domenica 1 ottobre 2017

ADIEU AU LANGAGE di GODARD

A DIO IL LINGUAGGIO


Considerazioni iniziali e provvisorie su «Adieu au Langage» di Jean-Luc Godard, ultimo film dell’ottanta­quattrenne “enfant terrible” del cinema francese: per una puntualizzazione sulle possibilità espressive dell’arte dopo la caduta dell’illusione narrativa e ai fini di una critica delle forme di riproduzione ideologica del mondo spacciate per conoscenza del medesimo.


L’ennesimo “addio al linguaggio” che Jean-Luc Godard ha voluto proclamare con il suo piú recente film – uscito negli Stati Uniti il 29 ottobre 2014 e in Italia (solo in pochissime città) da qualche settimana – è probabilmente da intendere come il sunto e la conferma di quanto il lavoro del sempre giovane regista rivoluzionario francese ci ha insegnato in quarantacinque anni di vita, a partire da quel À bout de souffle (1959) che diede il via a un “respiro di invenzione” che non è mai venuto meno. E, fino all’ultimo respiro, si dovrà ribadire che il cinema di Godard si sviluppa facendo leva sulla necessità di un continuo ripensamento di se stesso, ossia su una riflessione profonda intorno alla speciale “produzione autoriale” che è il suo cinema in rapporto a ciò che l’autore è nel suo formarsi, se si forma – come il suo cinema stesso ci attesta – per mezzo di una cleptomaniaca fagocitazione di altri autori ed opere, non solo cinematografiche (letterarie, pittoriche, teatrali, musicali). Un ripensamento decisamente “critico”, nel senso piú alto e politico della parola, che trae vigore ed efficacia da acutissime modalità di incessante rielaborazione linguistica, grazie alle quali il testo – rigettando la fallace pretesa di una originalità ideologicamente romantica e ritenuta impossibile – macina e rimugina, scompone e riassembla e incessantemente ripropone materiali recuperati dall’imma­ginario collettivo e dai luoghi di comune sentimento di cui il cinema rappresenta (nella sua storia, breve ma intensa) il deposito ideale.
Mettendo a frutto in questo modo il principio del montaggio, che è la prerogativa originaria e per molti sensi “esclusiva” del mezzo cinematografico, vale a dire montando frammenti propri e altrui, delocalizzati dai testi originari o anche elaborati appositamente per interagire con quelli, ma sempre spostati in una sorta di “altrove” rispetto a una possibile successione logica, Godard riesce tuttavia a inserire forti componenti di lettura personale, di pensiero attivo e di vistosa coerenza stilistica (una coerenza che trasforma lo stile in contributo critico potente) tra le pieghe dell’ammasso di ridefinizioni, interpretazioni, riflessioni, aggiunte e commenti che si sovrappongono alla vasta congerie dei materiali montati.
L’addio al linguaggio è dunque per l’evangelista apocrifo della Nouvelle Vague il segno dichiarato di una sostanziale e profonda critica a quella “fiducia nel linguaggio” che l’età contemporanea può produrre solo come falsificazione ideologica: laddove per linguaggio essa intenda la possibilità di descrivere o narrare il mondo e le gesta degli umani che lo popolano, ovvero ove presuma che tutto ciò sia (ancora) narrabile. Non a caso l’ovvia, ma non per questo meno significativa, decifrazione della parola “addio” in “a dio” – che è esplicitata tra i titoli di testa della pellicola godardiana (à dieu le langage!) – rimanda direttamente a una condizione di pertinenza soprannaturale e dunque drasticamente illusoria (per un ateo, almeno) delle facoltà del linguaggio come rappresentazione logica e coerente di una possibile verità. Il che poi sembra potersi tradurre nell’as­sunto (di sconfitta, ma anche di positiva acquisizione di coscienza del limite che si fa occasione operativa) di Ludwig Wittgenstein: «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.» [Tractatus logico-philo­sophicus, 7].
Diciamo allora che il problema che Godard ci (ri)propone è quello degli spazi di sopravvivenza dell’arte come rappresentazione, dell’arte come conoscenza dell’oggetto-mondo; e il contributo che viene dal regista è tanto piú significativo (e perfino coraggiosamente fiducioso) se si accetta la tesi primaria che l’arte non può e non deve assumere carattere consolatorio. La vita stessa diventa vivibile solo se il caos che la domina – la sua irriducibilità a un pensiero logico abilitato a riconoscere in essa cause necessarie ed effetti conseguenti – è accolto come la condizione da cui l’arte muove, e di cui si nutre, per propiziare scintille di senso (senso estetico, innanzi tutto: ossia emozione pura) nel lungo percorso della perdita del senso che affligge lo sviluppo (o l’inviluppo) della cultura umana in generale. E c’è qui – nell’accettazione del fallimento di qualsiasi costruzione filosofica che pretenda di donare significato all’esistenza – qualcosa che riattualizza l’istanza di pensiero critico e negativo delle avanguardie artistiche novecentesche, che per Godard ancora additano a un luogo di salvezza (foss’anche utopistico) dinnanzi alla catastrofe incombente; e c’è ovviamente, sotto traccia ma in piena azione, l’idea benjaminiana di allegoria, come spostamento continuo dell’agire linguistico: dal piano della diretta narrazione a una sfera assai piú complessa di produzione del senso, per la quale il dire è sempre dire-altro, e per cui l’opera di linguaggio (l’opera d’arte) agisce non sull’oggetto di cui sembra parlare, ma su un contesto piú ampio che è fatto di allusioni ad altro “detto”, ad altre presupposizioni (illusorie), ad altre pretese di linguaggio (fallite); e in base alla quale, infine, il linguaggio parla sempre e soltanto di linguaggio: poiché – cosí facendo – dichiara che la vita stessa (il mondo stesso che viene significato) è nient’altro che quello che ancora Wittgenstein chiamava “un gioco linguistico”.
Ma prendere coscienza del gioco linguistico (o dei giochi linguistici) da cui è dominato il soggetto pensante (parlante, e perciò pensante) significa porre la sola base davvero solida da cui può muovere una critica efficace dell’esistente, poiché è il solo modo di propiziare uno svelamento necessario del falso di cui siamo circondati. E se da un lato ciò è quanto consente di riconoscere – in sede di critica estetica – la mistificazione posta in atto dall’arte di consumo, di consolazione e di intrattenimento, dall’altro ciò si pone come la sola possibile ragion d’essere (il solo grande scopo) di un’arte degna di essere praticata. Secondo Godard.

[pubblicato in «9 Novae» [D], n. 3, Roma, 2015]