giovedì 24 gennaio 2013

EROS E THANATOS IN MIZOGUCHI



Mizoguchi Kenji – Eros è Thanatos


Il classicismo cinematografico giapponese trova in Kenji Mizoguchi il suo esponente forse piú rappresentativo... sempre che per classicismo si voglia intendere una situazione di piena maturità (congiunta a perfezione estetica) entro le coordinate di uno storicamente conseguito valore di esemplarità assoluta – il che è quanto la nozione, in fin dei conti, prevede e impone. Ciò significa che le opere di Mizoguchi sondano la via di un paradigma linguistico che, in sede cinematografica, si offre come squisitamente nipponico, un modello al quale, a controprova, per molti anni non potrà e non vorrà sottrarsi neppure il grande Akira Kurosawa. Ed esse lo fanno sia affidandosi a “soggetti” totalmente affogati nella dimensione favolosa e tetra del Giappone feudale premoderno (dal decimo al diciasettesimo secolo), sia ricercando per quei soggetti cosí faticosamente tragici una peculiarità espressiva le cui atmosfere trasudano da ogni immagine e da ogni sequenza dei films di Mizoguchi, ovvero una sorta di “panneggio formale” complesso e ardito, a pieghe multiple, capace di restituirne il climax ineffabile (la proiezione immaginosa a ritroso) prima ancora che la presunta verità oggettiva: mai riducendo a storia – infatti – ciò che alla storia non si acconcia poiché antistorico per condizione intima.
Nato nel 1898, Mizoguchi ha iniziato a produrre opere cinematografiche già poco piú che ventenne, ed esattamente dal 1922, dapprima dedicandosi ad adattamenti di testi narrativi letterari, poi – dopo l’avvento del sonoro – a films di carattere realistico-biografico. Insieme a Yasujiro Ozu e Mikio Naruse, per tutti gli anni Trenta e Quaranta ha tenuto ben saldo tra le mani il monopolio della qualità nel cinema della sua terra, benché sia il caso di specificare che i capolavori piú persuasivi sono in verità da collocarsi negli ultimi dieci anni della sua vita, cioè in quel periodo davvero “aureo” che va dalla fine della catastrofe bellica alla morte del regista, distrutto dalla leucemia il 24 agosto 1956. Il suo ultimo film, La strada della vergogna, pur di apprezzabilissima fattura, certamente risente della fase terminale della malattia, ma negli anni immediatamente precedenti Mizoguchi aveva messo in fila una serie di lavori di straordinaria potenza linguistica, come Vita di O-Haru, donna galante (1952), I racconti della luna pallida di agosto (1953), L’intendente Sansho (1954), Gli amanti crocifissi (1954) e L’imperatrice Yang Kwei-fei (1955).
In tali testi – i quali, con i pressoché coevi Tarda primavera (1949) e Viaggio a Tokio (1953) di Ozu, hanno contribuito in maniera determinante alla “scoperta” del cinema giapponese in Occidente – troviamo appunto irrobustita al massimo grado, e quasi portata all’incandescenza, la temperie delirante dell’opera di Mizoguchi, che si intrica intorno al fulcro tematico di uno sprofondamento nell’irrazionalità “scatenata” del medioevo nipponico e che in parte vien fatta propria anche dai primi films del giovane Kurosawa, da Rashomon (1950) a I sette samurai (1957). La condizione letteralmente disumana a cui è piegato l’intero universo femminile, il malinteso e quasi paranoide senso dell’onore nel contesto di un classismo spietato, banalmente orrendo, sempre declinante nell’idolatrico culto del potere e del denaro, ossia nell’annichilimento di ogni plausibilità degli affetti e nel continuo precipitare del sesso nella morte, sono la marca specifica di interpretazione che Mizoguchi elabora intorno al proprio atroce abisso arcaico: come una chiave di accesso al rapporto altrimenti impoetico che in sede di linguaggio cinematografico viene a istituirsi, per qualsiasi soggetto, tra soggetto e sua rappresentazione.

