Psicovisione del vuoto: il
Grido del paesaggio
Ho ancora viva la memoria di
quando, ragazzo poco piú che tredicenne, mi trovai per caso a passare con mio
padre in una zona di Ferrara che amavo già allora e che ho sempre amato in
sèguito, sbalorditiva per quella sua ovvia e facilmente interiorizzabile
tristezza, bella come la malinconia, paese e città in un sol tempo, mesta e
terribilmente nobile, arrogante nella sua delicatezza: con case basse, di epoca
indefinita, antiche e semplici, uniformi, piú che sobrie... pressoché
sussurrate dal tempo come in un alito di luce scialba: silenti e come vaghe
nella prospettiva di strade difettose e lievemente concave al centro, dove al
piede e all’occhio si oppongono ispidi acciottolati onnipresenti. Non era la
bella Ferrara medievale in senso proprio, non la città dei monumenti dico, ma
un’immagine piú dimessa (e per me piú vera) della magnificenza degli estensi:
era quell’estremo lembo della zona vecchia che sta tra il corso della Ghiara –
cosí detto perché un ramo del Po vi fu coperto da Biagio Rossetti all’alba del
Rinascimento – e la via Scandiana, al temine della quale, negli stessi anni, i
pittori di Borso si arrabattavano a suscitare Mesi sulle vaste pareti di
Schifanoia.
E non avrei il
ricordo di quel transito mio specifico – io, che in quella zona ci ritorno ogni
qual volta approdo alla città dell’infanzia e del rimpianto, alla mia Ferrara
odiata con amore, come si possono cordialmente odiare solo i rimorsi – se mio
padre non mi avesse indicato, quel giorno, una casa in particolare – non so piú
quale – come la casa di Michelangelo Antonioni... e se non avesse aggiunto, in
tono tra la deferenza e il compiacimento, che si trattava del piú grande autore
cinematografico nostro paesano, ovvero di un ferrarese tra i piú grandi in
assoluto. Osservo qui – e anche questo partecipa ai rimpianti – che alla fine
degli anni Sessanta il medico di campagna, mezzo contadino e mezzo chirurgo,
già conosceva le opere del regista piú difficile e introverso, del piú
complicato e anche contestato tra i creatori del cinema italiano! Io no,
ovviamente, ma quel nome mi è rimasto dentro come un segno di fuoco
nell’immaginario, come un mito resistente, fino alle successive visioni di Blow Up e di Professione: reporter, nella fase d’entusiasmo dei miei anni
liceali e poi universitari, e quindi fino alla passione, susseguente, del recupero
delle opere piú classiche, quelle cioè che dovevano aver prodotto l’alta opinione
nella mente di mio padre, tra i Cinquanta e i Sessanta: Cronaca di un amore, I vinti,
Il grido, L’avventura...
Quel che vorrei
azzardare è che vi sia un rapporto, anche al di fuori della suggestione di cui
son vittima, tra il paese che Antonioni ha sempre vissuto come irrinunciabilmente
suo – ovvero anche quando soggiornava a Roma e a Londra – e le atmosfere
ansiose, i cieli pallidi, gli strazi urbani, i campi deserti e sconfortanti, le
rovine quotidiane, opprimenti e tormentate, che fanno da sustrato psicovisivo
alle indicibili sofferenze esistenziali dei suoi personaggi. Tali “visioni”, in
parte uscenti dal soggetto appositamente filmato, ossia da quei paesaggi, in parte create a mezzo di sapienti tecniche di
ripresa, ossia capaci di rendere tali
quei luoghi, concorrono in modo essenziale a determinare la forza mostruosa del
cinema di Antonioni, ovvero a costituirne l’efficacia in relazione a ciò che
egli vuole narrare. In base a una “poetica” condivisa con un’area importante
della poesia del Novecento, da Thomas Stearns Eliot in poi, le immagini della
desolazione sono infatti in Michelangelo correlativi
oggettivi di ciò che altrimenti non si potrebbe dire affatto, a meno di
dirlo in maniera letterale, banale e didattica, del tutto inefficace: la
profonda disperazione che è nella vita dell’uomo (occidentale) contemporaneo,
la sciagura della sua deviazione tecnicistica e consumistica, la sua perdita di
spiritualità e di autenticità nel rapporto sociale e intersoggettivo. Insomma
quel che, a fianco di Antonioni, anche se con mezzi assai diversi, andava
dicendo nella stessa traiettoria storica – con altrettale e anche piú cupo
sconforto – Pier Paolo Pasolini.
