell’infermiera e la seconda quello della malata – dimostra come la categoria delle acronie (almeno al cinema) travalichi di gran lunga il campo specifico delle analessi/prolessi, divenuto insufficiente a comprendere la vasta panoramica delle crisi del racconto lineare. Ciò almeno dal settimo decennio del secolo scorso, cioè dal­l’epoca di Persona e della Nouvelle Vague (Godard sopra tutti).
Val la pena di aggiungere che in Persona la figura di ripetizione, il fatto cioè due brani consecutivi di testo vadano a coprire una sola e medesima porzione di storia narrata, si motiva splendidamente nell’esigenza (per Bergman irrinunciabile) di “mostrare” i volti di entrambi i personaggi durante quel monologo cruciale, di fortissima intensità drammatica, senza dover per forza scegliere uno dei due o senza dover abdicare alla caparbietà di uno sguardo indagatore in primo piano. Il campo-controcampo, in un caso simile, avrebbe infatti tolto alla sequenza gran parte della sua micidiale efficacia, e Bergman lo ha evitato esattamente come si evita il banale per attingere al sublime! Tale ripetizione è ciò che gli ha consentito di “giocare” su una sorta di geometrica corrispondenza tra i due volti, arricchendo la sequenza ripetuta di un incanto ulteriore – uno splendore geometrico e meccanico appunto! – basato sulla simmetria delle due riprese, entrambe costruite (dopo l’incredibile fiat sonoro di un gong extradiegetico) secondo uno stesso processo visivo, ossia partendo dalla medesima distanza e angolazione della macchina da presa (mani delle donne), procedendo con lo stesso spostamento verso il volto di tre quarti, poi con lo stesso avvicinamento progressivo al volto in primo piano, e giungendo infine al medesimo ritratto frontale in dicotomico chiaro-scuro (mezzo viso in luce, mezzo in ombra), per chiudere con il suggello (solo alla fine del secondo brano, e dunque alla fine dell’intera sequenza) della fusione dei due volti in uno solo. Come dire: due metà della stessa “persona”!
Esempi splendidi di cinema a forte difficoltà narratologica, sui piani del­l’ordine e della durata del racconto[5], si trovano poi in opere come Quarto potere di Orson Welles (1941) e Rapina a mano armata di Stanley Kubrick (1955).  In Quarto potere, il pretesto narrato-strutturale del “falso documentario”, vale a dire la presentazione di una biografia operata a partire da un montaggio di frammenti che vengono dati come “ritrovati” (indiziariamente ricostruiti dalle testimonianze di coloro che hanno conosciuto il cittadino Kane), produce la grande inno­vazione di un tempo del racconto che non segue – nemmeno in maniera residuale – la cronologia delle vicende descritte (tempo della storia), ma si muove liberamente tra il prima il dopo “storici” con fare pressoché anarchico, tra l’altro parodiando (e dunque facendo esplodere) la lingua dei cinegiornali dell’epoca. In altri termini, la scelta wellesiana, ovviamente destinata (nel 1941) a lasciare sbalorditi gli spettatori di tutto il mondo, fu di proporre un testo narrativo come si trattasse di una vera e propria in­chiesta giornalistica (quanto mai adeguata al proprio oggetto: il tycoon della carta stampata Charles Foster Kane) basata tuttavia su materiali audiovisivi. Sotto tale aspetto Quarto potere non differisce da opere cinematografiche recenti, ugualmente strutturate come pseudo-reportages giornalistici, come ad esempio Grizzly Man di Werner Herzog (2005). Ciò attesta un impressionante valore fondativo del lavoro di Welles. E però, occorre dirlo, l’analogia si limita all’aspetto del rifiuto radicale della linearità del racconto, che è senza dubbio il dato di piú macroscopica evidenza per entrambe le opere. Tale analogia non può infatti mettere in ombra quanto di originale e di rivoluzionario Grizzly Man offre in proprio: Herzog non ha “inventato” la storia, come Welles, non ha finto di averla trovata e giornalisticamente ricostruita (come accade per altro anche in certi romanzi classici), ma ha invece realizzato un assai speciale reportage (in senso stretto) su una vita umana realmente esistita, tentando la fedeltà del biografo scrupoloso, ossia utilizzando materiali audiovisivi altrui e realmente documentaristici (le riprese a videocamera fatte dall’uomo degli orsi, che Herzog ha potuto acquisire dopo la morte di costui), e ha allestito quindi una sorta di ready-made cinematografico, sapientemente capace di restituire in presa diretta il vissuto autentico di un determinato individuo e tuttavia montandolo secondo l’estro di una vena narrativa (un gusto della fiction) che appartiene a Herzog da sempre. Grizzly Man è pertanto ciò che Quarto potere non poteva essere: un capolavoro di affabulazione ambigua basato su una spregiudicata contaminazione dei generi, e anche – se vogliamo – la prova (dopo i precursivi esperimenti di Dziga Vertov) che la distinzione tra cinema “narrativo” e cinema “documentario” può anche essere poco piú che un obsoleta abitudine classificatoria.
