giovedì 24 gennaio 2013

«IL GRIDO» DI ANTONIONI


Psicovisione del vuoto: il Grido del paesaggio


Ho ancora viva la memoria di quando, ragazzo poco piú che tredicenne, mi trovai per caso a passare con mio padre in una zona di Ferrara che amavo già allora e che ho sempre amato in sèguito, sbalorditiva per quella sua ovvia e facilmente interiorizzabile tristezza, bella come la malinconia, paese e città in un sol tempo, mesta e terribilmente nobile, arrogante nella sua delicatezza: con case basse, di epoca indefinita, antiche e semplici, uniformi, piú che sobrie... pressoché sussurrate dal tempo come in un alito di luce scialba: silenti e come vaghe nella prospettiva di strade difettose e lievemente concave al centro, dove al piede e all’occhio si oppongono ispidi acciottolati onnipresenti. Non era la bella Ferrara medievale in senso proprio, non la città dei monumenti dico, ma un’immagine piú dimessa (e per me piú vera) della magnificenza degli estensi: era quell’estremo lembo della zona vecchia che sta tra il corso della Ghiara – cosí detto perché un ramo del Po vi fu coperto da Biagio Rossetti all’alba del Rinascimento – e la via Scandiana, al temine della quale, negli stessi anni, i pittori di Borso si arrabattavano a suscitare Mesi sulle vaste pareti di Schifanoia.
E non avrei il ricordo di quel transito mio specifico – io, che in quella zona ci ritorno ogni qual volta approdo alla città dell’infanzia e del rimpianto, alla mia Ferrara odiata con amore, come si possono cordialmente odiare solo i rimorsi – se mio padre non mi avesse indicato, quel giorno, una casa in particolare – non so piú quale – come la casa di Michelangelo Antonioni... e se non avesse aggiunto, in tono tra la deferenza e il compiacimento, che si trattava del piú grande autore cinematografico nostro paesano, ovvero di un ferrarese tra i piú grandi in assoluto. Osservo qui – e anche questo partecipa ai rimpianti – che alla fine degli anni Sessanta il medico di campagna, mezzo contadino e mezzo chirurgo, già conosceva le opere del regista piú difficile e introverso, del piú complicato e anche contestato tra i creatori del cinema italiano! Io no, ovviamente, ma quel nome mi è rimasto dentro come un segno di fuoco nell’immaginario, come un mito resistente, fino alle successive visioni di Blow Up e di Professione: reporter, nella fase d’entusiasmo dei miei anni liceali e poi universitari, e quindi fino alla passione, susseguente, del recupero delle opere piú classiche, quelle cioè che dovevano aver prodotto l’alta opinione nella mente di mio padre, tra i Cinquanta e i Sessanta: Cronaca di un amore, I vinti, Il grido, L’avventura...
Quel che vorrei azzardare è che vi sia un rapporto, anche al di fuori della suggestione di cui son vittima, tra il paese che Antonioni ha sempre vissuto come irrinunciabilmente suo – ovvero anche quando soggiornava a Roma e a Londra – e le atmosfere ansiose, i cieli pallidi, gli strazi urbani, i campi deserti e sconfortanti, le rovine quotidiane, opprimenti e tormentate, che fanno da sustrato psicovisivo alle indicibili sofferenze esistenziali dei suoi personaggi. Tali “visioni”, in parte uscenti dal soggetto appositamente filmato, ossia da quei paesaggi, in parte create a mezzo di sapienti tecniche di ripresa, ossia capaci di rendere tali quei luoghi, concorrono in modo essenziale a determinare la forza mostruosa del cinema di Antonioni, ovvero a costituirne l’efficacia in relazione a ciò che egli vuole narrare. In base a una “poetica” condivisa con un’area importante della poesia del Novecento, da Thomas Stearns Eliot in poi, le immagini della desolazione sono infatti in Michelangelo correlativi oggettivi di ciò che altrimenti non si potrebbe dire affatto, a meno di dirlo in maniera letterale, banale e didattica, del tutto inefficace: la profonda disperazione che è nella vita dell’uomo (occidentale) contemporaneo, la sciagura della sua deviazione tecnicistica e consumistica, la sua perdita di spiritualità e di autenticità nel rapporto sociale e intersoggettivo. Insomma quel che, a fianco di Antonioni, anche se con mezzi assai diversi, andava dicendo nella stessa traiettoria storica – con altrettale e anche piú cupo sconforto – Pier Paolo Pasolini.