Che in
Antonioni, come in molti altri registi degni del titolo, si contempli l’urgenza
di spremere dal quadro visivo (qui inteso come sfondo, e dunque
completamento dell’azione scenica) tutto ciò che esso può conseguire nella
definizione di un senso morale, di
una persuasione indotta, tale da riqualificare gli atti, i gesti, gli sguardi,
le parole e ancor più i silenzi, dei
personaggi, come qualcosa che ne determina – non per convenzione simbolica: per
convergenza e per correlazione oggettiva, e pertanto,
semmai, nel flusso potente di una produzione
allegorica – la temperie psichica, è
dato ovvio e che non metterebbe conto di sottolineare, in linea di massima...
Ma in lui, diversamente che in altri – e in ciò è il punctum – non è tanto la ricerca dell’eccezione, dell’insolita
visuale, a fare testo, quanto
piuttosto l’adesione a una norma paesistica già data, ritrovata senza troppo
sforzo nella realtà vissuta e nella memoria, che è “normalità” (appunto) per
chi ha sentito sulla pelle propria e di tutti, fin da quando è nato, la gravità
opprimente di un vuoto dell’aria e delle cose, dell’orizzonte lontano e del
cielo sempre pallido che lo sovrasta (e su di esso preme), nelle lande
inospitali della campagna ferrarese e nelle vie deserte per definizione della
piccola capitale di una “bassa” che è tra le padane la piú bassa di tutte.
Si noti che nei
films di Antonioni sono assai rare le costruzioni
temerarie di inquadratura, e che
l’azzardo pirotecnico a forte impatto emotivo è quasi del tutto assente dalla
sua opera. Dico – per farmi intendere – le riprese alla Welles (come il
bastione di Acapulco visto dall’alto di un elicottero in The Lady from Shanghai, o i soffitti minacciosi di Citizen Kane, o i quadri sghembi a
chiaroscuro espressionista in The third
man, tutto wellesiano anche se firmato da Carol Reed... per non parlare
delle acrobazie di cinepresa in Touch of
Evil o dei montaggi a fotocollage impazzito di F for Fake), oppure potrei dire ancora il simbolismo visivo delle
rotazioni doppie e triple di ripresa in Fassbinder (Martha e Roulette cinese),
o ancora le zoomate rapaci in Hitchcock... E potrei continuare a lungo, se solo
osassi sfiorare i nomi di Jean-Luc Godard o di Dziga Vertov. Certo, anche nel
ferrarese troviamo esempi notevoli di gestione sperimentale della tecnica di
ripresa – e basterebbe rammentare il piano-sequenza finale di Professione: reporter, con la
lentissima, magica e necro-metaforica, avanzata dell’occhio della macchina (e
dunque dello spettatore stupefatto) oltre la grata della finestra, dall’interno
all’esterno, oppure il ralenti
infinito dell’esplosione della villa in Zabriski
Point – ma è come se queste prove d’abilità non fossero del tutto
indispensabili alla definizione del suo cinema.
Il fatto è che,
di fatto, non lo sono, poiché non su di esse si basa l’energia (incredibile
energia!) del linguaggio di Antonioni. Diciamo piuttosto che ciò che rende
uniche e fortemente espressive le calme e calibratissime inquadrature dei suoi
primi films, e piú in generale di tutto il suo cinema, è la capacità di creare
attraverso di esse (per mezzo di sfondi paesistici che sono là a
surdeterminarne il senso – sur o sub... anche in modo subliminale,
plausibilmente) atmosfere interiori di una densità che si pone ai limiti dello
psicologicamente tollerabile. Ne Il grido
– che è probabilmente il suo piú alto capolavoro giovanile (1957) – una mano
tesa nel vuoto, ad esempio, è qualcosa che si staglia sopra un varco visivo
effettivo, un vuoto dell’anima trasferito al vuoto dello scenario rurale piatto
e privo di volumi, dove in verticale si stagliano – quasi a costituire la
migliore delle ipotesi – linee sottili e senza spessore di pali elettrici o di
spogli filari di pioppi schierati in parate spettrali lungo canali stretti e a
loro volta rettilinei in fuga trasversale verso l’invisibile...
Pianura
sconciamente disumana, giacché disumanata,
depravata dalle opere violente di insediamenti spietati e spietatamente
improvvidi, lungo i secoli, che reca la memoria del proprio smarrimento
progressivo: pianura maledetta da accanimenti di abuso intenso di ogni zolla
coltivabile e resa ancor piú “sterile” dal carico infinito di un’infinita e
dolorosa (umana o disumana) rassegnazione: prodotto incongruo e increscioso di
bonifiche che la malaria hanno solo trasferita, per cosí dire, in una ubiquità
pervasiva, travasando la palude del disincanto fin dentro le midolla delle cose
e delle case. Oppure case e paesi interi di inospitale infelicità, come
Francolino sul Po, in mezzo a quelle lande: case che son piú tetre – dietro
facciate di parvenze di un piccolo benessere – dell’inferno del villaggio di
Kurz nel fitto della giungla, nel Cuore
di tenebra, e comunque tenebrose come l’inferno della vita insensata che
accudiscono.