L’originalità dell’arte di Mizoguchi si fonda su una rilettura del nesso di eros e thanatos nel quadro della violenza posta in atto dal potere in una società barbaramente feudale com’è quella del Giappone antico. Il sesso vi precipita di continuo nella morte in quanto le motivazioni di ogni atto individuale, entro tali coordinate culturali, rendono assurda la vita stessa e la deprimono in non-vita. E andrò poi a spiegare come una simile impostazione ideologica, che alligna in ogni film come un traurig motiv unificante e imprescindibile, si ripercuota sullo “stile” del regista sovradeterminandolo e rendendo – appunto – esclusive e inconfondibili le scelte estetiche della sua produzione terminale. Ciò che tiene insieme le opere di tale fase è una sorta di idee fixe, una costante tematica la quale, ben oltre la varietà delle situazioni letteralmente e in superficie tematizzate, e dunque ben al di là (o al di qua) delle storie narrate, è sempre presente e sempre incombente sul significato ultimo che i diversi films propongono, da cui dipendono e a cui si assecondano, in esso e da esso (soltanto) trovando il loro scopo e traendo la loro forza. Il “significato” si crea, insomma, in tali opere, quasi per condensazione di pensieri (e di esempi) che la costante tematica in oggetto coagula attorno a sé e al tempo stesso “illustra”, facendosi carico di risolvere simbolicamente – con la propria sempre rinnovata epifania, con il proprio ergersi a conclusione finale inevitabile – ogni accusa e ogni denuncia circa l’insostenibilità della vita in generale, circa la tragedia delle vite vissute in particolare, nel luogo tragico dell’arcaismo dei secoli feudali.
Va da sé che tale costante, tale idee fixe, è proprio e precisamente la ricaduta letale di ogni tentativo di amore, la morte come destino che segue e perseguita ogni slancio erotico che non sia stato preliminarmente sottomesso a una regolamentazione precauzionale, sterilizzante e dunque ugualmente mortifera, a una mortificazione, pertanto, preventiva e castrante, entro regole sociali di casta (e di famiglia) che non sembrano avere altro senso se non quello di impugnare le categorie dell’onore e dell’obbedienza come armi capaci di inibire ogni libertà erotica, ovvero, evidentemente, di scongiurare la pericolosità devastante – per la conservazione ad aeternum del potere – dell’amore in quanto tale.
Forse in maniera del tutto indipendente dall’archetipo europeo del nesso amore-morte (archetipo greco, mitologico, melodrammatico, poi infine anche psicanalitico) Mizoguchi arriva a una propria deliberata e matura elaborazione del concetto. Ma vi arriva, con ogni probabilità, appunto perché libero dall’archetipo e dalle sue implicazioni dialettiche... Voglio dire che il nesso in lui è il risultato di una riflessione e di un’analisi critica, ed è altresí il prodotto di una scelta di metodo interpretativo effettuata: sicché, nella sua visione, nulla mette al riparo, nulla giustifica, nulla attenua, nulla fornisce alibi. La punizione dell’amore con la morte (Gli amanti crocifissi) o la sottrazione dell’amore da parte della morte (Vita di O-Haru), l’abbraccio mortifero o il coitus morti interruptus, sono qualcosa che distrugge l’armonia della vita, niente affatto ribadendola.
Mi spiego meglio, o almeno ci provo. In Occidente l’archetipo (lo chiamo cosí per comodità terminologica, quindi senza mettere in campo o dover difendere alcuna professione di fede junghiana) agisce nel “bene” e nel “male”. Il suo fondamento greco lo sottrae a qual si voglia accezione sbilanciata, a qualunque monopolio del negativo. Del resto, esso non fa che ridurre la morte a evento funzionale alla vita e alla sua riproduzione incessante e necessaria. Cosí Narciso si riscatta ed è glorificato in un fiore (rinasce) attraverso la morte che la sua maldiretta (eterodiretta?, omodiretta?) sessualità gli ha procurato; cosí Isotta muore e trova nella morte la propria estasi, il piacere sessuale piú sublime, una felicità definitiva (non diversamente dalla Santa Teresa della cappella del Bernini); cosí si ricongiungono nella morte, in un amplesso eterno, Paolo e Francesca, «quali colombe dal disïo chiamate / con l’ali alzate e ferme al dolce nido», in un inferno tutto sommato tollerabile se Francesca, rimarcando l’unificazione, può dire che «amor condusse noi ad una morte». Cosí, infine, per Georges Bataille «l’erotismo è conferma della vita fin dentro la morte».