Che in Antonioni, come in molti altri registi degni del titolo, si contempli l’urgenza di spremere dal quadro visivo (qui inteso come sfondo, e dunque completamento dell’azione scenica) tutto ciò che esso può conseguire nella definizione di un senso morale, di una persuasione indotta, tale da riqualificare gli atti, i gesti, gli sguardi, le parole e ancor più i silenzi, dei personaggi, come qualcosa che ne determina – non per convenzione simbolica: per convergenza e per correlazione oggettiva, e pertanto, semmai, nel flusso potente di una produzione allegorica – la temperie psichica, è dato ovvio e che non metterebbe conto di sottolineare, in linea di massima... Ma in lui, diversamente che in altri – e in ciò è il punctum – non è tanto la ricerca dell’eccezione, dell’insolita visuale, a fare testo, quanto piuttosto l’adesione a una norma paesistica già data, ritrovata senza troppo sforzo nella realtà vissuta e nella memoria, che è “normalità” (appunto) per chi ha sentito sulla pelle propria e di tutti, fin da quando è nato, la gravità opprimente di un vuoto dell’aria e delle cose, dell’orizzonte lontano e del cielo sempre pallido che lo sovrasta (e su di esso preme), nelle lande inospitali della campagna ferrarese e nelle vie deserte per definizione della piccola capitale di una “bassa” che è tra le padane la piú bassa di tutte.
Si noti che nei films di Antonioni sono assai rare le costruzioni temerarie di inquadratura, e che l’azzardo pirotecnico a forte impatto emotivo è quasi del tutto assente dalla sua opera. Dico – per farmi intendere – le riprese alla Welles (come il bastione di Acapulco visto dall’alto di un elicottero in The Lady from Shanghai, o i soffitti minacciosi di Citizen Kane, o i quadri sghembi a chiaroscuro espressionista in The third man, tutto wellesiano anche se firmato da Carol Reed... per non parlare delle acrobazie di cinepresa in Touch of Evil o dei montaggi a fotocollage impazzito di F for Fake), oppure potrei dire ancora il simbolismo visivo delle rotazioni doppie e triple di ripresa in Fassbinder (Martha e Roulette cinese), o ancora le zoomate rapaci in Hitchcock... E potrei continuare a lungo, se solo osassi sfiorare i nomi di Jean-Luc Godard o di Dziga Vertov. Certo, anche nel ferrarese troviamo esempi notevoli di gestione sperimentale della tecnica di ripresa – e basterebbe rammentare il piano-sequenza finale di Professione: reporter, con la lentissima, magica e necro-metaforica, avanzata dell’occhio della macchina (e dunque dello spettatore stupefatto) oltre la grata della finestra, dall’interno all’esterno, oppure il ralenti infinito dell’esplosione della villa in Zabriski Point – ma è come se queste prove d’abilità non fossero del tutto indispensabili alla definizione del suo cinema.
Il fatto è che, di fatto, non lo sono, poiché non su di esse si basa l’energia (incredibile energia!) del linguaggio di Antonioni. Diciamo piuttosto che ciò che rende uniche e fortemente espressive le calme e calibratissime inquadrature dei suoi primi films, e piú in generale di tutto il suo cinema, è la capacità di creare attraverso di esse (per mezzo di sfondi paesistici che sono là a surdeterminarne il senso – sur o sub... anche in modo subliminale, plausibilmente) atmosfere interiori di una densità che si pone ai limiti dello psicologicamente tollerabile. Ne Il grido – che è probabilmente il suo piú alto capolavoro giovanile (1957) – una mano tesa nel vuoto, ad esempio, è qualcosa che si staglia sopra un varco visivo effettivo, un vuoto dell’anima trasferito al vuoto dello scenario rurale piatto e privo di volumi, dove in verticale si stagliano – quasi a costituire la migliore delle ipotesi – linee sottili e senza spessore di pali elettrici o di spogli filari di pioppi schierati in parate spettrali lungo canali stretti e a loro volta rettilinei in fuga trasversale verso l’invisibile...
Pianura sconciamente disumana, giacché disumanata, depravata dalle opere violente di insediamenti spietati e spietatamente improvvidi, lungo i secoli, che reca la memoria del proprio smarrimento progressivo: pianura maledetta da accanimenti di abuso intenso di ogni zolla coltivabile e resa ancor piú “sterile” dal carico infinito di un’infinita e dolorosa (umana o disumana) rassegnazione: prodotto incongruo e increscioso di bonifiche che la malaria hanno solo trasferita, per cosí dire, in una ubiquità pervasiva, travasando la palude del disincanto fin dentro le midolla delle cose e delle case. Oppure case e paesi interi di inospitale infelicità, come Francolino sul Po, in mezzo a quelle lande: case che son piú tetre – dietro facciate di parvenze di un piccolo benessere – dell’inferno del villaggio di Kurz nel fitto della giungla, nel Cuore di tenebra, e comunque tenebrose come l’inferno della vita insensata che accudiscono.
