domenica 1 ottobre 2017

ULTIME OPERE DI VASCO BENDINI

ULTIME OPERE DI VASCO BENDINI


A Vasco Bendini, uno dei piú grandi (e misconosciuti) pittori italiani dell’ultimo Novecento e di questo inizio di secolo nostro, desidero dedicare la testimonianza di una lettura poco piú che “privata”, quasi come si trattasse solo di quell’amico che egli (effettivamente) fu per me, persuaso come sono della potenza “pubblica” del suo lavoro recente, oggi che ha appena smesso di praticarlo.


Come Monet il 5 dicembre 1926, e come Tiziano il 27 agosto 1576, anche Bendini è morto vecchissimo, a piú di novant’anni, tenendo ben stretta tra i polpastrelli delle dita la bacchetta vibrante del pennello imbevuto di colore, mentre con le pupille fisse sulla tela, con gli occhi semichiusi tra le palpebre, strette per la concentrazione e per l’affanno di una vita interamente votata allo sguardo desiderante, che partorisce l’immagine, egli stava persistendo fino all’ultimo in quella sua (e anche nostra) follia suprema che è il voto radicale all’opera d’arte, come unica ragione per vivere fino in fondo un’esistenza altrimenti troppo lunga.
Cosí e solo cosí può spiegarsi il fenomeno bizzarro del “genio vecchione”.
Cosí si schiusero, infatti, per Monet ottantenne le grandiose utopie di un lago di pittura, di pullulanti infiorescenze di grumi di materia cromatica su fondi slavati e densi, su comprensive distese di immagini latenti e tuttavia corporee, sognate e perdute, intravviste e inafferrabili, nelle due grandi sale ovoidali dell’Orangerie parigina, completamente invase da una siffatta pittura continua in un quadro reso infinito e pertanto negato come quadro: da quella ininterrotta e avvolgente epifania d’acqua e fiori e fronde e alghe, che è poi nient’al­tro che colore su colore, pittura terminale e al tempo stesso germinativa, iniziale ed iniziatica...
Cosí si rivelarono a Tiziano, quasi centenario, il sangue e la carne viva del fauno Marsia, scorticato dalla poesia stessa in veste di Apollo, nel piú incredibile dipinto di tutto il XVI secolo, realizzato – dicono – a percezione tattile da un uomo che aveva ormai perduto la vista e che ciò nonostante, ancora, faceva crepitare nella propria mente lo sguardo insaziabile del­l’au­ten­tica visione pittorica... forse perché aveva dentro di sé quel medesimo fuoco con il quale giunse via via ad incendiare i rossi e i bruni, i vortici profondi di gialli ocracei e le luci accecanti ma rivelatorie, e ulteriori, negli ultimi suoi immensi capolavori.
Cosí, allo stesso modo e per le stesse ragioni, anche in Bendini, morto a Roma il 31 gennaio 2015, si è realizzato infine il genio della pittura. In Bendini, che da oltre quattro decenni – ovvero dal 1972 circa, dopo aver valicato la fase “concettual-comportamentistica” delle neo-avanguardie – era tornato all’assidua frequentazione della tela da coprire di colore. E l’aveva fatto giungendo progressivamente ad affinare, a mezzo d’esperienza, una tecnica già altissima fin dagli esordi, alla metà del secolo passato.
Ipotizzo che solo dopo i suoi ottanta – che per lui e per noi sono questi primi quindici anni del 2000 – Bendini abbia davvero conseguito quella maturità poetica e filosofica che la sua inesausta sperimentazione cercava da sempre. Perché in tale epoca di “posterità collettiva”, e di crisi compiuta delle motivazioni per cui agire (ma forse perfino per cui vivere) tra le inerti macerie di un agire artistico ormai votato al balbettio infantile a cui obbliga l’impo­tenza del­l’in­­telletto, Bendini si erge come una sorta di taumaturgo dell’immagine, quasi come un redentore della pittura, un mago di immensa attitudine e di cognizione illimitata.
La sua clausola, il suo regime rigoroso, discendono invero (per via diretta) da un’intuizione elaborata molto prima:  che il linguaggio non si utilizza ma si asseconda e si tutela, poiché il linguaggio è “la casa del pensiero”. Cosí i dipinti ultimi di Bendini – quegli stupori assoluti che emozionano a prima vista, che non richiedono competenze specifiche ma soltanto una minima predisposizione (i rudimenti di una educazione sentimentale) all’epifania del mistero del colore – nascono da una abilità nel ritrarsi piuttosto che da un azione intenzionale: quasi dal porsi in uno stato d’attesa invece che da un proposito razionale prestabilito. Il pittore si prepara all’auspicio di una nascita, dopo averne (ovviamente) allestito la possibilità, giacché la sua tecnica gli consente di prevedere in parte (non del tutto) come germoglierà l’immagine – e con quali di volta in volta sorprendenti (inusitati) effetti ed affetti – allorché la tela sarà stata segretamente fecondata dal seme del colore, disposto in iniziali strati diversificati; e poi mossa, ripassata, “gestualizzata” sulle masse corporee e dense che la coprono. E all’improvviso il colore si farà luce sopra la luce del giorno.
La forza dei dipinti dell’ultimo Bendini scaturisce infatti da un dato assai preciso: la loro genesi è in qualche modo parallela e del tutto congrua alla procedura con cui il loro significato si crea nella mente di chi li contempla. Qualcosa che coinvolge allo stesso titolo l’autore (responsabile di atti senza i quali l’opera non ci sarebbe) e il fruitore, stretti in una emozione comune, in un accordo simpatetico.
«L’immagine accolta» (titolo di una meravigliosa serie bendiniana del 2006) vuol dirci esattamente questo: che nei dipinti dell’estrema maturità di Vasco l’immagine è “accolta“ in quanto viene lasciata liberamente emergere (e quasi “fiorire“ di una spontanea vitalistica vocazione) dal fondo della tela, e della mente, come se di essa l’autore fosse – in due modi diversi – solo parzialmente responsabile... Il primo modo è nella necessità di una dialettica fondativa che si instaura tra l’intento dell'artista e la forza intima della pittura, la quale si rivela desiderosa di manifestarsi come autonoma seppur a patto d’essere amorevolmente assistita da una tecnica “maieutica“ di livello eccelso; il secondo modo (quasi una chiamata a corresponsabilità) insiste sulla partecipazione che deve fornire appunto il beneficiario del miracolo.
Un vortice di spazio dell’origine, un profondo senso di smarrimento in un universo sublime giacché inconoscibile, quasi una metafora cosmologica sovrumana perché appunto astrale ed infinita, aprirà allora i suoi abissi di stupore e di felicità, nel caos sovraordinato delle ultime bellissime opere di Vasco Bendini. 
«Restare in grembo al cielo… subire il fascino dell’inesplicabile».


[pubblicato in «9 Novae» [D], n. 5, Roma, 2015]