Va rimarcato: vita, e non morte, fin dentro la morte eros produce e procura! Laddove in Mizoguchi, al contrario, thanatos perseguita eros come un nemico, come una punizione, come una nemesi preordinata e invincibile, niente affatto necessaria e tuttavia puntualmente incombente come per un meccanismo di causa-effetto, e altresí per un’incidenza solo deducibile a-posteriori: cosí accade perché cosí è (senza dover essere) alle latitudini (anti)storico-culturali del Sol Cadente medievale.
Sarà bene qui aprire una parentesi. Parrebbe di capire (ammesso di poterci capire qualcosa guardando il tutto, ossia entrambi i “poli”, dall’Europa) che la valenza archetipica, psico-antropologicamente motivabile, del nesso eros-thanatos, presso la cultura, che muovendo dall’agorà greca, si è sviluppata nel cristianesimo (cultura della morte di dio stesso, a ben guardare), sia esattamente quanto pone al riparo l’Occidente dalla declinazione totalmente catastrofica che agisce in Mizoguchi. Non è facile comprendere – infatti – la dinamica scellerata che nei films del giapponese tiene le redini del gioco e determina la tragedia, e sicuramente non è facile proprio perché entro le nostre coordinate culturali quel nesso sussiste in una dimensione psico-antropologia profonda e ha una certa valenza: caduta sí, ma anche riscatto. Per la cultura cui apparteniamo, l’erotismo – negazione dell’atto sessuale riproduttivo – ribadisce la continuità vitale esattamente là dove essa, se si presta fede alle apparenze, sembrerebbe abolita: cosí è la morte, in quanto implicita trasgressione del vivente e del perpetuo tramando, in quanto pura utopia nel seno di una natura in incessante rigenerazione, è la morte come atto simbolico e assoluto, che la pulsione erotica cerca di raggiungere, attraendo chi ne è posseduto nel suo luogo misterioso, in un luogo prossimo a quello che la morte, come verità ultima ma inesperibile, presidia: luogo della perdita dei sensi e della caduta del senso, del cedimento e della vertigine, dell’esperienza panica (dionisiaca) come fuoriuscita dall’io, luogo sempre adombrato e quasi allegorizzato dall’emozione irrapresentabile dell’orgasmo. Per dirla con la stupefacente “rivelazione” del Tasso, nel luogo del compianto forse piú alto che la scrittura italiana abbia mai concepito:
    
Non morí già, ché sue virtuti accolse
       tutte in quel punto e in guardia al cor le mise;
       ...
       Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse,
       colei di gioia trasmutossi, e rise:
       e in atto di morir lieta e vivace
       dir parea: “S’apre il ciel; io vado in pace”.

Estasi, orgasmo, morte. La rinascita («a dar si volse vita con l’acqua») è tutta compresa nel cerchio magico dell’estinzione e della rinuncia. Il culmine del possesso carnale, o meglio la spirale ascendente dell’erotismo, è all’origine psicologica di ogni mito di redenzione, di ogni esperienza estatica: ossia di ogni proiezione di immediatamente percepiti e indissolubili legami tra la manifestazione massima della vita e il suo contrario: l’amore, la morte.
