domenica 1 ottobre 2017

ADIEU AU LANGAGE di GODARD

A DIO IL LINGUAGGIO


Considerazioni iniziali e provvisorie su «Adieu au Langage» di Jean-Luc Godard, ultimo film dell’ottanta­quattrenne “enfant terrible” del cinema francese: per una puntualizzazione sulle possibilità espressive dell’arte dopo la caduta dell’illusione narrativa e ai fini di una critica delle forme di riproduzione ideologica del mondo spacciate per conoscenza del medesimo.


L’ennesimo “addio al linguaggio” che Jean-Luc Godard ha voluto proclamare con il suo piú recente film – uscito negli Stati Uniti il 29 ottobre 2014 e in Italia (solo in pochissime città) da qualche settimana – è probabilmente da intendere come il sunto e la conferma di quanto il lavoro del sempre giovane regista rivoluzionario francese ci ha insegnato in quarantacinque anni di vita, a partire da quel À bout de souffle (1959) che diede il via a un “respiro di invenzione” che non è mai venuto meno. E, fino all’ultimo respiro, si dovrà ribadire che il cinema di Godard si sviluppa facendo leva sulla necessità di un continuo ripensamento di se stesso, ossia su una riflessione profonda intorno alla speciale “produzione autoriale” che è il suo cinema in rapporto a ciò che l’autore è nel suo formarsi, se si forma – come il suo cinema stesso ci attesta – per mezzo di una cleptomaniaca fagocitazione di altri autori ed opere, non solo cinematografiche (letterarie, pittoriche, teatrali, musicali). Un ripensamento decisamente “critico”, nel senso piú alto e politico della parola, che trae vigore ed efficacia da acutissime modalità di incessante rielaborazione linguistica, grazie alle quali il testo – rigettando la fallace pretesa di una originalità ideologicamente romantica e ritenuta impossibile – macina e rimugina, scompone e riassembla e incessantemente ripropone materiali recuperati dall’imma­ginario collettivo e dai luoghi di comune sentimento di cui il cinema rappresenta (nella sua storia, breve ma intensa) il deposito ideale.
Mettendo a frutto in questo modo il principio del montaggio, che è la prerogativa originaria e per molti sensi “esclusiva” del mezzo cinematografico, vale a dire montando frammenti propri e altrui, delocalizzati dai testi originari o anche elaborati appositamente per interagire con quelli, ma sempre spostati in una sorta di “altrove” rispetto a una possibile successione logica, Godard riesce tuttavia a inserire forti componenti di lettura personale, di pensiero attivo e di vistosa coerenza stilistica (una coerenza che trasforma lo stile in contributo critico potente) tra le pieghe dell’ammasso di ridefinizioni, interpretazioni, riflessioni, aggiunte e commenti che si sovrappongono alla vasta congerie dei materiali montati.
L’addio al linguaggio è dunque per l’evangelista apocrifo della Nouvelle Vague il segno dichiarato di una sostanziale e profonda critica a quella “fiducia nel linguaggio” che l’età contemporanea può produrre solo come falsificazione ideologica: laddove per linguaggio essa intenda la possibilità di descrivere o narrare il mondo e le gesta degli umani che lo popolano, ovvero ove presuma che tutto ciò sia (ancora) narrabile. Non a caso l’ovvia, ma non per questo meno significativa, decifrazione della parola “addio” in “a dio” – che è esplicitata tra i titoli di testa della pellicola godardiana (à dieu le langage!) – rimanda direttamente a una condizione di pertinenza soprannaturale e dunque drasticamente illusoria (per un ateo, almeno) delle facoltà del linguaggio come rappresentazione logica e coerente di una possibile verità. Il che poi sembra potersi tradurre nell’as­sunto (di sconfitta, ma anche di positiva acquisizione di coscienza del limite che si fa occasione operativa) di Ludwig Wittgenstein: «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.» [Tractatus logico-philo­sophicus, 7].
Diciamo allora che il problema che Godard ci (ri)propone è quello degli spazi di sopravvivenza dell’arte come rappresentazione, dell’arte come conoscenza dell’oggetto-mondo; e il contributo che viene dal regista è tanto piú significativo (e perfino coraggiosamente fiducioso) se si accetta la tesi primaria che l’arte non può e non deve assumere carattere consolatorio. La vita stessa diventa vivibile solo se il caos che la domina – la sua irriducibilità a un pensiero logico abilitato a riconoscere in essa cause necessarie ed effetti conseguenti – è accolto come la condizione da cui l’arte muove, e di cui si nutre, per propiziare scintille di senso (senso estetico, innanzi tutto: ossia emozione pura) nel lungo percorso della perdita del senso che affligge lo sviluppo (o l’inviluppo) della cultura umana in generale. E c’è qui – nell’accettazione del fallimento di qualsiasi costruzione filosofica che pretenda di donare significato all’esistenza – qualcosa che riattualizza l’istanza di pensiero critico e negativo delle avanguardie artistiche novecentesche, che per Godard ancora additano a un luogo di salvezza (foss’anche utopistico) dinnanzi alla catastrofe incombente; e c’è ovviamente, sotto traccia ma in piena azione, l’idea benjaminiana di allegoria, come spostamento continuo dell’agire linguistico: dal piano della diretta narrazione a una sfera assai piú complessa di produzione del senso, per la quale il dire è sempre dire-altro, e per cui l’opera di linguaggio (l’opera d’arte) agisce non sull’oggetto di cui sembra parlare, ma su un contesto piú ampio che è fatto di allusioni ad altro “detto”, ad altre presupposizioni (illusorie), ad altre pretese di linguaggio (fallite); e in base alla quale, infine, il linguaggio parla sempre e soltanto di linguaggio: poiché – cosí facendo – dichiara che la vita stessa (il mondo stesso che viene significato) è nient’altro che quello che ancora Wittgenstein chiamava “un gioco linguistico”.
Ma prendere coscienza del gioco linguistico (o dei giochi linguistici) da cui è dominato il soggetto pensante (parlante, e perciò pensante) significa porre la sola base davvero solida da cui può muovere una critica efficace dell’esistente, poiché è il solo modo di propiziare uno svelamento necessario del falso di cui siamo circondati. E se da un lato ciò è quanto consente di riconoscere – in sede di critica estetica – la mistificazione posta in atto dall’arte di consumo, di consolazione e di intrattenimento, dall’altro ciò si pone come la sola possibile ragion d’essere (il solo grande scopo) di un’arte degna di essere praticata. Secondo Godard.

