LA SCRITTURA
DELL’IMMAGINE
Riflessioni su un auspicabile
progresso – nel rapporto tra parola e immagine – dall’immagine de-scritta all’immagine
scritta, e sulla scrittura di Marcel Proust, dove la genialità di parola giunge
a creare l’immagine dell’immagine (ovviamente) servendosi dell’immaginazione.
Io in questa sede scrivo di visioni – di cinema, di
teatro, di pittura – e pertanto di immagini, ben sapendo la subalternità della
parola (scritta, sopra tutto) all’immagine che va a descrivere, e conoscendo il
fatto che un’immagine tutt’al piú si può de-scrivere
e niente affatto scrivere. La
scrittura storico-artistica, quella della critica d’arte, le scritture tutte
della de-scrizione dell’immagine, si
dànno nella migliore delle ipotesi come viatico alla conoscenza dell’oggetto di
cui parlano, blande didascalie che servono a poco o a nulla, e (oppure)
comunque servono, letteralmente servono, dato che sono all’immagine
completamente asservite.
Tale implacabile
sottomissione, per non dire schiavitù, fu del resto ampiamente evidenziata da
René Magritte, il quale mise sotto l’immagine di una pipa la dicitura “Ceci
n’est pas une pipe”, e ottenne il risultato di suddividere il proprio pubblico
in due opposte fazioni: il partito di coloro che pensavano che la frase è
erronea perché l’immagine mostra esattamente una pipa, e quello di coloro che
pensavano (e ancora pensano) che la frase sia veritiera, dato che non si tratta
affatto di una pipa bensí (soltanto) dell’immagine di una pipa. I secondi (per
quel che ne capisco assai piú stolti dei primi) si affannarono in séguito, onde
avvalorar la tesi, a dichiarare che quell’immagine non scotta tra le dita, che
non è fatta di radica e di bachelite, che non si può riempire di tabacco, che
non si può fumare... ossia – in definitiva e per farla breve – sostennero con
forza che non è affatto una pipa pur assomigliandole per certi aspetti non
propriamente funzionali. Ma Santo Iddio, la questione era e rimase
ostinatamente quella: la frase verbale, che nega che si tratti di una pipa,
mente o dice il vero? E a nessuno transitò mai per il vestibolo anteriore o
posteriore della più minuscola delle sinapsi neuroniche, neppure per un attimo,
il minimo dubbio che potesse essere invece l’immagine a mentire... A nessuno,
ripeto! Dico, nessuno che abbia mai provato a formulare il seguente
ragionamento, politicamente assai corretto: un segno iconico esprime il
concetto che c’è una pipa e nel medesimo contesto un segno verbale nega che di
pipa possa trattarsi, pertanto una delle due proposizioni è erronea (oppure,
peggio, menzognera) e non abbiamo nessuno strumento, in base ai dati di cui
disponiamo, per acclarare chi dei due stia dicendo il vero e chi il falso, chi
sia in errore e chi no.
Il fatto è che la
potenza eidetica (e referenziale) dell’immagine ha sempre la meglio sulla
vaghezza simbolica (e astratta) della parola. E non c’è dunque da stupire della
sudditanza psicologica che da sempre la seconda vive nei confronti della prima.
Terreno di coltura di tale irreparabile secondarietà
è il campo della critica d’arte e – fin dai tempi del Vasari – della
storiografia artistica, dove la penna o la tastiera dell’autore saggistico per
lo piú si dichiarano (quasi a-priori) incapaci di restituire pienamente ciò che
l’immagine produce e acconciano il proprio testo al ruolo di glossa o di
postilla, tutt’al piú di chiosa esplicativa, senza mai giungere a una
scrittura vera (e a sua volta artistica) come cosí spesso succede alla critica
letteraria, la quale riesce a porsi come scrittura dotata d’argomento ma senza
patemi di inferiorità rispetto alla scrittura di cui parla.