Quanto a Rapina a mano armata di Kubrick, si deve osservare che questa formidabile prova del grande regista americano[6] coniuga, nel suo capitolo narratologicamente piú importante, il “racconto ripetuto” di Persona (anticipandolo) con la costruzione “a reportage” di Quarto potere. La sequenza (o insieme di sequenze) che mi piace chiamare della settima corsa, giustamente collocata nel cuore del film, presenta la ripetizione ossessiva di un unico frammento storico-cronologico, ossia la ripetuta narrazione di un medesimo intervallo di tempo, il quale va dal momento in cui all’ippodromo (dove la rapina si svolge) viene annunciata la settima corsa della giornata[7] fino a un imprecisabile (anche perché ogni volta diverso) momento successivo... In sostanza, è come se, giunto a un certo punto del suo sviluppo, il racconto si inceppasse e non potesse che tornare indietro, per ri-descri­vere con maggior ampiezza l’accaduto (la storia), ogni volta inquadrandolo da un punto di vista diverso... Si tratta, da parte di Kubrick, di una dichiarazione di principio molto audace e destabilizzante, sebbene del tutto inoppugnabile: nessun atto testuale narrativo è cosí efficace da poter coprire in modo esauriente la complessità dei fatti (siano essi realmente accaduti o presunti tali da una finzione), dato che il reale (vero o fittizio che sia) è in sé molteplice e articolato – troppo complesso appunto – e quindi al limite indescrivibile, inconoscibile. Pertanto, laddove la restituzione (almeno parziale) di quella complessità si renda indispensabile alla minima comprensione, il narratore non potrà far altro che rifiutare la linearità del racconto e tornare piú volte sulle proprie tracce, sul proprio già detto, ciascuna volta completando e aggiungendo informazioni o anche, in certo qual senso, correggendo interpretazioni precedentemente fornite[8].
Chiaro che con tutto ciò il flash-back classico ha pochissimo a che vedere, e anche parlare di analessi pura e semplice sarebbe erroneo... Una figura di questo tipo – dico il “racconto inceppato” di Rapina a mano armata – non è infatti compresa nello schema fornito da Genette, dato che ogni frammento (ogni ripetizione della sequenza) è al tempo stesso risarcitivo e anticipatorio, inestricabilmente analettico e prolettico, e neppure gli aggiustamenti operati da Christian Metz in materia di macro­sintagmatica del linguaggio cinematografico[9] riescono a renderne conto in modo apprezzabile, ossia a dare di tale figura una definizione chiara e comprensibile, assestandola all’interno di una precisa elaborazione teorica.
Relativamente recente è l’idea di costruire un film raccontando in parallelo piú storie tra loro separate, non comunicanti, e dunque vagando dall’una all’altra senza apparente coerenza diegetica, per costringerle poi magari a ricongiungersi tutte in un unico esito successivo, vale a dire facendo in modo che situazioni (trame) dapprima autonome si scoprano interconnesse – magari grazie a un evento il quale, con il suo inverarsi, le metta tra loro in comunicazione – e dunque risultino far parte, ma solo a posteriori, di una trama unica, la quale sarà in grado di restaurare (di conseguenza) la dimensione tem­porale della storia[10].