[pubblicato in «9 Novae» [D], n. 3, Roma, 2015]

ULTIME OPERE DI VASCO BENDINI

ULTIME OPERE DI VASCO BENDINI


A Vasco Bendini, uno dei piú grandi (e misconosciuti) pittori italiani dell’ultimo Novecento e di questo inizio di secolo nostro, desidero dedicare la testimonianza di una lettura poco piú che “privata”, quasi come si trattasse solo di quell’amico che egli (effettivamente) fu per me, persuaso come sono della potenza “pubblica” del suo lavoro recente, oggi che ha appena smesso di praticarlo.


Come Monet il 5 dicembre 1926, e come Tiziano il 27 agosto 1576, anche Bendini è morto vecchissimo, a piú di novant’anni, tenendo ben stretta tra i polpastrelli delle dita la bacchetta vibrante del pennello imbevuto di colore, mentre con le pupille fisse sulla tela, con gli occhi semichiusi tra le palpebre, strette per la concentrazione e per l’affanno di una vita interamente votata allo sguardo desiderante, che partorisce l’immagine, egli stava persistendo fino all’ultimo in quella sua (e anche nostra) follia suprema che è il voto radicale all’opera d’arte, come unica ragione per vivere fino in fondo un’esistenza altrimenti troppo lunga.
Cosí e solo cosí può spiegarsi il fenomeno bizzarro del “genio vecchione”.
Cosí si schiusero, infatti, per Monet ottantenne le grandiose utopie di un lago di pittura, di pullulanti infiorescenze di grumi di materia cromatica su fondi slavati e densi, su comprensive distese di immagini latenti e tuttavia corporee, sognate e perdute, intravviste e inafferrabili, nelle due grandi sale ovoidali dell’Orangerie parigina, completamente invase da una siffatta pittura continua in un quadro reso infinito e pertanto negato come quadro: da quella ininterrotta e avvolgente epifania d’acqua e fiori e fronde e alghe, che è poi nient’al­tro che colore su colore, pittura terminale e al tempo stesso germinativa, iniziale ed iniziatica...
Cosí si rivelarono a Tiziano, quasi centenario, il sangue e la carne viva del fauno Marsia, scorticato dalla poesia stessa in veste di Apollo, nel piú incredibile dipinto di tutto il XVI secolo, realizzato – dicono – a percezione tattile da un uomo che aveva ormai perduto la vista e che ciò nonostante, ancora, faceva crepitare nella propria mente lo sguardo insaziabile del­l’au­ten­tica visione pittorica... forse perché aveva dentro di sé quel medesimo fuoco con il quale giunse via via ad incendiare i rossi e i bruni, i vortici profondi di gialli ocracei e le luci accecanti ma rivelatorie, e ulteriori, negli ultimi suoi immensi capolavori.
Cosí, allo stesso modo e per le stesse ragioni, anche in Bendini, morto a Roma il 31 gennaio 2015, si è realizzato infine il genio della pittura. In Bendini, che da oltre quattro decenni – ovvero dal 1972 circa, dopo aver valicato la fase “concettual-comportamentistica” delle neo-avanguardie – era tornato all’assidua frequentazione della tela da coprire di colore. E l’aveva fatto giungendo progressivamente ad affinare, a mezzo d’esperienza, una tecnica già altissima fin dagli esordi, alla metà del secolo passato.
Ipotizzo che solo dopo i suoi ottanta – che per lui e per noi sono questi primi quindici anni del 2000 – Bendini abbia davvero conseguito quella maturità poetica e filosofica che la sua inesausta sperimentazione cercava da sempre. Perché in tale epoca di “posterità collettiva”, e di crisi compiuta delle motivazioni per cui agire (ma forse perfino per cui vivere) tra le inerti macerie di un agire artistico ormai votato al balbettio infantile a cui obbliga l’impo­tenza del­l’in­­telletto, Bendini si erge come una sorta di taumaturgo dell’immagine, quasi come un redentore della pittura, un mago di immensa attitudine e di cognizione illimitata.
La sua clausola, il suo regime rigoroso, discendono invero (per via diretta) da un’intuizione elaborata molto prima:  che il linguaggio non si utilizza ma si asseconda e si tutela, poiché il linguaggio è “la casa del pensiero”. Cosí i dipinti ultimi di Bendini – quegli stupori assoluti che emozionano a prima vista, che non richiedono competenze specifiche ma soltanto una minima predisposizione (i rudimenti di una educazione sentimentale) all’epifania del mistero del colore – nascono da una abilità nel ritrarsi piuttosto che da un azione intenzionale: quasi dal porsi in uno stato d’attesa invece che da un proposito razionale prestabilito. Il pittore si prepara all’auspicio di una nascita, dopo averne (ovviamente) allestito la possibilità, giacché la sua tecnica gli consente di prevedere in parte (non del tutto) come germoglierà l’immagine – e con quali di volta in volta sorprendenti (inusitati) effetti ed affetti – allorché la tela sarà stata segretamente fecondata dal seme del colore, disposto in iniziali strati diversificati; e poi mossa, ripassata, “gestualizzata” sulle masse corporee e dense che la coprono. E all’improvviso il colore si farà luce sopra la luce del giorno.
La forza dei dipinti dell’ultimo Bendini scaturisce infatti da un dato assai preciso: la loro genesi è in qualche modo parallela e del tutto congrua alla procedura con cui il loro significato si crea nella mente di chi li contempla. Qualcosa che coinvolge allo stesso titolo l’autore (responsabile di atti senza i quali l’opera non ci sarebbe) e il fruitore, stretti in una emozione comune, in un accordo simpatetico.
«L’immagine accolta» (titolo di una meravigliosa serie bendiniana del 2006) vuol dirci esattamente questo: che nei dipinti dell’estrema maturità di Vasco l’immagine è “accolta“ in quanto viene lasciata liberamente emergere (e quasi “fiorire“ di una spontanea vitalistica vocazione) dal fondo della tela, e della mente, come se di essa l’autore fosse – in due modi diversi – solo parzialmente responsabile... Il primo modo è nella necessità di una dialettica fondativa che si instaura tra l’intento dell'artista e la forza intima della pittura, la quale si rivela desiderosa di manifestarsi come autonoma seppur a patto d’essere amorevolmente assistita da una tecnica “maieutica“ di livello eccelso; il secondo modo (quasi una chiamata a corresponsabilità) insiste sulla partecipazione che deve fornire appunto il beneficiario del miracolo.
Un vortice di spazio dell’origine, un profondo senso di smarrimento in un universo sublime giacché inconoscibile, quasi una metafora cosmologica sovrumana perché appunto astrale ed infinita, aprirà allora i suoi abissi di stupore e di felicità, nel caos sovraordinato delle ultime bellissime opere di Vasco Bendini. 
«Restare in grembo al cielo… subire il fascino dell’inesplicabile».


