ULTIME
OPERE DI VASCO BENDINI
A Vasco
Bendini, uno dei piú grandi (e misconosciuti) pittori italiani dell’ultimo Novecento
e di questo inizio di secolo nostro, desidero dedicare la testimonianza di una
lettura poco piú che “privata”, quasi come si trattasse solo di quell’amico che
egli (effettivamente) fu per me, persuaso come sono della potenza “pubblica”
del suo lavoro recente, oggi che ha appena smesso di praticarlo.
Come Monet il 5
dicembre 1926, e come Tiziano il 27 agosto 1576, anche Bendini è morto
vecchissimo, a piú di novant’anni, tenendo ben stretta tra i polpastrelli delle
dita la bacchetta vibrante del pennello imbevuto di colore, mentre con le
pupille fisse sulla tela, con gli occhi semichiusi tra le palpebre, strette per
la concentrazione e per l’affanno di una vita interamente votata allo sguardo desiderante,
che partorisce l’immagine, egli stava persistendo fino all’ultimo in quella sua
(e anche nostra) follia suprema che è il voto radicale all’opera d’arte, come unica
ragione per vivere fino in fondo un’esistenza altrimenti troppo lunga.
Cosí e solo cosí può
spiegarsi il fenomeno bizzarro del “genio vecchione”.
Cosí si schiusero,
infatti, per Monet ottantenne le grandiose utopie di un lago di pittura, di
pullulanti infiorescenze di grumi di materia cromatica su fondi slavati e
densi, su comprensive distese di immagini latenti e tuttavia corporee, sognate
e perdute, intravviste e inafferrabili, nelle due grandi sale ovoidali
dell’Orangerie parigina, completamente invase da una siffatta pittura continua
in un quadro reso infinito e pertanto negato come quadro: da quella
ininterrotta e avvolgente epifania d’acqua e fiori e fronde e alghe, che è poi
nient’altro che colore su colore, pittura terminale e al tempo stesso germinativa,
iniziale ed iniziatica...
Cosí si rivelarono a
Tiziano, quasi centenario, il sangue e la carne viva del fauno Marsia,
scorticato dalla poesia stessa in veste di Apollo, nel piú incredibile dipinto
di tutto il XVI secolo, realizzato – dicono – a percezione tattile da un uomo
che aveva ormai perduto la vista e che ciò nonostante, ancora, faceva crepitare
nella propria mente lo sguardo insaziabile dell’autentica visione
pittorica... forse perché aveva dentro di sé quel medesimo fuoco con il quale
giunse via via ad incendiare i rossi e i bruni, i vortici profondi di gialli
ocracei e le luci accecanti ma rivelatorie, e ulteriori, negli ultimi suoi immensi
capolavori.
Cosí, allo stesso
modo e per le stesse ragioni, anche in Bendini, morto a Roma il 31 gennaio 2015,
si è realizzato infine il genio della pittura. In Bendini, che da oltre quattro
decenni – ovvero dal 1972 circa, dopo aver valicato la fase
“concettual-comportamentistica” delle neo-avanguardie – era tornato all’assidua
frequentazione della tela da coprire di colore. E l’aveva fatto giungendo
progressivamente ad affinare, a mezzo d’esperienza, una tecnica già altissima
fin dagli esordi, alla metà del secolo passato.
Ipotizzo che solo
dopo i suoi ottanta – che per lui e per noi sono questi primi quindici anni del
2000 – Bendini abbia davvero conseguito quella maturità poetica e filosofica
che la sua inesausta sperimentazione cercava da sempre. Perché in tale epoca di
“posterità collettiva”, e di crisi compiuta delle motivazioni per cui agire (ma
forse perfino per cui vivere) tra le inerti macerie di un agire artistico ormai
votato al balbettio infantile a cui obbliga l’impotenza dell’intelletto,
Bendini si erge come una sorta di taumaturgo dell’immagine, quasi come un
redentore della pittura, un mago di immensa attitudine e di cognizione illimitata.
La sua clausola, il
suo regime rigoroso, discendono invero (per via diretta) da un’intuizione
elaborata molto prima: che il linguaggio
non si utilizza ma si asseconda e si tutela, poiché il linguaggio è “la casa
del pensiero”. Cosí i dipinti ultimi di Bendini – quegli stupori assoluti che
emozionano a prima vista, che non richiedono competenze specifiche ma soltanto una
minima predisposizione (i rudimenti di una educazione sentimentale) all’epifania
del mistero del colore – nascono da una abilità nel ritrarsi piuttosto che da
un azione intenzionale: quasi dal porsi in uno stato d’attesa invece che da un
proposito razionale prestabilito. Il pittore si prepara all’auspicio di una
nascita, dopo averne (ovviamente) allestito la possibilità, giacché la sua
tecnica gli consente di prevedere in parte (non del tutto) come germoglierà
l’immagine – e con quali di volta in volta sorprendenti (inusitati) effetti ed
affetti – allorché la tela sarà stata segretamente fecondata dal seme del
colore, disposto in iniziali strati diversificati; e poi mossa, ripassata,
“gestualizzata” sulle masse corporee e dense che la coprono. E all’improvviso il
colore si farà luce sopra la luce del
giorno.
La forza dei dipinti
dell’ultimo Bendini scaturisce infatti da un dato assai preciso: la loro genesi
è in qualche modo parallela e del tutto congrua alla procedura con cui il loro
significato si crea nella mente di chi li contempla. Qualcosa che coinvolge
allo stesso titolo l’autore (responsabile di atti senza i quali l’opera non ci
sarebbe) e il fruitore, stretti in una emozione comune, in un accordo simpatetico.
«L’immagine accolta» (titolo
di una meravigliosa serie bendiniana del 2006) vuol dirci esattamente questo: che
nei dipinti dell’estrema maturità di Vasco l’immagine è “accolta“ in quanto
viene lasciata liberamente emergere (e quasi “fiorire“ di una spontanea
vitalistica vocazione) dal fondo della tela, e della mente, come se di essa l’autore
fosse – in due modi diversi – solo parzialmente responsabile... Il primo modo è
nella necessità di una dialettica fondativa
che si instaura tra l’intento dell'artista e la forza intima della pittura, la
quale si rivela desiderosa di manifestarsi come autonoma seppur a patto d’essere amorevolmente assistita da una
tecnica “maieutica“ di livello eccelso; il secondo modo (quasi una chiamata a
corresponsabilità) insiste sulla partecipazione che deve fornire appunto il
beneficiario del miracolo.
Un vortice di spazio
dell’origine, un profondo senso di smarrimento in un universo sublime giacché
inconoscibile, quasi una metafora cosmologica sovrumana perché appunto astrale
ed infinita, aprirà allora i suoi abissi di stupore e di felicità, nel caos
sovraordinato delle ultime bellissime opere di Vasco Bendini.
«Restare in grembo al
cielo… subire il fascino dell’inesplicabile».
[pubblicato in «9 Novae» [D], n. 5, Roma, 2015]
[pubblicato in «9 Novae» [D], n. 5, Roma, 2015]