L’esempio cinematografico piú persuasivo di racconto cosí concepito si trova nella pellicola di Robert Altman America oggi, che è del 1994 (solo quindici anni fa). Tale prassi, tuttavia, generatrice di quel che si potrebbe chiamare “racconto multiplo”, non implica vere e proprie rotture della linearità, dato che da un lato (a) nulla permette di evincere dal passaggio da una trama all’al­tra, e dai continui ritorni su trame già intessute – da questo nomadismo dello sguardo dell’autore, insomma – sicure inosservanze della successione temporale della storia complessiva, e (b) nessuna delle trame, se presa in se stessa, ossia se ricostruita nella sua integrità sommandone gli spezzoni uno dopo l’altro (nello stesso ordine in cui il film li presenta), prevede al proprio interno aspetti analettici o prolettici o qualsiasi altra inversione dell’ordine cronologico.
I films di Alejandro González Inarritu – dove è per altro ben visibile il contributo creativo di Guillermo Arriaga, soggettista e sceneggiatore con ampie corresponsabilità – pongono in evidenza un ulteriore salto di qualità in materia di complessità strutturale della narrazione, e dunque di costruzione macrosinta­gmatica. Il che a mio avviso, sia chiaro fin d’ora, non implica necessariamente un parallelo salto di qualità in sede estetica... E anzi, proprio quest’ultimo aspetto, vale a dire il pregio di tali opere cinematografiche – ma solo dal punto di vista narratologico di cui sto trattando – è ciò che vorrei di cercare di discutere: non tanto per formulare giudizi sul lavoro di Inarritu, quanto piuttosto per capire fino a che punto scelte di quel tipo (che si potrebbero riassumere nel concetto di “racconto multiplo a montaggio scombinato”) contribuiscano a rafforzare il potere espressivo e l’inte­res­se artistico dei suoi film.
Tra di essi prenderò in considerazione solo Amores perros (2000), la prima e credo il piú interessante tra i lavori finora realizzati dal duo Inarritu-Arriaga. Per rendere conto dello speciale profilo narratologico (macrosintagma­tico) di questo film, si dovrà innanzi tutto osservare che esso si apre con il racconto anticipato (prolessi) dell’incidente automobilistico intorno al quale tutto il testo ruota, grazie al quale cioè le diverse linee di sviluppo degli eventi tematizzati si incontrano e danno corpo alla storia complessiva della pellicola. Esso, infatti, mette in comunicazione i dapprima lontani e incomunicanti “dati” relativi alla vita delle coppie Octavio-Susana, Daniel-Valeria, El Chivo-Maru, ovvero tre vicende umane separate che non si sarebbero mai potute tra loro congiungere altrimenti. E qui interviene un’ambiguità formale che è il caso di sottolineare. La pellicola presenta titoli diversi per ciascuno dei tre “episodi”, con veri e propri stacchi e diciture a tutto schermo su fondo nero, come avviene tradizionalmente nelle pellicole comprensive di piú  opere (magari firmate da diversi autori, come Rogopag o Capriccio all’italiana, per citare solo sue esempi). D’altronde, si tratta pur sempre di “storie” relative a persone che non si conoscono, anche perché appartengono a classi sociali non conciliabili tra di loro, tanto che la regia (incrementando l’effetto d’ambiguità) applica registri stilistici differenti a ciascuno degli “episodi”, quasi fossero messi in gioco tre diversi autori oltre che tre diversi testi. Ciò che raccoglie tali capitoli, ricucendoli nella prospettiva di un solo film a trama omogenea, è esattamente quel­l’evento catastrofico (l’incidente d’auto) reso possibile da un quadro di convivenza antropologica che comprende tutte le separatezze e può finire per ridurle (talvolta, cioè in questo caso) a destino comune: lo sterminato contesto megalopolitano di Città del Messico.