[pubblicato in «9 Novae» [D], n. 5, Roma, 2015]

LE SORELLE MACALUSO di EMMA DANTE

IL CORPO E IL SANGUE DELLA PAROLA


«Le sorelle Macaluso» di Emma Dante ripropongono con forza la grande attualità del teatro come plausibile ed efficace luogo simbolico di fissione (e di dimostrazione critica) del conflitto fondamentale tra la vita reale e le sue rappresentazioni sociali, ossia di smascheramento delle ideologie – della famiglia, dell’amore e del lavoro – elaborate dalla società dello spettacolo a fini di controllo e di dominio.

«Rappresentazione significa anche spiegamento di un volume, di un luogo a molte dimensioni, esperienza produttrice del proprio spazio. Spaziatura, cioè produzione di uno spazio che nessuna parola può riassumere o comprendere».
[J.Derrida, Il teatro della crudeltà e la chiusura della rappresentazione, in La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1982].

Proprio cosí: fino all’anatema – artaudiano, appunto – scagliato contro qualsiasi spettacolo che si dimostri infingardo al punto da consentire al suo fruitore di tornarsene alla casetta e alla famiglia, dopo l’esperienza teatrale, con lo stesso spirito, le stesse ambizioni, la stessa forma mentis che lo pervadevano prima dell’esperienza stessa. L’assunto di azione “vitale” che nel teatro deve agitarsi si tradurrà, dunque, in esercizio esiziale e rivelatorio... Sí, perché il teatro (che fu rito di purificazione e crogiuolo di fusione di identità collettiva nell’antica Grecia) potrà essere ancora cosa sensata, e forse perfino necessaria, alle nostre tardive latitudini antropologiche, solo se una grandine di eventi interiori esso riesce a “scuotere”, e una consapevolezza nuova a “sguainare”: solo se decostruisce false coscienze, se annienta ideologie, e se si pone quale innesco esplosivo di una efficace “prefazione alla trasgressione”. In caso contrario, esso è semplicemente morto e sepolto; e tutt’al piú chi lo pratica – con altri scopi, magari consolatorii, magari divagativi – non fa che esibirne il cadavere (putrefatto) sulla scena di una commedia oscena, la qual sùbito aspira al tristo officio che esclusivo le compete, quello d’esser parodico ricalco, imbelle e idiota, delle necrofore re-praesentationi dell’autentica (trionfante) società dello spettacolo: informatica e cine-tele­visiva.
Dallo spiegamento di un volume, ossia spiegamento corporeo e fisico, carnale e sanguinante, emergente alla luce di un’esistenza inopinata – sul proscenio – dal fondo buio di un palco patibolare, un luogo in cui l’autentico sta per “farsi” in modo inesorabile, una pattuglia di attori prende corpo e volume in una marcia fragorosa e quasi funebre, avanzando con violenza verso gli ancora ignari astanti, per poi fare un dietro-front altrettanto poderoso e risparire nel nulla del fondale; e molteplici volte arrembando e ritirandosi, prima di disposi – come potrebbe fare solo un plotone di esecuzione – a ranghi compatti sul bordo anteriore della scena: ciascuno al proprio posto, dietro l’arme e la bandiera, la croce, lo scudo, per dar corpo alla parola che aprirà lo squarcio... Si tratta della sigla di partenza, ovvero dell’en­trata in campo, delle sorelle Macaluso; ma è questo altresí il gesto che sùbito qualifica il teatro (di Emma Dante) come luogo simbolico di un malessere profondo, immediatamente capace di dare un senso preciso al disagio dello spettatore, che è travolto dalla violenza di quell’ingresso, probabilmente dalla potenza stessa del simbolico, ed è trascinato fuori da ogni “realismo”, ed è coinvolto (e pressoché rapito) in quell’altrove che la sua stessa facoltà di adesione psicologica – finalmente agitata e messa in moto – gli consente (anzi: gli intima) di vivere.
La parola è poi parola tragica e senza tempo. Risata indecente, parlata urlata divincolata dal linguaggio formale e riformata in linguaggio del corpo e dello strazio. Parola falsa e smascherata, parola di donna, parola d’uomo, parola escrementizia e sanguinante, parola del sesso e della rabbia, dello scempio del ricordo, parola anti-narrativa perché incapace di dare ordine a un tempo che è presenza tutta insieme nello spazio, ed è mito ed è tragedia.
«Ma in Emma Dante l’evoluzione di una situazione, se avviene, non necessariamente comporta la messa in moto di una sequenza temporale. La stessa compressione esercitata sulla parola viene dall’autrice adoperata sul suo tempo teatrale che è, basilarmente, un presente continuo nella cui massa però il passato e il futuro sono cosí completamente amalgamati e fusi da risultare anch’essi presenti nel presente stesso.» [A.Camilleri, prefazione a Emma Dante, Carnezzeria, Fazi, Roma 2007]. Eterno presente in cui le sorelle Macaluso rivivono il proprio vissuto (o quel che credono sia tale) nei gesti dei loro corpi, e dunque anche e sopra tutto in quel gesto corporeo estremo che è l’emissione dei fonemi (sussurri, respiro verbale, sguaiatezza di voce, lamento, litania, ecolalia, risata o grido che emergono dalle viscere profonde), ma comunque nei corpi che si divincolano dall’ordine del corpo – quasi fosse il corpo (nudo) a volersi (e doversi) sostituirsi al volto socialmente ammesso, per rivendicare una propria urgenza libertaria, quasi fosse insomma il non-visum a farsi visum – e aggrediscono lo spazio del visibile in una pantomima orgiastica di danza e gesticolazione.
Gli attori cessano in quel momento di sentirsi attori: sono essi stessi – le molte donne e i soli due uomini dello spettacolo – non già i personaggi che interpretano, ma proprio se stessi (solo se stessi) che abitano e soffrono una vita altra dalla loro, quella della famiglia Macaluso, e lo sono da quando hanno progressivamente conquistato il palco con la loro marcia iniziale (marcia di presa di possesso di uno spazio vitale) e fino a quando, con lo spegnersi delle luci, l’evento teatrale non avrà termine. Tale è infatti il pegno che lo spettacolo chiede ai suoi attori perché anche i non-attori (il pubblico in sala) divengano tali, ed entrino cioè nello spettacolo stesso come in una dimensione esistenziale che per quelle due ore diviene la loro vera realtà, il loro orizzonte di esperienza totale.
L’espressività esclusiva – per la parola di questo e di tutti gli spettacoli di Emma Dante – di  di un zoccolo linguistico desunto dal vernacolo siciliano, violento quanto il gesto corporeo che lo accompagna, è fors’anche indicazione di una appartenenza etnica radicale originaria, benché non certo in chiave di banale rivendicazione di dignità per la cultura millenaria dell’isola del Sole, ma sopra tutto è delibera dirompente di rifiuto della lingua nazionale formalmente modellata (e invalidata) dalla comunicazione mediatica: se, ad esempio, la sonda sociale de Le sorelle Macaluso si vota a scandagliar l’abisso di “contraddizioni primarie” nel contesto della famiglia italica popolare, non potrà certo assumere come lingua di tale esplorazione la medesima che ogni contraddizione dissimula narcotizzandola, la stessa che è fatta per l’omologazione e per l’anestesia...
In sostanza, per l’urlo e per lo schianto che attingono a una siffatta e talmente intesa parola del corpo e del sangue, non già l’idioma di Dante e di Manzoni, che suonerebbe estraneo al luogo della sonda, in quanto aulico e inefficace, e nemmeno quello dell’unificazione linguistica italiana (reti unificate televisive) che renderebbe la sonda stessa truffaldina. La scrittura scenica di Emma Dante impone un coinvolgimento “fisico” (linguistico) di dismisure psicologiche e culturali senza tempo e senza spazio, lo spazio mitico di una popolanità sconcia che non può tradursi se non in parlata oscena: in certo senso a-scenica (atta a rigettar la scena come quadro organizzato), senza rappresentazione vera e propria, e dunque al di là del testo formalizzato in testo; in qualche modo – ma con infinita radicalità aggiuntiva – la lingua di Gadda (piuttosto) tra il romanesco del Pasticciaccio e il lombardo della Cognizione, ma inclinata a farsi voce e dunque urlata: e pertanto un siciliano che strozza la parola in gola, che sguaia e sbraca ed erompe in insulto o in vomito dell’io, in carne viva della pena e dell’emozione, dell’odio e del pianto, in litanica epifania di una sterminata inesorabile (sofferta) distruzione.