Il grido! L’allegoria vi agisce su tutti i piani e su tutti i livelli: nell’estenuante risposta che le sequenze dànno alla lentezza del paesaggio, nell’influenza reciproca di quadri e situazioni narrative, nel richiamo continuo a “spine nel fianco” (della vita) che il visivo in quanto tale, in quanto contesto, infligge a tutto ciò che di umano esso ammette (ma per tolleranza, si direbbe, piú che per ospitalità), e nello scontro e nel conflitto – infine – tra gli atti e le parole dei personaggi e la “divina Indifferenza” di quelle non-cose, non-oggetti, che sono le cose e le case della campagna ferrarese. Francolino e Stienta rappresentano Goriano: una crasi, non solo lessicale, di Goro e Ariano, entrambi situati sul Po ma a un diverso grado di “altitudine”: in quella voragine progressiva che il fascino malato della foce apre su ciò che finge di fecondare, per inghiottirvi – si direbbe – tutto il vegetale e l’animale che la contaminazione richiama a sé. E poi Ravenna, giustamente a far le vesti di Ferrara, in quanto essa stessa (simile nell’atmosfera, ma forse per il regista meno “marcata” di fastidiosi sentimenti) padana e palustre nel piú profondo delle viscere, e altresí nel piú liscio della pelle.
Centrale, perché ripetuto come un’ossessione, è il non-luogo della pompa di benzina, dove Aldo per un poco si rifugia nel suo falso movimento: lievemente rialzato per l’argine di un canale, tale “punctum” della catastrofe non può che leggersi come ripetizione differente di un’altra e piú antica Ossessione fluviale: quella dell’osteria della Dogana, 1943, nel primevo stupendo grido di consenso alle “tematiche della miseria” da parte del piú aristocratico dei maestri del cinema italiano, Luchino Visconti, che era stato preparato a quel fatale coup de dés – in piena guerra, in pieno fascismo moribondo, in piena catastrofe della patria – dai realisti poetici francesi, da Vigo, da Renoir e da Carné, i primi (forse) ad allegorizzare in dimensione di tragedia l’ambiente fisico di una società di miserabili. Ma in Antonioni, nel suo Grido, lo sconfinato squallore del paesaggio (umano e disumano) fornisce il significante allegorico con solerzia ancor piú immediata. Quasi elementare, visto oggi... ma bisognava accorgersene! Muovendo in doppia direzione dalla pompa di benzina, dalla casa della benzinaia, vagamente opulenta e perfino carnalmente ospitale, ma tuttavia disperata, la strada parte dirigendosi nel vuoto: ovunque si vada, si cade nel nulla. E la fuga è sempre e solo sconfitta, ritorno inopinato, circolo vizioso.
E poi quella torre industriale da cui Aldo si getta, quell’ambiente (umano e disumano) che fa da sfondo al compianto finale dell’opera, quell’alberello spoglio – a sinistra della madonna china sul suo cristo – che richiama consimili arbusti simbolici nelle Pietà del Quattrocento belliniano, dove il grido è già lanciato nel vuoto prima ancora che Irma possa emettere un suono, e anche dopo che il suono si è fatto silenzio mortale, tutti questi elementi non fanno che “realizzare” per il cinema quel che forse la pittura “realizza” da sempre (non potendo in vero disporre d’altra forma linguistica di descrizione): che il dramma degli esseri viventi è specchiato nei luoghi in cui essi vivono o son gettati a vivere. «L’accordo straziante tra la spoglia livida del Cristo, come corazzato dalla morte, e il picco immobile della Vergine impietrita che sovrasta i monti lontani; il funereo pennacchio e lo sterpo attoscato sulla roccia levata di quinta a stringere l’intarsio freddo e rigato del cielo dopo la tempesta d’autunno; i monti di verde lavato presso il borgo pallido; ogni cosa si rilega in una lettura netta e crudele, senza comparazione a quei tempi.» (Roberto Longhi, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, sulla Pietà di Giovanni Buonconsiglio, poeta di un solo dipinto, 1495 ca., Vicenza, Musei Civici).

[In “Rifrazioni” n.10, Bologna, 2012]