IL
CORPO E IL SANGUE DELLA PAROLA
«Le
sorelle Macaluso» di Emma Dante ripropongono con forza la grande attualità del
teatro come plausibile ed efficace luogo simbolico di fissione (e di
dimostrazione critica) del conflitto fondamentale tra la vita reale e le sue
rappresentazioni sociali, ossia di smascheramento delle ideologie – della
famiglia, dell’amore e del lavoro – elaborate dalla società dello spettacolo a
fini di controllo e di dominio.
«Rappresentazione
significa anche spiegamento di un volume,
di un luogo a molte dimensioni, esperienza produttrice del proprio spazio. Spaziatura, cioè produzione di uno spazio che nessuna parola può riassumere o
comprendere».
[J.Derrida, Il teatro della crudeltà e la chiusura della
rappresentazione, in La scrittura e
la differenza, Einaudi, Torino 1982].
Proprio cosí: fino
all’anatema – artaudiano, appunto – scagliato contro qualsiasi spettacolo che
si dimostri infingardo al punto da consentire al suo fruitore di tornarsene alla
casetta e alla famiglia, dopo l’esperienza teatrale, con lo stesso spirito, le
stesse ambizioni, la stessa forma mentis
che lo pervadevano prima dell’esperienza stessa. L’assunto di azione “vitale”
che nel teatro deve agitarsi si tradurrà, dunque, in esercizio esiziale e
rivelatorio... Sí, perché il teatro (che fu rito di purificazione e crogiuolo
di fusione di identità collettiva nell’antica Grecia) potrà essere ancora cosa
sensata, e forse perfino necessaria, alle nostre tardive latitudini antropologiche,
solo se una grandine di eventi interiori esso riesce a “scuotere”, e una
consapevolezza nuova a “sguainare”: solo se decostruisce false coscienze, se annienta
ideologie, e se si pone quale innesco esplosivo di una efficace “prefazione
alla trasgressione”. In caso contrario, esso è semplicemente morto e sepolto; e
tutt’al piú chi lo pratica – con altri scopi, magari consolatorii, magari divagativi
– non fa che esibirne il cadavere (putrefatto) sulla scena di una commedia
oscena, la qual sùbito aspira al tristo officio che esclusivo le compete,
quello d’esser parodico ricalco, imbelle e idiota, delle necrofore re-praesentationi dell’autentica (trionfante)
società dello spettacolo: informatica
e cine-televisiva.
Dallo spiegamento di un volume, ossia
spiegamento corporeo e fisico, carnale e sanguinante, emergente alla luce di
un’esistenza inopinata – sul proscenio – dal fondo buio di un palco patibolare,
un luogo in cui l’autentico sta per “farsi” in modo inesorabile, una pattuglia
di attori prende corpo e volume in una marcia fragorosa e quasi funebre,
avanzando con violenza verso gli ancora ignari astanti, per poi fare un
dietro-front altrettanto poderoso e risparire nel nulla del fondale; e
molteplici volte arrembando e ritirandosi, prima di disposi – come potrebbe fare
solo un plotone di esecuzione – a ranghi compatti sul bordo anteriore della
scena: ciascuno al proprio posto, dietro l’arme e la bandiera, la croce, lo
scudo, per dar corpo alla parola che
aprirà lo squarcio... Si tratta della sigla di partenza, ovvero dell’entrata
in campo, delle sorelle Macaluso; ma è questo altresí il gesto che sùbito
qualifica il teatro (di Emma Dante) come luogo simbolico di un malessere
profondo, immediatamente capace di dare un senso preciso al disagio dello
spettatore, che è travolto dalla violenza di quell’ingresso, probabilmente
dalla potenza stessa del simbolico, ed
è trascinato fuori da ogni “realismo”, ed è coinvolto (e pressoché rapito) in
quell’altrove che la sua stessa
facoltà di adesione psicologica – finalmente agitata e messa in moto – gli
consente (anzi: gli intima) di vivere.
La parola è poi parola tragica e senza
tempo. Risata indecente, parlata urlata divincolata dal linguaggio formale e
riformata in linguaggio del corpo e dello strazio. Parola falsa e smascherata,
parola di donna, parola d’uomo, parola escrementizia e sanguinante, parola del
sesso e della rabbia, dello scempio del ricordo, parola anti-narrativa perché
incapace di dare ordine a un tempo che è presenza tutta insieme nello spazio,
ed è mito ed è tragedia.