Il massimo
d’autonomia creativa fu raggiunto in Italia dalla formidabile scrittura di Roberto
Longhi, capace quasi di competere con le immagini (i dipinti, per lo piú) che
esaltava, e dunque due volte “scrittura d’arte”: per l’oggetto di cui tratta e
per il modo con cui lo fa. Una qualità evocativa immensa, un accento sempre
visionario, una caparbietà inventiva nel dar corpo visivo all’immagine per
tramite verbale, un “dono divino” si potrebbe supporre, che lo sottrae ad ogni
piatta didascalia filologica e storiografica, quando argomenta degli amati
“primitivi” quattrocentisti, Piero e i veneziani, e del Caravaggio, e anche
d’altre stagioni della pittura della grande tradizione, anche contro – io credo
– quei seguaci i quali, difendendolo come storico e filologo, non solo non
hanno saputo realmente coglierne e mostrarne la grandezza, ma hanno finito
piuttosto con l’esporre il loro (presunto) maestro a troppo facili ironie, e
perfino a condanne senza appello, da parte di un mondo di accademici a cui egli
mai appartenne e i suoi discepoli invece sí. Basterà leggere un passo dal Viatico per cinque secoli di pittura
veneziana (1946), dove Longhi, premesso che il lavoro storico l’han già
fatto i curatori della mostra che commenta, si lancia nella scrittura (“descrizione” sarebbe qui
davvero un concetto riduttivo) della Pietà
del Buonconsiglio che si trova al Museo di Vicenza: «L’accordo straziante tra
la spoglia livida del Cristo, come corazzato dalla morte, e il picco immobile
della Vergine impietrita che sovrasta i monti lontani; il funereo pennacchio e
lo sterpo attoscato sulla roccia levata di quinta a stringere l’intarsio freddo
e rigato del cielo dopo la tempesta d’autunno; i monti di verde lavato presso
il borgo pallido; ogni cosa si rilega in una lettura netta e crudele, senza
comparazione a quei tempi.». [ed. Sansoni, pp. 18-19]. Qui la parola dà
prova di una capacità di ingiunzione di
senso presso i caratteri formali di un testo pittorico che è “senza
comparazione a quei tempi” (e non solo a quelli), benché facile sarà per un
filologo dalle dita paralitiche osservare, ghignando, che la Pasqua di
Resurrezione non cade propriamente in autunno. Ma – a marzo o in ottobre, o in
qualunque altro periodo dell’anno – si potrà pur sempre cadere in ginocchio
dinnanzi un altro brano dello stesso Viatico,
dedicato questa volta al genio di Giovanni Bellini: «Uomo di meditazioni instancabili,
mai pago di evocare l’antico, d’intendere il nuovo e di provarli, egli fu tutto
quel che si dice: prima bizantino e gotico, poi mantegnesco e padovano, poi
sulle tracce di Piero e di Antonello, in ultimo fin giorgionesco; eppure sempre
lui, caldo sangue, alito accorato, accordo pieno e profondo tra l’uomo, le orme
dell’uomo fattosi storia, e il manto della natura. Accordo fra le masse umane
prominenti e le nubi alte, lontane, e cariche di sogni narrati; tra le chiostre
dei monti e le absidi antiche, le grotte di pastori e le terrazze cittadine, le
chiese color tortora del patriarcato e il chiuso delle greggi, le rocche
medievali e le rocce friabili degli Euganei. Una calma che spazia fra i
sentimenti eterni dell’uomo: cara bellezza, venerata religione, eterno spirito,
vivo senso; e una pacificazione corale che fonde e sfuma i sentimenti,
dall’alba di rosa al tramonto di viola, secondo l’ora del giorno.» [idem, pp.
15-16].
Ecco, in Longhi abbiamo
l’esempio di una scrittura che tenta di vincere la partita sull’immagine, quasi
ricreandola piuttosto che commentarla, e che sottilmente impone all’immagine –
come per una nemesi o per un contrappasso – di farsi chiosa del testo scritto.
Esito non dissimile da quello conseguito nella magnifica “poesia critica” di
Emilio Villa, ad esempio nei testi ispirati alle opere di Alberto Burri, oggi
raccolti in Pittura dell’ultimo giorno,
che sono dotati di una potenza d’espressione tale da emozionare ed entusiasmare
anche chi li leggesse senza aver mai visto un dipinto dell’autore a cui si
riferiscono.
Tuttavia lo stupore
che si prova dinnanzi a certe pagine della Recherche,
dove Marcel Proust spalanca per noi l’estremismo della sua parola totalizzante,
e dunque finalmente vittoriosa (anche) sulle immagini, al punto da farne
dipendere l’esistenza da quella parola stessa, è qualcosa su cui bisognerebbe
meditare con attenzione ancora piú devota. Corrono forse alla mente di chi mi
sta leggendo le pagine intorno alla Veduta
di Delft, memorabili per l’accanimento con cui la pittura di Johannes
Vermeer è riformata e riformulata a mezzo di un approccio decisamente
allucinogeno, che rinviene miracoli epifanici pressoché invisibili (in quanto
non isolabili dal contesto) se si prescinde della loro proustiana re-iscrizione: «Una piccola ala di muro
gialla, di cui non si ricordava, era dipinta così bene da apparire, a guardarla
isolatamente, simile ad una preziosa opera d’arte cinese, di una bellezza che
basta a se stessa.». Ma si può intendere ben altro: ad esempio l’evocazione di
opere visuali del tutto inesistenti e quindi letteralmente create da un testo verbale che le materializza
dinnanzi all’occhio (interiore) del lettore, con una forza di persuasione e di
definizione del dettaglio visivo che si direbbe quasi sovrannaturale, mostruosa
secondo qualunque semiotica, tanto che è come se quelle immagini vivessero di
una vita materiale ed effettiva, paragonabile a quella dei dipinti o delle
sculture che effettivamente esistono e si vedono nei nostri musei. Due esempi:
il lungo passo sul portale della chiesa di Balbec – forse una sintesi o una
proiezione di portali medievali realmente presenti sul territorio normanno, o
dell’Ile-de-France, o di Borgogna – che viene narrativamente trattato come
referto di una lezione critica effettuata dal pittore Elstir a beneficio del
Narratore, in A’ l’ombre des jeunes
filles en fleur; o ancora il brano (nello stesso libro ma poco piú avanti)
in cui è finta la descrizione, questa volta da parte del Narratore in persona,
di un quadro meraviglioso dello stesso Elstir (una “marina” che rimanda a
quelle normanne di Claude Monet). In quei luoghi – che mi paiono unici nella
storia della letteratura e (perché no?) anche nella storia delle arti visive –
la scrittura si fa davvero imago-poietica:
piú potente dell’immagine sul terreno dell’immagine stessa, immaginifica nel significato piú
profondo del termine.
