POEMA-OGGETTO
E DINTORNI
LA SCRITTURA COME “MOTORE” DELL’OPERA VISIVA
È noto
che fu Peirce a parlare per primo di linguaggio dell’immagine, introducendo cosí
l’idea (per i suoi contemporanei, alla fine XIX secolo, ancora abbastanza bizzarra)
che le arti figurative debbano essere intese come modalità di semiosi comunicazionale, e dunque in
qualche modo aprendo anche la strada alla possibilità di contaminazioni tra
il loro linguaggio (iconico, per
usare la terminologia peirciana) e il linguaggio simbolico per eccellenza, quello verbale. Parola-immagine: esperienze di ibridazione dei processi di
comunicazione estetica che risalgono, a ben guardare, ad epoche remote, ma che –
per quanto riguarda lo sperimentalismo del Novecento, capace di valorizzare appieno
tale collaborazione semiotica – si possono riconoscere come attive a partire
dall’ultima grande operazione poetica di quel genio assoluto della letteratura
francese che è Stéphane Mallarmé, con il suo poema intitolato Un coup
de dés jamais n'abolira le hasard…
Il
percorso è lungo, e ha visto anche progressive accelerazioni sul piano della sperimentazione,
sia sul versante di una “concretizzazione visiva” del testo poetico, come nelle
parole in libertà futuriste e nelle Tavole parolibere di Filippo Tommaso
Marinetti, sia su quello dell’acquisizione degli elementi alfabetico-verbali
(grafematici) da parte dei maggiori esponenti del costruttivismo sovietico,
Lazar El Lisickij e Aleksandr Rodčenko su tutti. Di tale percorso ho tuttavia scelto,
per questa conversazione, una fase abbastanza recente, che sentiamo quasi come attuale
benché sia ormai “storica”, ovvero quella in cui – una volta fatto il punto
sulle conquiste del cosí detto concretismo
poetico (mi riferisco ovviamente alla “poesia concreta” in senso stretto,
che è un’esperienza sviluppatasi tra gli anni Cinquanta e i Sessanta,
principalmente in due centri lontani da loro, il Brasile del Gruppo Noigandres
e la Germania di Eugen Gomringer e dei suoi immediati seguaci) – si inizia a
superare una barriera che fino ad allora non era mai stata superata, se non
occasionalmente e in maniera non programmatica... Intendo riferirmi alla
barriera della pagina, o comunque della superficie; nel senso che la poesia visuale mantiene fissa, per un
lungo periodo, e gioco forza direi, la dimensione della pagina come conseguenza
inevitabile al fatto che si tratti di scrittura. Se “visualizza” o
“concretizza” la scrittura, essa lo fa trasformando la pagina da supporto occasionale
di una linea di grafemi che può essere continua, come ad esempio nei codici a
rotolo antichi – e che dunque la pagina, in quanto spazio rettangolare,
accoglie solo per motivi di economia spaziale – in un supporto semioticamente e
strutturalmente organizzato, tale da poter essere assimilato, almeno per certi
aspetti, al supporto dell’opera pittorica, e quindi capace di trasformare la
scrittura, proprio grazie a questa sua consistenza di luogo strutturale, in fatto anche visivo. A parte certi
momenti assai particolari, la scrittura non perde la sua dimensione operativa essenziale,
che consiste nel veicolare senso per mezzo di una codificazione della parola
orale, dato che nell’ambito delle scritture fonetiche il segno grafico sulla
pagina è solo traduzione visiva del suono della voce, ma va tuttavia a
coniugarla con una fisicità nuova che consiste nella (nuova) capacità di produrre
senso anche attraverso i codici linguistici dell’immagine. Pur rimanendo
scrittura, la scrittura si fa altresí
immagine, combinando momento visivo e momento simbolico-verbale; e per farlo
deve realizzare una nuova strutturazione della pagina in quanto necessario
presupposto (fisico supporto) della comunicazione visiva. Si tratta di una
“pagina-quadro”, o anche di una “pagina-finestra”, muovendo dal senso che al
termine “finestra” dà Leon Battista Alberti quando teorizza lo spazio pittorico
come «uno rettangolo, di retti angoli, grande quanto io voglio, el quale reputo
essere una finestra per donde io miri quello che quivi avrò dipinto» [De Pictura, 1435]. Matisse diceva che i
quattro bordi del dipinto sono le parti piú importanti del medesimo, e che
tutto ciò che c’è sul dipinto deve dipendere da essi. Questo è concepire il
quadro come struttura, e questo è anche (piú o meno) il modo in cui la poesia
visuale, da Mallarmé in avanti, intende la pagina.