[pubblicato in «9 Novae» [D], n. 8, Roma, 2015]

INTENZIONE PRIMA di Mara Petrosino

«INTENZIONE PRIMA» DI MARA PETROSINO

Può l’immagine, in un testo audio-visivo, come quello cinematografico, scaturire direttamente dalla musica, ispirandosi ad essa invece che asservirla alle proprie esigenze? Intenzione prima riesce a sondare in modo assai efficace tale chance di rovesciamento di un rapporto che pare obbligatorio nel cinema classico e non solo in quello, ovvero va a tentare la generazione stessa dell’immagine direttamente dal cuore pulsante della musica. L’Improvviso in do minore op. 90/1 non è affatto l’accompagnamento del cortometraggio, come a un primo sguardo/ascolto si sarebbe magari tentati di credere, bensí la sua profonda origine e motivazione. Le mani che giocano l’una con l’altra, e si accarezzano, e si cercano, e si rincorrono, mettono in scena – nell’astrattezza di un protagonismo assoluto, senza ambiente, senza sfondo – una danza le cui movenze sono “improvvisate” esattamente come nelle intenzioni prime del musicista austriaco doveva essere “improvvisata” la sequenza delle frasi al pianoforte; e l’improvvisazione, in tale concezione romantica, è il correlativo di una naturalezza primaria del desiderio e della fusione; una danza dunque pressoché erotica, che è al tempo stesso difficoltà del contatto e brama di accordo simpatetico a mezzo di una tentata ma sempre impossibile perfezione del gesto; l’ossessione ripetitiva è la stessa ripetitiva fissazione che rende unico ed eccezionale il brano di Schubert; mentre – ulteriormente – i movimenti (sempre alla ricerca di una precisione di rapporto con la musica che non può essere altro che ricerca) allegorizzano i movimenti infiniti delle mani del pianista sulla tastiera, restituendo anche quel piacere del gesto degli arti che ogni musicista conosce e apprezza ben oltre gli effetti sonori che ne conseguono.
Cosí l’in-tensione (intenzione) dell’immagine è completamente scavata dentro l’immagine stessa, la quale rinuncia per tale via a rappresentare il mondo esterno, per effetto e allo scopo di un incremento assiduo e progressivo del fascino visivo che dall’immagine scaturisce: come se il vedere e l’ascoltare – in definitiva – potessero divenire un solo e unitario atto di cognizione e di godimento. Il dato visivo accetta e asseconda l’involversi della musica, si sottomette ad essa, quasi interpretandola e dandole nuova (diversa) vita, anche quando – in momenti epifanici di liberazione – stacca sulle visioni di fronde vegetali mosse dal vento, che sono limpide testure anch’esse (non descrizioni di un luogo fisico, ma riconversioni di elementi naturali in dato poetico-visivo), come quando guardiamo dall’alto di un monte un vasto paese solo allo scopo di far gioire l’occhio (la mente) di quel che vediamo, come se la luce stessa che scherza sulle foglie fosse l’esecutrice di nuove note e accordi e cromatismi suonati sulla tastiera emotiva dello sguardo. E ancora quando stacca su altri movimenti delle mani, impegnate a sommuovere un tessuto in forme pressoché convulse e compulsive, per una interpretazione ulteriore dello spasmo schubertiano, oppure quando apre alla visione di una tremolante fiamma di candela che par vibrare proprio come vibrano le restituzioni ottiche dell’oscillazione delle frequenze sonore, o anche come vibra una corda percossa da un tasto collegato a un martelletto.
Il modello che Intenzione prima addita (che suggerisce – direi – piú che seguire) è quello di un cinema di poesia: il che vuol dire di sensazione, di suggestione, di incantamento. L’elemento narrativo, a cui il linguaggio filmico tradizionale si affida, è qui praticamente ridotto a zero. La poesia originaria, lirica ma senza l’io-lirico, la poesia che incanta le potenze infernali imprigionandole in un’emozione dell’anima, insomma la musica mitica della lira di Orfeo, è in un certo senso l’utopia a cui il cortometraggio di Mara Petrosino sottopone il proprio senso. E lo fa per una via ben diversa – certamente piú affettiva e piú “romantica” – da quelle già percorse negli anfratti di certe nicchie d’avanguardia: dai dischi rotanti di Duchamp (Anémic Cinéma) agli ingranaggi di Léger (Ballet Mécanique) o al blob contro-hollywoo­dia­no di Grifi e Baruchello (Verifica incerta). Ossia lo fa indicandola, quel­l’u­topia, come una meta impervia e tuttavia ineludibile, almeno per il cinema “d’arte”: quasi fosse il sogno – da sempre rimosso e sempre sognato – del linguaggio inventato dai Lumière.