La sequenza della fuga in automobile – i cui motivi remoti sono per altro correlati al ruolo che presso tutte e tre le situazioni-coppia gioca l’amore per i cani – funge dunque da collante per una solamente “plausibile” trama unica... Quasi piú un’ipotesi, insomma, che un dato di fatto, poiché per giunta non è possibile stabilire fino a che punto l’unitarietà sia relativa agli elementi presunti reali della storia o non sia piuttosto tutta situabile al livello del racconto, il quale in tal modo li forzerebbe alla propria logica sovrana. Come dire: è la vita che mette in comunicazione le persone tra loro (i cani, gli incidenti d’auto causati dall’amore per i cani) o non è invece la volontà di chi la vita osserva – in questo caso: del narratore extradiegetico – a scorgere e a costruire con i mezzi del linguaggio, e cioè a posteriori, un’unità a tutti i costi, e dunque a conferire senso (ordine, direzione...) al non-senso e al caos della realtà?
Dopo il prologo di cui si diceva, la narrazione della fuga si ripeterà altre due volte per intero (identica, se non fosse per sottili variazioni di punto di vista e code di completamento) e ancora altre due volte per mezzo di ulteriori richiami parziali, dato che tutto ciò a cui assistiamo conduce lí oppure parte da lí. Ma questo tutto è a sua volta spezzettato in molteplici frammenti, che si susseguono nel testo secondo un ordine temporale (quello del testo stesso, ossia dello svolgersi della pellicola nel proiettore) che solo in parte rispetta il desumibile sviluppo cronologico dei fatti narrati. Desumibile, ho detto. Perché solo tramite l’aiuto di una logica che si applica dal di fuori, ossia che lo spettatore è chiamato a mettere in campo, diventa possibile mettere ordine (ancora una volta: conferire senso) a ciò che “accade”, o piuttosto a ciò che “si ritiene che accada”.
Ci sono i fatti – sembra sostenere il film, i fatti nella loro brutale e immediata occorrenza – privi di tempo narrativo giacché in sé privi di racconto. Essi vengono prima del racconto! E poi c’è un narratore che li concatena, che li sistema, che dà loro un senso. E per farlo il narratore chiede la partecipazione attiva di un fruitore complice, capace di collaborare alla buona riuscita dell’operazione artistica. Senza tale complicità nemmeno la piú banale delle analessi sarebbe in effetti ammissibile... Il narratore non è l’unico responsabile, dato che il lettore deve collaborare con lui, e Amores perros non fa altro che chiedere al lettore una collaborazione quanto mai robusta, una partecipazione intellettuale di livello alto, perché – in fondo – è precisamente una facoltà del fruitore dare senso al testo. Certo Inarritu-Arriaga forniscono appigli, aiuti alla ricostruzione (ma si potrebbe anche dire che allestiscono esche, trappole perfino, che giocano sporco), dato che sovente lasciano trapelare all’interno dei uno dei racconti eventi appartenenti a un altro: qualche volta semplicemente inserendo una breve sequenza estranea tra due sequenze che sarebbero omogenee (contigue) se la prima venisse espunta, altre volte creando vere e proprie zone di osmosi, in cui per un breve tratto le storie si incontrano e i personaggi irrelati si incrociano tra loro. L’effetto è di per sé altamente fastidioso, dato che è impossibile – a quel punto del film e non conoscendo il resto – capire che cosa accade. Ma appunto, allo spettatore è concesso e richiesto di formulare ipotesi, di misurarsi con il proprio stesso desiderio di capire (di con-prendere, di tenere insieme), e anche di esercitare facoltà mnemoniche e deduttive che in seguito verranno utili. In seguito, appunto: quando il mosaico comincerà a comporsi e dal caos inizierà ad emergere un ordine, meglio ancora: un destino. Quello straordinario e inopinabile destino che costringe un auto a schiantarsi contro un’altra, e tre storie diverse a incontrarsi, e da quel­l’incontro a ricevere (ciascuna di esse) una “spinta” che ne muterà il significato.
