domenica 1 ottobre 2017

INTENZIONE PRIMA di Mara Petrosino

«INTENZIONE PRIMA» DI MARA PETROSINO

Può l’immagine, in un testo audio-visivo, come quello cinematografico, scaturire direttamente dalla musica, ispirandosi ad essa invece che asservirla alle proprie esigenze? Intenzione prima riesce a sondare in modo assai efficace tale chance di rovesciamento di un rapporto che pare obbligatorio nel cinema classico e non solo in quello, ovvero va a tentare la generazione stessa dell’immagine direttamente dal cuore pulsante della musica. L’Improvviso in do minore op. 90/1 non è affatto l’accompagnamento del cortometraggio, come a un primo sguardo/ascolto si sarebbe magari tentati di credere, bensí la sua profonda origine e motivazione. Le mani che giocano l’una con l’altra, e si accarezzano, e si cercano, e si rincorrono, mettono in scena – nell’astrattezza di un protagonismo assoluto, senza ambiente, senza sfondo – una danza le cui movenze sono “improvvisate” esattamente come nelle intenzioni prime del musicista austriaco doveva essere “improvvisata” la sequenza delle frasi al pianoforte; e l’improvvisazione, in tale concezione romantica, è il correlativo di una naturalezza primaria del desiderio e della fusione; una danza dunque pressoché erotica, che è al tempo stesso difficoltà del contatto e brama di accordo simpatetico a mezzo di una tentata ma sempre impossibile perfezione del gesto; l’ossessione ripetitiva è la stessa ripetitiva fissazione che rende unico ed eccezionale il brano di Schubert; mentre – ulteriormente – i movimenti (sempre alla ricerca di una precisione di rapporto con la musica che non può essere altro che ricerca) allegorizzano i movimenti infiniti delle mani del pianista sulla tastiera, restituendo anche quel piacere del gesto degli arti che ogni musicista conosce e apprezza ben oltre gli effetti sonori che ne conseguono.
Cosí l’in-tensione (intenzione) dell’immagine è completamente scavata dentro l’immagine stessa, la quale rinuncia per tale via a rappresentare il mondo esterno, per effetto e allo scopo di un incremento assiduo e progressivo del fascino visivo che dall’immagine scaturisce: come se il vedere e l’ascoltare – in definitiva – potessero divenire un solo e unitario atto di cognizione e di godimento. Il dato visivo accetta e asseconda l’involversi della musica, si sottomette ad essa, quasi interpretandola e dandole nuova (diversa) vita, anche quando – in momenti epifanici di liberazione – stacca sulle visioni di fronde vegetali mosse dal vento, che sono limpide testure anch’esse (non descrizioni di un luogo fisico, ma riconversioni di elementi naturali in dato poetico-visivo), come quando guardiamo dall’alto di un monte un vasto paese solo allo scopo di far gioire l’occhio (la mente) di quel che vediamo, come se la luce stessa che scherza sulle foglie fosse l’esecutrice di nuove note e accordi e cromatismi suonati sulla tastiera emotiva dello sguardo. E ancora quando stacca su altri movimenti delle mani, impegnate a sommuovere un tessuto in forme pressoché convulse e compulsive, per una interpretazione ulteriore dello spasmo schubertiano, oppure quando apre alla visione di una tremolante fiamma di candela che par vibrare proprio come vibrano le restituzioni ottiche dell’oscillazione delle frequenze sonore, o anche come vibra una corda percossa da un tasto collegato a un martelletto.
Il modello che Intenzione prima addita (che suggerisce – direi – piú che seguire) è quello di un cinema di poesia: il che vuol dire di sensazione, di suggestione, di incantamento. L’elemento narrativo, a cui il linguaggio filmico tradizionale si affida, è qui praticamente ridotto a zero. La poesia originaria, lirica ma senza l’io-lirico, la poesia che incanta le potenze infernali imprigionandole in un’emozione dell’anima, insomma la musica mitica della lira di Orfeo, è in un certo senso l’utopia a cui il cortometraggio di Mara Petrosino sottopone il proprio senso. E lo fa per una via ben diversa – certamente piú affettiva e piú “romantica” – da quelle già percorse negli anfratti di certe nicchie d’avanguardia: dai dischi rotanti di Duchamp (Anémic Cinéma) agli ingranaggi di Léger (Ballet Mécanique) o al blob contro-hollywoo­dia­no di Grifi e Baruchello (Verifica incerta). Ossia lo fa indicandola, quel­l’u­topia, come una meta impervia e tuttavia ineludibile, almeno per il cinema “d’arte”: quasi fosse il sogno – da sempre rimosso e sempre sognato – del linguaggio inventato dai Lumière.

[estate 2014]