[estate 2014]

mercoledì 10 dicembre 2014

TODO MODO

TODO MODO PARA BUSCAR EL CASTIGO DIVINO
sandro sproccati

Su «Todo Modo» di Elio Petri, film visionario e realistico in un sol tempo, finalmente riabilitato dopo una condanna durata quasi quarant’anni, restaurato e ripresentato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia (edizione 2014).

Narra Elio Petri che le prime giornate di lavorazione di Todo Modo furono quasi imme­diatamente gettate nella spazzatura, poiché la “trasformazione” di Gian Maria Volonté nell’onorevole Aldo Moro era talmente persuasiva da renderne improponibile l’effetto. Si trattava dell’uomo piú potente d’Italia, presidente del partito di maggioranza relativa, e di certo il film non poteva permetter­si di citarlo se non facendo leva su di un minimo di “distanza”, cosí che l’avvertenza finale potesse classicamente sostenere che “personaggi e vicende sono puro frutto di fantasia” senza suscitare risate da ogni parte. Di fatto, il film subí comunque, fin dalla sua prima apparizione, una pesantissima censura, ma non a mezzo degli organi preposti all’ufficio, i quali – all’epoca (1976) – non avrebbero potuto avvalersi di argomenti validi (nessuna offesa al pudore e nessuna diffamazione in senso stretto), bensí per le vie traverse, adeguatamente “democristiane”, della messa in campo di infiniti ostacoli alla diffusione nelle sale. Il problema è che Volonté, in quel film, è proprio Aldo Moro, nonostante la correzione in chiave moderata imposta da Petri, ed è perfino piú Aldo Moro di quanto non fosse Aldo Moro lo stesso Aldo Moro.
“Quando girammo Todo Modo, Volonté divenne evanescente, camminava come se fosse sulle nuvole, parlava bassa voce, non ti guardava negli occhi, tutto preso com’era dal personaggio che interpretava.“
Tempo due anni e quello che – nella vita reale – era stato il gran sacer­dote di tutte le squallidissime cerimonie gattopardesche della cosí detta prima repubblica, il reazio­nario e scaltrissimo propiziatore del primo grande sfacelo della sinistra italiana (il compromesso storico), colui che quasi da ciascuno veniva piú o meno esplicitamente detestato per il suo incarnare la sintesi piú perfetta dell’ambiguità demo-cristo-pretaiola, tempo due anni e costui sarebbe stato inopinatamente trasformato nel piú ingombrante “cadavere eccellente” dell’antistoria post-bellica italiana, nel simbolo delle vittime della violenza, quasi nel piú grande eroe (caduto) di una patria che ha sempre avuto un immenso ed increscioso bisogno di eroi. Non c’è dunque da stupirsi piú di tanto: l’agguato di Via Fani e il ritrovamento di Via Caetani hanno sepolto, insieme a quella dell’ono­revole Moro, anche la vita del film di Petri.
Dimenticato per decenni, Todo Modo è certamente un capolavoro assoluto della storia del cinema, uno dei film piú forti e radicali, oltre che linguisticamente piú interessanti, che siano mai stati realizzati in Italia. Mescola nelle sue trame (che sono anche e prima di tutto trame visive: ambiente, atmosfera, sfondi, gesti, inquadra­ture, invenzioni di ripresa e di montaggio) l’allucinazione con la certezza, la descrizione oggettiva di una classe di potere giunta all’apice del proprio pervertimento con la grottesca elaborazione, in chiave altamente artistica, di un gustoso e raffinatissimo delirio personale.
Ecco, va detto con forza: Petri ha raggiunto con questo film il vertice qualitativo della propria opera, in quanto è riuscito in un’impresa che aveva già tentato con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e con La classe operaia va in Paradiso (1971), un’impresa assai difficile ma in qualche modo per lui imprescindibile: portare il “neo-realismo” di matrice socio-storico-politica (di derivazione rosselliniana) fuori dalle secche del semplice – e inevitabilmente banale – “cinema impegnato” degli anni Settanta. Per farlo, e dunque per porsi all’altezza dei grandi maestri della propria generazione, ben oltre la prima ondata neorealistica e tre decenni dopo caduta del fascismo, e insomma per potersi ribadire a pieno titolo collega di Antonioni, di Pasolini e di Fellini senza tuttavia rinunciare a tematizzare in modo esplicito la questione politica, c’era un solo (todo) modo, che Petri ha saputo percorrere meglio di ogni altro suo coetaneo: spingere forte sul tasto allegorico, insinuare il “fantastico” dentro i reperti documentali, trasfigurare in chiave di immaginazione “onirica” la cruda realtà della Storia, dichiarando con ciò che si può attingere in qualche misura alla “verità” di quella solo se l’atto della sua rappresentazione riesce a farsi audace ipotesi soggettiva e critica del linguaggio razionale.
La metamorfosi metodicamente perseguita del reale (nella fattispecie, in Todo Modo, delle figure e dei comportamenti dei maggiori esponenti della Democrazia Cristiana, riuniti a pregare da un specie di prete pazzo che li smaschera e li conferma, che li protegge e li condanna), la sua trasfigurazione in chiave di paradosso e di miraggio, lo svelamento continuo di un “delirio fattivo” che è forse il Potere stesso nella propria essenza, delirio descritto dal delirio, follia che si esplica in altra follia (la follia stessa dell’opera d’arte), è l’autentico cuore pulsante di un film in cui tutto è stato condotto alle estreme conseguenze, in cui tutto è effettivo estremismo, dichiarato e buttato in faccia allo spettatore, in cui la funzione critica dell’agire estetico si nutre, quindi, di un “dire” che è allusione sempre ribadita all’altro da ciò che è detto (o anche dicibile): allegoria, appunto. Ma allegoria nel significato piú profondo del termine: costruzione inventiva di istanze ipotetiche per tentare di agguantare l’inafferrabile realtà del reale.
“Todo modo para buscar la voluntad divina”. Il motto di Sant’Ignazio da Loyola, fondatore dei Gesuiti, nel cui nome Don Gaetano (Marcello Mastroianni) impone ai capicorrente democristiani gli esercizi spirituali che dovrebbero servire ad affinare la qualità della loro azione politica (ovviamente facendo gli interessi della chiesa cattolica), assurge nel film – che solo in parte si ispira all’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia – al ruolo di una specie di “sciarada” misteriosa su cui è innescata una serie di omicidi. Tale trama sinistra e necrofora serve a Petri per potenziare progressivamente la vena di follia che circola nel film, il quale si astrattizza e si rende man mano piú paradossale: la stessa recitazione di Volonté sviluppa un percorso verso un crescente incremento dell’artificiosità, ma l’esito si fa non di meno (anzi: proprio per questo) via via piú persuasivo. Quando il personaggio da lui interpretato espone alla moglie Giacinta (Mariangela Melato) la teoria dei “binari che procedono all’infinito”, come segno della sua immensa superiorità su tutti gli altri esponenti del partito, il delirio che esplode a livello allegorico piomba fragorosamente sul piano della storia (sciagurata) del nostro Paese, perché l’assurdità rivela il proprio essere verità sperimentata: le “convergenze parallele” tennero davvero banco in Parlamento e nel dibattito pubblico per molti anni! E quando Don Gaetano, marciando come un ossesso alla guida del plotone dei fedeli, scandisce in modo sempre piú rabbioso le litanie della Vergine, è come se tutta l’irrazionalità di una religione che pone il castigo e la morte nel proprio motore ideologico mostrasse ciò che essa è nei fatti ed è stata per secoli: un violentissimo impazzimento collettivo, che ha seminato intorno a sé infinite lacrime, stridor di denti, paure e sudditanze, prevaricazioni e torture, cadaveri e mummie di cadaveri.