Ma questa, appunto, è cultura (sensibilità psichicologica) europea, che poco ha da spartire con il Giappone di Mizoguchi. Quando gli amanti vengono crocifissi, nel racconto loro dedicato, e vengono crocifissi per il solo fatto di essere amanti, non v’ha ombra di redenzione che aureoli i loro corpi legati insieme sulla carretta del supplizio, e non c’è estasi che tenga in quei paraggi. La morte si dà sí come effetto dell’amore, ma esattamente ed esclusivamente in una chiave di destino perverso, e umanamente (per volontà tutta umana, per agghiacciante dovere sociale) pervertito. Qui la morte rammenta piuttosto – volendo ricorrere a un luogo topico del nostro immaginario poetico – il pozzo di sangue in cui Lady Macbeth tuffa mani che niente e nessuno potrà mai mondare. Si tratta insomma di quella morte che contrasta e abbatte la vita, negandola, annientandola. Non c’è riscatto, non c’è motivo, non c’è schema – se non falso e opprimente – che possa legittimare il rapporto: eros produce distruzione perché a mezzo della distruzione della vita viene grottescamente punito, e il “nesso” è infatti da Mizoguchi interpretato come un increscioso esito della stupidità umana.
In Vita di O-Haru, donna galante (da un romanzo seicentesco di Ihara Saikaku) assistiamo alla disperante continua capitolazione della protagonista, che di vicissitudine in vicissitudine è sempre piú umiliata nella propria condizione di donna e nella propria sensualità femminile, la quale viene descritta – in sé e per sé – come una sorta di colpa naturale e ciò nonostante (o perfino proprio per questo) drasticamente irredimibile. Quello che a mio avviso è il capolavoro piú intenso di Mizoguchi muove da una prolessi che coglie in incipit la matura età di O-Haru (Kinuyo Tanaka), ovvero la sua estrema decadenza: quasi come una derelizione e uno schianto prefigurato nella morte che incombe, in quella morte decretata, cioè, per la donna non piú giovane dalla società dell’epoca. Una lunga sortita analettica (in sostanza il racconto primario) consente di ripercorrere l’esistenza pregressa della cinquantenne, che ebbe il torto – proprio al momento della consacrazione come cortigiana imperiale – di innamorarsi di un maschio di bassa condizione sociale (Toshiro Mifune) e la pena di veder subito applicata, a eterna vergogna dei due amanti, la nemesi inesorabile: l’uomo viene decapitato e la donna è esiliata da Kyoto e declassata al rango di puttana. Il via alla rammemorazione che il testo si accinge a tematizzare è dato dalla pressoché mistica visione subita da O-Haru in un tempio, dinnanzi a una statua buddista, nei cui tratti ella crede di scorgere il volto di Katsunosuke, l’innamorato ucciso, e di cogliere – pertanto – l’intero tragico senso della propria esistenza. Cosí quel che si era poco prima rifiutata di narrare alle compagne di meretricio («Come ti sei potuta ridurre cosí? Ho sentito che lavoravi alla Corte da giovane... come sei arrivata cosí in basso?» – «Non chiedetemi niente del passato!») O-Haru prende a viverlo nel ricordo... e con lei lo ripercorre, come un inesauribile tragitto di sciagura, anche lo spettatore. Data la propria origine aristocratica e la fama di donna dai facili costumi, O-Haru verrà chiamata da un feudatario potentissimo a partorire per lui un figlio che poco dopo le sarà sottratto, per essere cosí espropriata della maternità e subito ricacciata nella melma. L’arroganza della ferocia maschile non cesserà di perseguitarla nemmeno quando la donna tenterà di farsi monaca, poiché sarà sufficiente un attentato sessuale da parte di un profittatore a ripiombarla nell’infamia e a riadditarla al pubblico ludibrio.
Occorre però mettere innanzi, a questo punto, un’osservazione che a me pare assai importante. Il rocambolesco susseguirsi di vicende sciagurate, di cui O-Haru è protagonista e vittima, non sembra poter scalfire in nessun modo la dura, misurata e quasi glaciale neutralità formale con cui Mizoguchi tali vicende narra in immagini e a parole. Una specie di impassibilità dello sguardo, una grammatica della visione scandita da un ritmo estetico di pura contemplazione, una oggettivazione estrema – pur nell’afflato pressoché onirico del presupposto rammemorativo – sottrae al film la partecipazione emotiva dello spettatore (dato che gli nega di fatto l’immedesimazione dell’io-narrante), mettendolo in condizione di valutare tutto con un distacco che nel cinema occidentale – fatta forse eccezione per pochissimi autori, Robert Bresson ad esempio e solo in parte – sarebbe pressoché inconcepibile. E qui sta forse la marca piú autenticamente originale di Mizoguchi, nonché la sua grandezza.