Solo a titolo esemplificativo, do qui un resoconto della struttura macrosinta­gmatica della parte iniziale del film, riferendone l’esatta successione sequenziale. Si noterà che la tecnica di montaggio applicata in Amores perros prevede uno schema geometrico di sistematica interruzione e ripresa delle scene, nel senso che ciascuna delle tre sequenze su cui verte il primo episodio (Octavio e Susana) è interrotta dalle altre due uno stesso numero di volte... in un gioco di incastri ad alta precisione ludica (oltre che ritmica)! Fermo restando il fatto che occorrenze apparentemente gratuite (irrelate) che sono riferibili agli altri due episodi (Daniel e Valeria, El Chivo e Maru) vengono inserite in luoghi strategici, come per richiamare quell’esi­genza (tutt’altro che di facile soddisfazione) di aristotelica unità drammaturgica (di tempo, di luogo, di azione) che il racconto, infatti, andrà in seguito e in qualche misura a restaurare.
1. Prologo. Sequenza della fuga in auto con incidente finale. Tempo: alla metà circa dello sviluppo della storia.
Primo episodio: Octavio e Susana
2. Prima sfida di cani nel “cinodromo”, vince il cane del Biondo. Tempo: inizio della storia.
3. Susana rientra a casa, il cane di Ramiro esce, la bambina di Susana sta con la baby-sitter. Tempo: inizio della storia, in presumibile contemporanea a 2.
4. El Chivo gira con i suoi cani e il carretto in cerca di rottami (preambolo al Terzo episodio). Tempo: inizio della storia, in contemporanea presunta a 2 e a 3.
5 (2). Seguito della prima sfida cani... è la sequenza 2 che continua.
6 (3). Rientra in casa Octavio, dialoga con Susana, poi rientra anche di Ramiro, marito di Susana e fratello di Octavio, e litiga con Susana... è la sequenza 3 che continua.
7 (2–5). Il Biondo e i suoi amici , dopo la sfida, escono con il cane, per un attimo incrociano il Chivo con il suo carretto (intersezione con il Terzo episodio), quindi incontrano Cofee, il cane di Ramiro... è la sequenza 2–5 che continua.
8 (3–6). Susana si reca in camera di Octavio e lo ringrazia per averla difesa da Ramiro... è la sequenza 3–6 che continua.
9. Nuovo brevissimo inserto dal Terzo episodio: El Chivo guarda la foto dell’uomo che deve uccidere e carica la pistola. Tempo indeterminato... Non c’è continuità sequenziale con i precedenti (4 e 7). Si suppone in contemporanea a 8.
10 (3–6–8). Octavio esce dalla camera e sulla porta di casa apprende che Cofee ha sgozzato il cane del Biondo, il quale arriva e lo minaccia... è la sequenza 3–6–8 che continua, ma viene qui ripresa e portata a termine (per incrocio logico) anche la sequenza 2–5–7.
11. Octavio pranza in casa, giunge a tavola anche Ramiro. Tempo indeterminato, ma successivo alle precedenti sequenze, rispetto alle quali c’è stacco cronologico.
12. Nuovo inserto (anticipo) del Terzo episodio: El Chivo si muove nei pressi del ristorante dove sta pranzando la sua vittima, poi la uccide e fugge. Tempo indeterminato, ma successivo a 9... si può supporre in contemporanea a 11.
13. Preambolo al Secondo episodio: Daniel rientra a casa con la moglie e i figli, riceve telefonate “mute” (si saprà poi che è l’amante Valeria che lo cerca). Tempo: del tutto indefinibile rispetto a quanto precede (nel film).

Mi fermo. Si tratta dei soli primi 16’ di una pellicola che dura 2h e 23’ (titoli di coda esclusi). Sufficienti tuttavia a dare un’idea della problematicità della sua costruzione. Si deve anche notare, per completezza, che tutti gli spezzoni (le sequenze effettive) sono a loro volta “montati” ossia sono costituiti da “piani” cinematografici da brevi a brevissimi... Ma è un aspetto che qui interessa meno. Quel che importa è sottolineare piuttosto che il racconto in Amores perros avrebbe (forse) potuto essere realizzato in modo da rendere assai meno “faticosa” la sua lettura, per esempio riunendo (per ciò che concerne la parte testé analizzata) gli spezzoni 2–5–7 e gli spezzoni 3–6–8–10 in due sequenze effettive, ossia non interrotte, passando poi alla sequenza 11 (che cosí diverrebbe la 3) ed espungendo i richiami (gli anticipi) agli episodi successivi (4–9–12, terzo episodio; 13, secondo episodio) per inserirli, a loro tempo, nei rispettivi luoghi di competenza, ossia nella seconda e nella terza parte del film. Il problema è: che cosa perderebbe l’opera in valore estetico se la sua sceneggiatura fosse cosí concepita?