Il grido! L’allegoria vi agisce su tutti
i piani e su tutti i livelli: nell’estenuante risposta che le sequenze dànno
alla lentezza del paesaggio, nell’influenza reciproca di quadri e situazioni
narrative, nel richiamo continuo a “spine nel fianco” (della vita) che il
visivo in quanto tale, in quanto contesto, infligge a tutto ciò che di umano
esso ammette (ma per tolleranza, si direbbe, piú che per ospitalità), e nello
scontro e nel conflitto – infine – tra gli atti e le parole dei personaggi e la
“divina Indifferenza” di quelle non-cose, non-oggetti, che sono le cose e le
case della campagna ferrarese. Francolino e Stienta rappresentano Goriano: una crasi, non solo lessicale, di Goro e
Ariano, entrambi situati sul Po ma a un diverso grado di “altitudine”: in quella
voragine progressiva che il fascino malato della foce apre su ciò che finge di
fecondare, per inghiottirvi – si direbbe – tutto il vegetale e l’animale che la
contaminazione richiama a sé. E poi Ravenna, giustamente a far le vesti di
Ferrara, in quanto essa stessa (simile nell’atmosfera, ma forse per il regista
meno “marcata” di fastidiosi sentimenti) padana e palustre nel piú profondo
delle viscere, e altresí nel piú liscio della pelle.
Centrale, perché
ripetuto come un’ossessione, è il non-luogo
della pompa di benzina, dove Aldo per un poco si rifugia nel suo falso movimento: lievemente rialzato per
l’argine di un canale, tale “punctum” della catastrofe non può che leggersi
come ripetizione differente di
un’altra e piú antica Ossessione
fluviale: quella dell’osteria della Dogana, 1943, nel primevo stupendo grido di
consenso alle “tematiche della miseria” da parte del piú aristocratico dei
maestri del cinema italiano, Luchino Visconti, che era stato preparato a quel
fatale coup de dés – in piena guerra,
in pieno fascismo moribondo, in piena catastrofe della patria – dai realisti poetici
francesi, da Vigo, da Renoir e da Carné, i primi (forse) ad allegorizzare in dimensione
di tragedia l’ambiente fisico di una società di miserabili. Ma in Antonioni,
nel suo Grido, lo sconfinato
squallore del paesaggio (umano e disumano) fornisce il significante allegorico
con solerzia ancor piú immediata. Quasi elementare, visto oggi... ma bisognava
accorgersene! Muovendo in doppia direzione dalla pompa di benzina, dalla casa
della benzinaia, vagamente opulenta e perfino carnalmente ospitale, ma tuttavia
disperata, la strada parte dirigendosi nel vuoto: ovunque si vada, si cade nel
nulla. E la fuga è sempre e solo sconfitta, ritorno inopinato, circolo vizioso.
E poi quella
torre industriale da cui Aldo si getta, quell’ambiente (umano e disumano) che
fa da sfondo al compianto finale
dell’opera, quell’alberello spoglio – a sinistra della madonna china sul suo cristo
– che richiama consimili arbusti simbolici nelle Pietà del Quattrocento belliniano, dove il grido è già lanciato nel
vuoto prima ancora che Irma possa emettere un suono, e anche dopo che il suono
si è fatto silenzio mortale, tutti questi elementi non fanno che “realizzare”
per il cinema quel che forse la pittura “realizza” da sempre (non potendo in
vero disporre d’altra forma linguistica di descrizione): che il dramma degli
esseri viventi è specchiato nei luoghi in cui essi vivono o son gettati a vivere.
«L’accordo straziante tra la spoglia livida del Cristo, come corazzato dalla
morte, e il picco immobile della Vergine impietrita che sovrasta i monti
lontani; il funereo pennacchio e lo sterpo attoscato sulla roccia levata di
quinta a stringere l’intarsio freddo e rigato del cielo dopo la tempesta
d’autunno; i monti di verde lavato presso il borgo pallido; ogni cosa si rilega
in una lettura netta e crudele, senza comparazione a quei tempi.» (Roberto
Longhi, Viatico per cinque secoli di
pittura veneziana, sulla Pietà di
Giovanni Buonconsiglio, poeta di un solo dipinto, 1495 ca., Vicenza, Musei
Civici).
[In “Rifrazioni” n.10, Bologna, 2012]