«INTENZIONE PRIMA» DI MARA PETROSINO
Può l’immagine, in un testo
audio-visivo, come quello cinematografico, scaturire direttamente dalla musica,
ispirandosi ad essa invece che asservirla alle proprie esigenze? Intenzione prima riesce a sondare in
modo assai efficace tale chance di rovesciamento di un rapporto che pare
obbligatorio nel cinema classico e non solo in quello, ovvero va a tentare la
generazione stessa dell’immagine direttamente dal cuore pulsante della musica.
L’Improvviso in do minore op. 90/1
non è affatto l’accompagnamento del cortometraggio, come a un primo
sguardo/ascolto si sarebbe magari tentati di credere, bensí la sua profonda
origine e motivazione. Le mani che giocano l’una con l’altra, e si accarezzano,
e si cercano, e si rincorrono, mettono in scena – nell’astrattezza di un
protagonismo assoluto, senza ambiente, senza sfondo – una danza le cui movenze
sono “improvvisate” esattamente come nelle intenzioni
prime del musicista austriaco doveva essere “improvvisata” la sequenza
delle frasi al pianoforte; e l’improvvisazione, in tale concezione romantica, è
il correlativo di una naturalezza primaria del desiderio e della fusione; una
danza dunque pressoché erotica, che è al tempo stesso difficoltà del contatto e
brama di accordo simpatetico a mezzo di una tentata ma sempre impossibile
perfezione del gesto; l’ossessione ripetitiva è
la stessa ripetitiva fissazione che rende unico ed eccezionale il brano di
Schubert; mentre – ulteriormente – i movimenti (sempre alla ricerca di una
precisione di rapporto con la musica che non può essere altro che ricerca)
allegorizzano i movimenti infiniti delle mani del pianista sulla tastiera,
restituendo anche quel piacere del gesto degli arti che ogni musicista conosce
e apprezza ben oltre gli effetti sonori che ne conseguono.
Cosí l’in-tensione (intenzione)
dell’immagine è completamente scavata dentro l’immagine stessa, la quale
rinuncia per tale via a rappresentare il mondo esterno, per effetto e allo
scopo di un incremento assiduo e progressivo del fascino visivo che
dall’immagine scaturisce: come se il vedere e l’ascoltare – in definitiva –
potessero divenire un solo e unitario atto di cognizione e di godimento. Il
dato visivo accetta e asseconda l’involversi
della musica, si sottomette ad essa, quasi interpretandola e dandole nuova
(diversa) vita, anche quando – in momenti epifanici di liberazione – stacca
sulle visioni di fronde vegetali mosse dal vento, che sono limpide testure
anch’esse (non descrizioni di un luogo fisico, ma riconversioni di elementi
naturali in dato poetico-visivo), come quando guardiamo dall’alto di un monte
un vasto paese solo allo scopo di far gioire l’occhio (la mente) di quel che
vediamo, come se la luce stessa che scherza sulle foglie fosse l’esecutrice di
nuove note e accordi e cromatismi suonati sulla tastiera emotiva dello sguardo.
E ancora quando stacca su altri movimenti delle mani, impegnate a sommuovere un
tessuto in forme pressoché convulse e compulsive, per una interpretazione
ulteriore dello spasmo schubertiano, oppure quando apre alla visione di una
tremolante fiamma di candela che par vibrare proprio come vibrano le
restituzioni ottiche dell’oscillazione delle frequenze sonore, o anche come
vibra una corda percossa da un tasto collegato a un martelletto.
Il modello che Intenzione prima addita (che suggerisce
– direi – piú che seguire) è quello di un cinema di poesia: il che vuol dire di sensazione, di suggestione, di
incantamento. L’elemento narrativo, a cui il linguaggio filmico tradizionale si
affida, è qui praticamente ridotto a zero. La poesia originaria, lirica ma
senza l’io-lirico, la poesia che incanta le potenze infernali imprigionandole
in un’emozione dell’anima, insomma la musica mitica della lira di Orfeo, è in
un certo senso l’utopia a cui il cortometraggio di Mara Petrosino sottopone il
proprio senso. E lo fa per una via ben diversa – certamente piú affettiva e piú
“romantica” – da quelle già percorse negli anfratti di certe nicchie
d’avanguardia: dai dischi rotanti di Duchamp (Anémic Cinéma) agli ingranaggi di Léger (Ballet Mécanique) o al blob contro-hollywoodiano di Grifi e
Baruchello (Verifica incerta). Ossia
lo fa indicandola, quell’utopia, come una meta impervia e tuttavia
ineludibile, almeno per il cinema “d’arte”: quasi fosse il sogno – da sempre
rimosso e sempre sognato – del linguaggio inventato dai Lumière.
[estate 2014]
[estate 2014]