A livello prettamente tecnico-linguistico: l’alternarsi in tutte le scene di piani lunghi e brevi secondo un preciso impianto ritmico, la scelta di una distanza focale media per tutti i personaggi e per tutte le situazioni, con campi mai ravvicinati e conseguenti figure ogni volta inquadrate per intero, i movimenti di macchina lenti e concepiti “a seguire” gli attori nei loro brevi spostamenti trasversali o di fuga, la quasi assoluta assenza di primi piani frontali dei volti a favore di riprese di profilo, e sovente addirittura di spalle, sono tutti elementi di rappresentazione scelti come altrettanti indispensabili mezzi per la piena e adeguata funzionalità linguistica del film: una funzionalità linguistica che per Mizoguchi è garanzia di efficace produzione di contenuto critico da parte del materiale narrativo, da parte della storia allestita in spettacolo. Uno stile calibratissimo, dunque, teso a realizzare un assoluto rigore della rappresentazione, la quale viene concepita come semplice esposizione di fatti e di ripercussioni di fatti, giacché (come già sottolineato) non si tratta per nulla di contingenze soggettive, di personali emozioni e umane reazioni, di dati da descrivere entro il quadro di una casistica particolare, ma piuttosto di oggettive istanze del potere e della cultura, iperdominanti e ipostatiche, sublimate – quasi – nella loro ieratica legalità, in altre parole di inevitabili e già da sempre prevedibili meccanismi di un accadere che non potrebbe essere diverso da ciò che è, che non potrebbe manifestarsi diversamente da come si manifesta, entro quei presupposti (anti)storici dogmatici e violenti.
«Spero che arrivi un tempo in cui ci si potrà amare senza preoccuparsi della classe sociale», sono le ultime parole di Katsunosuke, pochi secondi prima che la sua testa sia mozzata; ma il colpo di spada che la recide è lí a dimostrare che quel tempo non potrà mai giungere, è lí a sancire la stasi pantocratica di una società che non conosce il divenire e il mutamento. E le parole di Katsunosuke, da quel colpo, sono messe a tacere per sempre.
L’unico concetto disponibile alla nostra psicologia che possa indicare il modo in cui gli avvenimenti accadono in Vita di O-Haru è dunque – alla fine – quello di fato, nell’accezione mitica del termine. Ma vi è ancora una differenza, una difficoltà. Nei greci antichi, nelle narrazioni omeriche, il fato è sovrumano, si muove secondo logiche impersonali perché correlate al divino, insediate in un altrove della volontà che all’uomo non compete né comprendere né mutare; mentre in Mizoguchi sono gli uomini, la vita sociale degli esseri umani (una vita che sembrerebbe addirittura da loro scelta) a determinare la stessa ineluttabile predestinazione dell’accadere... E allora qui c’è qualcosa che per noi non torna. Nulla ci è detto delle emozioni dei personaggi del film, nessuna psicologia si applica alla recitazione e alle tecniche di ripresa, che non concedono nemmeno la piena visione dei volti, degli sguardi, delle espressioni facciali. Nella narrativa cinematografica occidentale, classica e no, lo spettatore sa sempre (è di continuo chiamato a sapere) quel che i protagonisti della storia provano sentimentalmente, al di là di quello che fanno o dicono. In Mizoguchi, al contrario, apprendiamo dalle sole parole e dai soli fatti tutto quel che c’è da sapere (invero pochissimo) circa le emozioni e i sentimenti di uomini e donne. La psicologia è bandita giacché, con ogni evidenza, nulla essa conta ai sensi dei destini e delle tragedie che incombono, nella disumanazione totale di cui gli esseri umani sono vittime! Si ama per coazione disperata, si muore per conseguenza predestinata. Eros è thanatos perché né erosthanatos – nella classica ricostruzione che Mizoguchi propone della non-vita nipponica arcaica – avranno mai il benché minimo valore.

 [“Rifrazioni” n. 11, Bologna, 2013]