«Come, – mi
disse, – siete stato deluso da quel portale? Ma è la piú bella Bibbia istoriata
che il popolo abbia mai potuto leggere. Quella Vergine e tutti i bassorilievi
che ne raccontano la vita sono l’espressione piú tenera, piú ispirata, di quel
lungo poema d’adorazione e di lodi che il Medioevo svolse in gloria della
Madonna. [...] L’idea di quel grande velo nel quale gli angeli portano il corpo
della Vergine, troppo sacro perché usino toccarlo direttamente […];
nell’incontro fra la Vergine ed Elisabetta, il gesto di quest’ultima che tocca
il seno di Maria e si meraviglia di sentirlo gonfio; e il braccio bendato della
levatrice che non aveva voluto credere, senza toccare, all’Immacolata
concezione […]; e, anche, quel velo che la Vergine si strappa dal seno per
velare le nudità di suo figlio da un fianco del quale la Chiesa raccoglie il
sangue, il liquore dell’Eucaristia, mentre, dall’altro lato, la Sinagoga, il
cui regno è finito, ha gli occhi bendati, tiene uno scettro mezzo spezzato e si
lascia sfuggire, con la corona che le cade dal capo, le tavole dell’antica
Legge…» [Ed.it. Millenni Einaudi, I, pp. 907-908].
Ed è questo solo un
breve spezzone di quel lungo resoconto su un’opera formidabile che in realtà
non esiste (se non nelle pagine della Recherche)
e che Proust – nel fingerla oggetto della parola critica di Elstir – ha
inventato per noi tramite una vis
immaginativa non inferiore a quelle di Gislebertus o del Maestro di
Vézelay, i campioni assoluti della grande plastica medievale della Francia del
Nord. Ma non meno impressionante è, come detto, l’ideazione delle opere di
Elstir medesimo, che il Narratore, dotato di una sensibilità critica a sua
volta non inferiore a quelle di un Ruskin o di un Warburg, fa nascere dinnanzi
ai nostri occhi stupefatti come vivide e autenticamente straordinarie:
«Effettivamente, si
sarebbero detti immensi archi rosa. Ma, dipinti in una giornata torrida,
sembravano ridotti in polvere, volatilizzati dal calore, che aveva per metà
bevuto il mare, quasi passato, in tutta la distesa della tela, allo stato
gassoso. In quella giornata, in cui la luce aveva come distrutto la realtà,
questa era concentrata in creature scure e trasparenti, che, per contrasto,
davano un’impressione di vita piú forte, piú vicina: le ombre. Assetate di
freschezza, disertando la maggior parte il mare aperto divampante, s’erano
rifugiate ai piedi degli scogli, al riparo del sole; altre navigando lentamente
sulle acque come delfini si attaccavano ai fianchi di barche da diporto, di cui
allargavano lo scafo, sull’acqua pallida, col loro corpo terso turchino...»
[idem, pp. 969-970].
Il Poeta si è fatto
pittore, non c’è dubbio: un artista che dipinge con la parola. Di questi quadri
inesistenti, che mi parrebbero appartenere di diritto alla storia della nostra
tradizione artistica accanto alle tele di Monet o di Courbet che li hanno
ispirati, la parola autrice ci ha restituito infatti la potenza espressiva,
l’originalità linguistica, l’afflato sentimentale, l’anima luminosa, e anche
una serie di altre mirabili qualità che nessun artista (in quei medesimi
termini) ha mai potuto allestire, in oggetti fisici, per la gioia del nostro
sguardo.
[pubblicato in in «Malacoda» [D], n. 4, Roma, 2016]