Tre sole osservazioni, a mo’ di risposta (certamente) parziale e provvisoria. 1°. Ricombinare tra loro gli spezzoni in modo da rendere meno frammentario il rapporto tra tempo del racconto e tempo della storia è certamente possibile, ma solo a patto di rinunciare a qualche passaggio (laddove vi sono gli incroci tra una linea diegetica e l’altra) o a patto di risolverlo in modo differente, ovvero con escamotages che finirebbero per sottrarre completezza discorsiva al film. 2°. Proprio tentando, o anche solo immaginando, una simile procedura di “restauro forzato” della linearità del testo, ci si rende conto che è una prerogativa del linguaggio cinematografico (in quanto successione di immagini) poter lavorare su simili scombinamenti e sovrapposizioni, e che altri mezzi linguistici – data la natura piú “astratta” del materiale significante di cui dispongono – difficilmente potrebbero reggere la (chiamiamola cosí) polifonia architettonica di Amores perros senza far incappare il fruitore in ben piú gravi problemi di ricezione. Da ciò consegue che (3°) il film di Inarritu-Arriaga è del tutto legittimamente proteso verso una ricerca di potenziamento delle facoltà espressive del mezzo che utilizza, e che se il risultato in prima battuta è di rendere tanto difficile la lettura da imporre al fruitore almeno una seconda visione chiarifi­catrice, ciò non vuol dire che si tratti per forza di qualcosa di emendabile o comunque di negativo, se è vero (ad esempio) quel che dicono testimonianze d’epo­ca circa la prima opera di Godard (A’ bout de souffle, 1960), un film che anche i piú smaliziati spettatori percepivano al primo approccio – per quanto concerne la trama, vale a dire la ricostruzione delle vicende narrate – come un estenuante voyage à bout de la nuit, un’esperienza al limite della piú buia incomprensibilità.



Sandro Sproccati





[1] Ancorché, a dirla tutta, non si tratti in questo caso neppure di un vero e proprio flash-back, dato che il racconto interno non è affatto sostenuto da un personaggio-narratore e dunque rimemoratore, ma proprio e soltanto di una analessi a pretesto qualsiasi, il taccuino e ciò che sopra sta scritto: una retrocessione cronologica nel senso piú generale del termine.
[2] Gerard Genette, Figure III. Discorso del racconto, ed. it. Einaudi, Torino 1976 (ed. fr. 1972).
[3] Tempo della storia: il susseguirsi cronologico (diacronico) delle vicende narrate, che dalla finzione narrativa vengono proposte come realmente accadute. Tempo del racconto: il susseguirsi dei significanti o elementi di testo nel corso della narrazione realizzata con mezzi espressivi diacronici, come il linguaggio verbale e quello cinematografico. Per i problemi di ordine del racconto cfr. Genette, Figure III cit. pp. 81-134.
[4] Da Barthes in poi la retorica è concepibile come luogo (e studio) delle eccezioni all’uso “normale” del linguaggio, ossia delle trasgressioni (intenzionalmente operate per lo piú a fini estetici) di norme stabilite dai codici linguistici. Cfr. Roland Barthes, Il grado zero della scrittura. Nuovi saggi critici, Einaudi, Torino 1982 (ed. fr. 1953), e poi Gruppo µ, Retorica generale. Le figure della comunicazione, Bompiani, Milano 1980.