Turpe è nel finale la morte di Aldo Moro, giustiziato con un colpo alla nuca. “Perinde ac cadaver”, diceva Sant’Ignazio: sarai ubbidiente “come un cadavere”. E anche qui, quasi a chiudere il cerchio dell’angoscia nazionale, l’allegoria si conferma profezia, quindi realtà futura. Con due anni di anticipo Elio Petri ha descritto, perfino nei dettagli, quella tragedia in cui un intero popolo pervicacemente incapace di darsi un minimo di dignità sarebbe inevitabilmente sprofondato. E si tratta di una catastrofe nella quale, a ben guardare, sprofondiamo tuttora.

[pubblicato in «Novae» n. 1, novembre 2014]

giovedì 6 marzo 2014

UNA TRILOGIA DEL DELIRIO

UNA TRILOGIA DEL DELIRIO
Viridiana, Simon del deserto, La via lattea



«Non capisco l’indignazione. I mendicanti stanno cenando e per caso si dispongono come nel quadro di Leonardo». Ecco il momento clou di Viridiana (1961), quando, durante la cena (orgia) dei pezzenti, una di costoro decide di eseguire una foto ricordo e, non disponendo di fotocamera, ne allucina – con atto gaiamente sconcio – una sorta di vicario organico nel proprio sesso, per un attimo messo in piena luce dal rapido sollevamento della gonna. Cosí, invece che lo sguardo in macchina, richiesto come necessario dalla prassi canonica del ritratto di gruppo, quel gesto viene ad implicare un rovesciamento abissale della dinamica dell’imma­gine, in altri termini un inopinato sguardo-in-fica: allegorica mise-en-abîme della logica prospettica, dove l’occhio che vede si fa buco nero e imbuto di sprofondamento, capace di stravolgere la “folgorante” e i “folgorati”, ma anche – e non di meno – gli spettatori del film. Un fermo-immagine trasforma (di fatto) in fotografia filmica (incastonata nella pellicola) il “clic” allucinatorio, mentre l’obiettivo da cui muove lo sguardo che blocca il tempo (sguardo della fotografia, ma anche del cinematografo) viene a ribaltarsi in oggetto e tema della visione. Visione obbligata e al tempo stesso vietata, in cui tutto appunto si ferma: la storia narrata, la funzione dell’immagine narrativa e il senso delle immagini occidentali, che pretendono di estrarre la vita dal flusso del tempo. I mendicanti infatti sono sospesi in un tableau vivant, rimangono per un secondo “congelati” sotto l’occhio-sesso che li guarda e che li desidera guardanti, e altresí sotto l’occhio dello spettatore sottoposto alla medesima implosione ottico-sessuale, a sua volta “sbarrato” in un voyerismo estetico estremo... Ed è esattamente a quel punto, in quell’istan­te di sospensione e di sortilegio voyeristico, che – con un cortocircuito che (infatti) annulla il tempo – il Cenacolo Vinciano viene a reclamare i propri diritti, ossia una appropriazione totale dello spazio simbolico dell’e­vento (la cena, l’orgia). Per caso, infatti – sostiene il fazioso Buñuel – «i mendicanti si dispongono come nel quadro di Leonardo».
Già... per caso! Sicché, allo stesso titolo di casualità (e che casualità!) la cena in casa di Viridiana diviene esattamente la “Ultima Cena”, e l’orgia si sacralizza in cerimonia religiosa, in sacrum-faciere: laddove il pane e il vino son chiamati ad assumere il valore (sostanziale) del corpo e del sangue del Cristo, dell’auto-sacrifi­cante per eccellenza. Lo schianto è feroce! L’allucinazione trasloca lesta dalla vulva della donna alla mente dello spettatore, che non può che elaborare, di rimando, il proprio infarto visionario: fermi tutti, quegli sono gli apostoli, quello è Cristo! Scandalo supremo, ma privo di scandalo in fondo. Forse che non erano mendicanti anche i seguaci del dio incarnato? Forse che non erano questuanti di anime o accattoni d’amore? Il contrappasso, violento, si rende palese: Viridiana, la seguace di dio che tiene nella valigia il flagello e la corona di spine, determina con la propria fede un continuo (necessario) contrappasso paradossale delle ambizioni di santità che la vivificano. Lo zio Don Jaime sviluppa, a contatto con quelle pretese, una specie di incresciosa e travolgente eccitazione erotica, come un imbarazzante inturgidimento psichico che fa leva sulla fantasmatica resurrezione della moglie morta (zia di Viridiana) e però altresí (e con ogni probabilità) sul ricordo associativo di barocchi deliquii analoghi, come quelli di Santa Teresa d’Avila e della Beata Ludovica Albertoni, assecondando in sé una smania di coito divino-umano che lo porta dapprima allo stupro (quando gode notte tempo del corpo della devota dopo averla narcotizzata), poi a suicidarsi impiccandosi (nuova solenne erezione) con la corda da gioco di una bambina. E non a caso: di una bambina.
Cosí il senso di un sacrificio incessante imperversa proprio là dove aleggia lo spirito (santo) di Viridiana, carnefice autentica, immolatrice di anime, suscitatrice di elevazioni ambigue e redentrice di ogni peccato. Ma forse, piú diabolico ancora di quello di Viridiana, vola alto nel film lo spirito di Georges Bataille, che Buñuel a parole, ossia nelle interviste, non cita mai, ma che profusamente evoca nei fatti.
I mendicanti sono i destinatari indegni di una pietas che è fonte solo di sciagure, sono gli apostoli che non comprendono la Maestra e la tradiscono, ma sono anche i giusti vendicatori della sua arroganza, della sua hybris celestiale. Piú ancora che in Nazarin (Buñuel 1958) e quasi come in Justine di Sade, la religione e la bontà (che le compete) si dimostrano avocatrici di perdizione e morte, dove il male (ma in Buñuel il male è solo apparentemente il male) trionfa con il ghigno di un’ironica ineluttabilità. I pezzenti accolti con amore – ma anche con sussiego, occorre ammettere – le demoliscono la casa, e poi distruggono anche lei, stuprata per la seconda volta nell’arco di un solo film e quindi ricondotta a piú miti consigli, poiché in sostanza la trasformano nell’amante fiduciosa del cugino, un laico viveur tranquillo a cui approdare – con riconoscenza e disponibilità – come al porto pacifico di una vita banale ritrovata, senza cristi pantocratori e altre concitazioni deleterie.