«Ma in Emma Dante
l’evoluzione di una situazione, se avviene, non necessariamente comporta la
messa in moto di una sequenza temporale. La stessa compressione esercitata
sulla parola viene dall’autrice adoperata sul suo tempo teatrale che è,
basilarmente, un presente continuo nella cui massa però il passato e il futuro
sono cosí completamente amalgamati e fusi da risultare anch’essi presenti nel
presente stesso.» [A.Camilleri, prefazione a Emma Dante, Carnezzeria, Fazi, Roma 2007]. Eterno presente in cui le sorelle
Macaluso rivivono il proprio vissuto (o quel che credono sia tale) nei gesti
dei loro corpi, e dunque anche e sopra tutto in quel gesto corporeo estremo che
è l’emissione dei fonemi (sussurri, respiro verbale, sguaiatezza di voce,
lamento, litania, ecolalia, risata o grido che emergono dalle viscere
profonde), ma comunque nei corpi che si divincolano dall’ordine del corpo –
quasi fosse il corpo (nudo) a volersi (e doversi) sostituirsi al volto
socialmente ammesso, per rivendicare una propria urgenza libertaria, quasi
fosse insomma il non-visum a farsi visum – e aggrediscono lo spazio
del visibile in una pantomima orgiastica di danza e gesticolazione.
Gli attori cessano in
quel momento di sentirsi attori: sono essi stessi – le molte donne e i soli due
uomini dello spettacolo – non già i personaggi che interpretano, ma proprio se
stessi (solo se stessi) che abitano e soffrono una vita altra dalla loro,
quella della famiglia Macaluso, e lo sono da quando hanno progressivamente
conquistato il palco con la loro marcia iniziale (marcia di presa di possesso
di uno spazio vitale) e fino a quando, con lo spegnersi delle luci, l’evento
teatrale non avrà termine. Tale è infatti il pegno che lo spettacolo chiede ai
suoi attori perché anche i non-attori (il pubblico in sala)
divengano tali, ed entrino cioè nello spettacolo stesso come in una dimensione
esistenziale che per quelle due ore diviene la loro vera realtà, il loro
orizzonte di esperienza totale.
L’espressività
esclusiva – per la parola di questo e
di tutti gli spettacoli di Emma Dante – di di un zoccolo linguistico desunto dal
vernacolo siciliano, violento quanto il gesto corporeo che lo accompagna, è fors’anche
indicazione di una appartenenza etnica radicale originaria, benché non certo in
chiave di banale rivendicazione di dignità per la cultura millenaria dell’isola
del Sole, ma sopra tutto è delibera dirompente di rifiuto della lingua
nazionale formalmente modellata (e invalidata) dalla comunicazione mediatica:
se, ad esempio, la sonda sociale de Le
sorelle Macaluso si vota a scandagliar l’abisso di “contraddizioni primarie”
nel contesto della famiglia italica popolare, non potrà certo assumere come
lingua di tale esplorazione la medesima che ogni contraddizione dissimula narcotizzandola, la stessa che è fatta per
l’omologazione e per l’anestesia...
In sostanza, per
l’urlo e per lo schianto che attingono a una siffatta e talmente intesa parola del corpo e del sangue, non già l’idioma
di Dante e di Manzoni, che suonerebbe estraneo al luogo della sonda, in quanto aulico
e inefficace, e nemmeno quello dell’unificazione linguistica italiana (reti unificate
televisive) che renderebbe la sonda stessa truffaldina. La scrittura scenica di
Emma Dante impone un coinvolgimento “fisico” (linguistico) di dismisure
psicologiche e culturali senza tempo e senza spazio, lo spazio mitico di una
popolanità sconcia che non può tradursi se non in parlata oscena: in certo senso
a-scenica (atta a rigettar la scena
come quadro organizzato), senza rappresentazione vera e propria, e dunque al di
là del testo formalizzato in testo; in qualche modo – ma con infinita
radicalità aggiuntiva – la lingua di Gadda (piuttosto) tra il romanesco del Pasticciaccio e il lombardo della Cognizione, ma inclinata a farsi voce e
dunque urlata: e pertanto un siciliano che strozza la parola in gola, che
sguaia e sbraca ed erompe in insulto o in vomito dell’io, in carne viva della pena
e dell’emozione, dell’odio e del pianto, in litanica epifania di una sterminata
inesorabile (sofferta) distruzione.
[pubblicato in «9 Novae» [D], n. 8, Roma, 2015]