[5] Nella proposta di Genette i problemi di durata sono quelli relativi al rapporto tra l’estensione del testo (tempo del racconto) e l’ampiezza della porzione di storia che vi corrisponde (tempo della storia), ossia che è da esso narrata. Cfr. Genette, Figure III cit., pp. 133-161. Osserverò che per quanto riguarda il cinema è assai agevole individuare unità omogenee a livello di tempo della storia (una sequenza di un film è sicuramente tale) e valutare quale rapporto esse vengano a intrattenere con l’estensione cronologica dei brani di racconto che le rappresentano. Ad esempio, una ripresa in continuità (priva di tagli) implica necessariamente l’effettiva identità di estensione dei due tempi (a tot minuti di pellicola corrispondono tot minuti di tempo narrato – ciò che Genette per il romanzo chiama scena), e quando una ripresa in continui­tà risolve da sola un’intera sequenza avremo il cosiddetto piano-sequenza. Se invece si considera un frammento di racconto (un tratto di pellicola) capace di coprire un’intera sequenza ma non costituito da un’unica ripresa (vale a dire “montato”) saremo di fronte alla situazione che Genette chiama sommario, nell’ambito della quale il tempo del racconto è necessariamente inferiore al tempo della storia (poniamo: 35 minuti di pellicola per 4-5 ore, presumibili, di vicenda rappresentata: la sequenza del “ballo” nel Gattopardo di Visconti). Ovvio che la quasi totalità dei testi cinemato­grafici, non essendo realizzata tramite un unico piano-sequen­za, produce il sommario come condizione complessiva. Ma, ancora per esemplificare, un brano di testo realizzato per mezzo di una lunga ripresa al ralenti (è quanto accade in Arancia meccanica di Kubrick, nella sequenza in cui Alex riconquista il potere sui Drughi) andrà a costituire una situazione che è l’esatto opposto del sommario, dato che in quel brano il tempo del racconto sarà inevitabilmente maggiore del tempo della storia. Cfr. anche Robert STAM, Robert BURGOYNE, Sandy FLITTERMAN-LEWIS, Semiologia del cinema e dell’audiovisivo, ed. it. Bompiani, Milano 1999, cap. III.
[6] Si tratta del suo terzo lungometraggio, dopo Paura e desiderio (1953) e Il bacio dell’assassino (1955), ma sicuramente del suo primo capolavoro.
[7] Ed è tale annuncio, fatto dallo speaker nell’altoparlante dell’ippodromo («E ora diamo il via alla settima corsa!») ossia un elemento di natura fonica, a fornire ogni volta al fruitore la certezza che il racconto è tornato indietro. Anche in Persona (1966) sarà un elemento auditivo (ma là simbolico e non diegetico), ossia il suono del gong, a sancire la ripresa del già narrato.
[8] E si noti che non si tratta affatto di aggiunte e correzioni mosse a partire da “racconti nel racconto”, come avviene in Rashomon di Akira Kurosawa (1950), dove sono testimoni piú o meno attendibili, ma inevitabili portatori di visioni “soggettive”, che – narrati come narratori interni – espongono diverse versioni dell’accaduto. Qui, nel film di Kubrick, è esattamente e soltanto il narratore complessivo (extra-diegetico) ad assumersi la responsabilità di riferire il passato a piú riprese, e in modi diversi, sfuggendo cosí alla tipologia consueta della metadiegesi analettica, vale a dire anche a quella fortemente scioccante (giacché multipla e contrad­dittoria) che Kurosawa aveva inventato per Rashomon. 
[9] Christian Metz, La significazione nel cinema, ed. it. Bompiani, Milano 1995 (ed. fr. 1972).
[10] Qui si ha anche la piú chiara dimostrazione della differenza sostanziale – di cui nessun realismo estetico ha mai potuto o voluto tener conto – tra il piano della cosí detta realtà, con il suo accadere fram­mentario e caotico, privo di “direzione”, e la natura propria della narrazione, che è gioco forza discorso e, in quanto tale, non può che “orientare” il caos secondo logiche intellettualmente comprensibili, razionali,  ovvero in un ordine (un senso) ben strutturato, diegetico.