La tesi di Buñuel, magnificamente sviluppata nella trilogia religiosa che va dal 1961 al 1969, è che il sentimento del divino implica il delirio nella realtà. E, poiché tale sentimento è sempre presente là dove vive l’uomo, il delirio è la vera marca distintiva del reale come dimensione umana. La follia non è affatto confinata agli ospedali psichiatrici, e tanto meno può essere il prodotto di chi la celebra in modo intenzionale per farne materia d’arte: il surrealismo non è una scelta, non è una poetica, non è un modo di espressione; il surrealismo – quanto meno in Buñuel – propone l’immagine autentica della vita, la quale è per definizione “surreale” ovunque vi sia una mente umana che la pensa e che la vive, vale a dire se vi è un “sur” (un sopra) che viene addotto a sua motivazione. Cosí l’ateo (Buñuel) sa che dio è ovunque, giacché la sua presenza immaginaria sovradetermi­na ogni gesto e ogni conoscenza dell’uomo. Il folle è colui che legge la realtà nella chiave di un “principio” (superiore per definizione) capace di spiegarla e di renderla significante, è colui che la vede e la vuole ricca di significato. Pertanto la follia dilaga nel mondo.

Simone lo stilita (Simon del deserto, 1965) è quintessenza fatta individuo del pazzo religioso tipico. Spiega Cristo – in un apologo senza dubbio capace di entusiasmare le alte gerarchie del Vaticano – che «a chi già ha, sarà dato di più, e costui vivrà nell’ab­bondanza; a chi non ha, sarà tolto anche quel poco che ha» (Matteo, XIII, 12). Padre Simone, come molti altri che nella stessa epoca (primo medioevo) la pensano come lui, applica alla lettera il precetto. Si spoglia di ogni cosa e sale in cima a una colonna, da dove può dialogare con dio assai piú da vicino e dove può sacrificare a lui ogni alito vitale del suo corpo. La sua follia è nella giustezza del suo pensiero e della sua determinazione. In piedi sulla colonna, per mesi e per anni (il tempo in tali frangenti non conta e dunque non è possibile sapere per quanto) si slancia verso la gran volta celeste, nutrendosi di scarse foglie di insalata (non condita) e bevendo solo acqua. Ad un certo punto del film, Simone comprende di non aver sacrificato abbastanza, e delibera di far poggiare su una sola gamba la propria elevazione. Prega dio... ma ovviamente riceve molteplici visite del demonio, il quale – in canonica forma di femmina procace – gli esibisce appetitose mammelle bionde e una carnalissima prospettiva di felicità, ricevendone tuttavia in risposta sempre e solo il classico «Vade retro, Satana!».
La follia è contagiosa, e infatti ai piedi della colonna accadono eventi strani. Un uomo mutilato viene “miracolato” da Simone, e la prima cosa che fa, con le mani nuove di zecca, consiste nel tirare un ceffone a sua figlia. Non si meraviglia affatto del prodigio («è un santo miracoloso, deve aver pensato, è naturale che mi abbia fatto il miracolo», commenta Buñuel) e nessuno dà molta importanza alla faccenda («Del resto è come succede oggi con i miracoli di Lourdes, a cui nessuno fa caso, e che sono considerati ormai di routine», idem). Nemmeno la disputa teologica che si svolge tra i confratelli dello stilita, e il fatto che uno di essi venga preso tutt’a un tratto da convulsioni e si metta a bestemmiare, suscita l’imbarazzo che all’allucina­zio­ne spetterebbe. «Muoia la Sacra Ipostasi», grida l’indemoniato, e gli altri monaci gli oppongono il loro «viva!». «Muoia l’Anastasi!», insiste quello, e gli altri: «Viva!». Finché la demenza bizantina non prende il sopravvento: «Viva l’Apokatastasi!», urla, sbavando, il deviato, e gli altri – che cadono nella trappola: «Muoia... sì, muoia!». Un monaco chiede al vicino: «Ma che cos’è questa Apokatastasi?» e quello scuote la testa. Poiché il concetto è troppo complicato (ristabilimento dell’ordine divino originario dopo la fine di tutti i tempi) e il Male sembra prevalere, interviene Simone dall’alto della colonna, e con parole e gesti apotropaici scaccia (provvisoriamente) Belzebù dal corpo del disgraziato, in preda ora a un attacco epilettico. Il priore ordina quindi che lo psicopatico sia ricondotto al convento, dove – annuncia – finirà di esorcizzarlo a alla sua maniera (!).
Il demonio Silvia Pinal tenta un buffo travestimento da Gesù Cristo, una mise che ha uno strano sapore iconografico tra il biblico e il baracconesco. E dal basso arringa Simone stringendo tra le braccia un agnellino... Ma il santo, che del verbo di Satana via via intende il significato, finisce per smascherare la tentatrice; sicché costei (o costui), dopo aver cacciato l’agnello con una pedata, sbotta in una serie di bestemmie da osteria («Ma guarda un po’ che razza di stronzate mi tocca di sentire... faccia di cazzo! ... L’ostia di merda che sta nel ventre di quella figlia di puttana!», e poi: «Tornerò, pidocchioso, tornerò!»). E in effetti di lì a poco torna, questa volta all’interno di una cassa da morto trainata da funi ben visibili, per assumere, non appena la cassa si apre, le sembianze nude e autentiche di una gran femmina formosa. Dopo un attimo Silvia è sulla colonna insieme a Simone e gli annuncia una trasferta (in jet supersonico) al Sabbah del futuro... Ventesimo secolo: ateo e godereccio. La mitica sequenza finale vede i due in una discoteca di New York, dove il santo si è fatto esistenzialista, con tanto di pipa e barbetta corta, e la donna-demonio (assatanata nel ballo “carne radioattiva” tra urla lancinanti di chitarre elettriche) lo invita ad applicare finalmente il magnifico principio del Vade ultra! «È la vita, ubriacone, e devi sopportarla fino in fondo».

