A DIO
IL LINGUAGGIO
Considerazioni
iniziali e provvisorie su «Adieu au Langage» di Jean-Luc Godard, ultimo film
dell’ottantaquattrenne “enfant terrible” del cinema francese: per una puntualizzazione
sulle possibilità espressive dell’arte dopo la caduta dell’illusione narrativa
e ai fini di una critica delle forme di riproduzione ideologica del mondo
spacciate per conoscenza del medesimo.
L’ennesimo “addio al
linguaggio” che Jean-Luc Godard ha voluto proclamare con il suo piú recente
film – uscito negli Stati Uniti il 29 ottobre 2014 e in Italia (solo in
pochissime città) da qualche settimana – è probabilmente da intendere come il
sunto e la conferma di quanto il lavoro del sempre giovane regista rivoluzionario
francese ci ha insegnato in quarantacinque anni di vita, a partire da quel À bout de souffle (1959) che diede il
via a un “respiro di invenzione” che non è mai venuto meno. E, fino all’ultimo
respiro, si dovrà ribadire che il cinema di Godard si sviluppa facendo leva sulla
necessità di un continuo ripensamento di se stesso, ossia su una riflessione
profonda intorno alla speciale “produzione autoriale” che è il suo cinema in
rapporto a ciò che l’autore è nel suo formarsi, se si forma – come il suo
cinema stesso ci attesta – per mezzo di una cleptomaniaca fagocitazione di
altri autori ed opere, non solo cinematografiche (letterarie, pittoriche,
teatrali, musicali). Un ripensamento decisamente “critico”, nel senso piú alto
e politico della parola, che trae vigore ed efficacia da acutissime modalità di
incessante rielaborazione linguistica, grazie alle quali il testo – rigettando
la fallace pretesa di una originalità
ideologicamente romantica e ritenuta impossibile – macina e rimugina, scompone
e riassembla e incessantemente ripropone materiali recuperati dall’immaginario
collettivo e dai luoghi di comune sentimento di cui il cinema rappresenta
(nella sua storia, breve ma intensa) il deposito ideale.
Mettendo a frutto in
questo modo il principio del montaggio,
che è la prerogativa originaria e per molti sensi “esclusiva” del mezzo
cinematografico, vale a dire montando frammenti propri e altrui, delocalizzati
dai testi originari o anche elaborati appositamente per interagire con quelli,
ma sempre spostati in una sorta di “altrove” rispetto a una possibile
successione logica, Godard riesce tuttavia a inserire forti componenti di
lettura personale, di pensiero attivo e di vistosa coerenza stilistica (una
coerenza che trasforma lo stile in contributo critico potente) tra le pieghe
dell’ammasso di ridefinizioni, interpretazioni, riflessioni, aggiunte e
commenti che si sovrappongono alla vasta congerie dei materiali montati.
L’addio al linguaggio
è dunque per l’evangelista apocrifo della Nouvelle
Vague il segno dichiarato di una sostanziale e profonda critica a quella
“fiducia nel linguaggio” che l’età contemporanea può produrre solo come
falsificazione ideologica: laddove per linguaggio essa intenda la possibilità
di descrivere o narrare il mondo e le gesta degli umani che lo popolano, ovvero
ove presuma che tutto ciò sia (ancora) narrabile. Non a caso l’ovvia, ma non
per questo meno significativa, decifrazione della parola “addio” in “a dio” –
che è esplicitata tra i titoli di testa della pellicola godardiana (à dieu le langage!) – rimanda
direttamente a una condizione di pertinenza soprannaturale e dunque drasticamente
illusoria (per un ateo, almeno) delle facoltà del linguaggio come
rappresentazione logica e coerente di una possibile verità. Il che poi sembra
potersi tradurre nell’assunto (di sconfitta, ma anche di positiva acquisizione
di coscienza del limite che si fa occasione operativa) di Ludwig Wittgenstein:
«Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.» [Tractatus logico-philosophicus, 7].
Diciamo allora che il
problema che Godard ci (ri)propone è quello degli spazi di sopravvivenza
dell’arte come rappresentazione, dell’arte come conoscenza dell’oggetto-mondo;
e il contributo che viene dal regista è tanto piú significativo (e perfino
coraggiosamente fiducioso) se si accetta la tesi primaria che l’arte non può e
non deve assumere carattere consolatorio. La vita stessa diventa vivibile solo
se il caos che la domina – la sua irriducibilità a un pensiero logico abilitato
a riconoscere in essa cause necessarie ed effetti conseguenti – è accolto come
la condizione da cui l’arte muove, e di cui si nutre, per propiziare scintille
di senso (senso estetico, innanzi tutto: ossia emozione pura) nel lungo
percorso della perdita del senso che affligge lo sviluppo (o l’inviluppo) della
cultura umana in generale. E c’è qui – nell’accettazione del fallimento di
qualsiasi costruzione filosofica che pretenda di donare significato
all’esistenza – qualcosa che riattualizza l’istanza di pensiero critico e
negativo delle avanguardie artistiche novecentesche, che per Godard ancora additano
a un luogo di salvezza (foss’anche utopistico) dinnanzi alla catastrofe
incombente; e c’è ovviamente, sotto traccia ma in piena azione, l’idea
benjaminiana di allegoria, come
spostamento continuo dell’agire linguistico: dal piano della diretta narrazione
a una sfera assai piú complessa di produzione del senso, per la quale il dire è sempre dire-altro, e per cui l’opera di linguaggio (l’opera d’arte) agisce
non sull’oggetto di cui sembra parlare, ma su un contesto piú ampio che è fatto
di allusioni ad altro “detto”, ad altre presupposizioni (illusorie), ad altre
pretese di linguaggio (fallite); e in base alla quale, infine, il linguaggio
parla sempre e soltanto di linguaggio: poiché – cosí facendo – dichiara che la
vita stessa (il mondo stesso che viene significato) è nient’altro che quello
che ancora Wittgenstein chiamava “un gioco linguistico”.
Ma prendere coscienza
del gioco linguistico (o dei giochi linguistici) da cui è dominato il soggetto
pensante (parlante, e perciò pensante) significa porre la sola base davvero
solida da cui può muovere una critica efficace dell’esistente, poiché è il solo
modo di propiziare uno svelamento
necessario del falso di cui siamo circondati. E se da un lato ciò è quanto
consente di riconoscere – in sede di critica estetica – la mistificazione
posta in atto dall’arte di consumo, di consolazione e di intrattenimento, dall’altro
ciò si pone come la sola possibile ragion d’essere (il solo grande scopo) di
un’arte degna di essere praticata. Secondo Godard.
[pubblicato in «9 Novae» [D], n. 3, Roma, 2015]