La dimensione spirituale, probabilmente congrua all’essere umano fino al punto da essergli consustanziale, è dunque l’insopprimibile causa di quell’impulso visionario che rende la realtà stessa un magnifico delirio degno di essere vissuto. Tale è la tesi, per lo meno, che Buñuel sviluppa amorosamente nel suo cinema, e che anche La via lattea (1969) espone nel modo più persuasivo. Può vedersi compiuto il desiderio piú alto che lo spirito di giustizia sia in grado di ispirare? È possibile, dunque, fucilare un papa? Qualcuno immagina la scena e subito essa si materializza (in immagine cine­matografica): un gruppo di rivoltosi comunisti conduce il pontefice al muro. È una donna ad assumere il comando del plotone d’esecuzio­ne... «Puntate... fuoco!», e il papa si accascia al suolo, scontando finalmente con il proprio sangue tutto il do­lore che secoli di tirannide della Chiesa hanno arrecato a milioni di uomini sulla terra. Trattasi – infine – di un papa che assume le vesti di un nuovo redentore, a ben vedere. Lo sguardo trasognato di colui che immagina la scena (un alter-ego del regista?) riconduce l’evento a sogno; e tuttavia: cos’è la vita se non sogno?
La fucilazione del papa interviene, al culmine de La via lattea, subito dopo che i pellegrini sono capitati nei paraggi di una scuola cattolica, dove le piccole educande risultano indotte (indottrinate) a lanciare patetici anatemi su l’universo mondo: «Ora, per dimostrare che nelle giovani anime che noi abbiamo il dovere di educare la religione è una cosa concreta ed attuale, eccovi le allieve piú piccole in un breve prologo». Tra incongrui muggiti di bovini (ma siamo in campagna...) le bimbe salgono sul palco, elevato di fronte al prato su cui i genitori stanno facendo il pic-nic, e già qualcuno, uno dei pellegrini, immagina qualcos’altro, ossia vede il plotone dei rivoluzionari marciare. La bimba Brigitte recita la sua parte: «Se qualcuno dice che ai cristiani è permesso avere piú di una moglie e che avere piú di una moglie non è vietato da nessuna legge divina...», e il coro infantile: «Su di lui anatema!». Un’altra bambina: «Se qualcuno dice che con il sacrificio della messa si commette sacrilegio contro il sacrificio di Gesù morto sulla croce...», «Su di lui anatema!». Di nuovo un brevissimo spezzone sulla marcia. Poi ancora altri anatemi, e finalmente il papa giustiziato. Chiede un genitore al pellegrino immaginifico: «Che succede? C’è un poligono qui intorno?». E questi: «No, no, ero io... Immaginavo che fucilavano un papa». Il buon padre di famiglia avrà udito gli spari, si presume, per confermare a noi la realtà del fatto, o quanto meno per farci comprendere quanta potenza creatrice risieda nella fantasia.
Il cinema per Buñuel è esattamente questo: immaginazione (desiderio) che modella la realtà, mentre la vita non è che il vaneggiamento di ciò che vogliamo che essa sia. La litania riprende: «Se qualcuno dice che dio sente odio per il fanciullo appena nato e che punisce in lui il peccato di Adamo...», «Su di lui anatema!». «Se qualcuno, perché giudica immonde le carni che dio ha donato all’uo­mo e non perché desidera mortificarsi, si astiene dal mangiare queste carni...», «Su di lui anatema!». La religione è fonte inesauribile di delirio, come sempre. Ma lo è, in fondo qualsiasi “religione”, ovvero qualsivoglia modello di interpretazione della realtà: il pensiero (in altri termini) che riconduce la pura e oggettiva esistenza a una coscienza umana capace di (e necessitata a) elaborarne il senso. E la cosí detta verosimiglianza – praticata come una sorta di dogma che discenderebbe direttamente dalla ragione (e per il cinema dalla natura stessa del “patto finzionale”) – altro non è che una costruzione artificiosa, convenzionale, infine del tutto inverosimile. Chiede la maestra all’ultima bambina: «Questo dove è stato stabilito?», e la piccola: «Al concilio di Nicea... No, al concilio di Braga... nell’anno 567».

                                                                                                               
N.B. Tutte le frasi di Luis Buñuel citate nel presente saggio sono tratte dal volume Buñuel secondo Buñuel, interviste a cura di Tomás Pérez Turrent e José de la Colina, Ubulibri, Milano 1993.