Le
esperienze di cui vi voglio parlare oggi, però, sono quelle che superano
appunto questo limite del supporto piatto, anche nella sua nuova veste di tavola
geometrica visuale, ovvero quelle che mettono in discussione il dato stesso
della superficialità della scrittura. Non a caso ho fatto riferimento, per il
titolo della mia relazione, alla nozione di “poema-oggetto”, estendendola, tuttavia,
anche a un sorta di epilogo che verte su esperienze capaci di assorbire la
scrittura all’interno di opere caratterizzate da forte fisicità tridimensionale,
come nel caso nella maggior parte dei lavori della cosí detta Arte Povera, nei quali la scrittura viene
appunto utilizzata come “materiale” per installazioni che hanno a che fare piú
con la scultura che con la pittura, oppure che comunque si pongono il problema
di un rapporto diretto con l’ambiente reale.
Tra
gli anni Sessanta e i Settanta, che è grosso modo il periodo che ho preso in
considerazione, abbiamo appunto una produzione di “poemi-oggetto”, i quali possono
essere definiti sostanzialmente come interventi di carattere verbo-visuale capaci
di coniugare la scrittura con supporti e istanze visive che hanno tutte le
caratteristiche dell’oggetto tridimensionale. Nei “poemi-oggetto”, in un certo
senso, è come se la scrittura venisse emancipata da quel vincolo che sembra
derivare dalla sua natura stessa, il supporto superficiale, che nella sua veste
di pagina rettangolare (fatta di righe poste una sopra l’altra) è sí un vincolo
moderno, ma poi solo fino a un certo punto, dato che risale in verità al tardo
Medioevo.
Passerei
ad addurre esempi, e dunque a parlarvi di alcune tra quelle che secondo me sono
le manifestazioni piú significative dell’evoluzione della verbo-visualità in
chiave oggettuale. Inizio dai lavori di un artista molto interessante, ossia di
un poeta visuale collocabile in una dimensione artistica piú ampia, che ha infatti
ha realizzato anche opere che non prevedono il ricorso alla dimensione della parola,
sempre utilizzando, tuttavia, la tecnica del collage. Non parrà un caso dunque – come ha già ironicamente
osservato Angelo Maria Ripellino – che egli si chiami Jiři Kolař, se si tiene
conto del fatto che la pronuncia del suo cognome in čeko (che è la lingua del
suo Paese e della sua città, Praga) è quasi esattamente la stessa della parola
che in francese indica la tecnica artistica in questione, cara ai dadaisti e
anche a Matisse. Ripellino per altro, nella sua analisi critica del lavoro di
Kolař, pubblicata in Saggi in forma di
ballate [Einaudi, 1978], osserva compiaciuto come uno dei maggiori
esponenti della prima avanguardia pittorica praghese, molto legato alla lezione
di Braque e di Picasso, portasse anch’egli un nome quanto mai tendenzioso:
Bohumil Kubišta.
Di
Kolař desidero mostrarvi due opere che definire “poemi-oggetto” sarebbe forse
un po’ troppo, ma che tuttavia procedono solerti nella direzione della messa in
crisi del supporto superficiale. In esse la pagina, essendo stropicciata, viene
infatti tradita nella sua neutralità e in qualche modo resa “corpo” oggettuale
tridimensionale. Il primo lavoro, che è del 1962, si intitola Il poeta è un serpente, e sembra nascere
dal recupero di un testo poetico precedentemente rifiutato e buttato nel
cestino, in quanto probabilmente ritenuto fallimentare dal suo autore, un testo
che però – una volta recuperato e riproposto con tutte le relative crepe e
spiegazzature – va a ricavare nuova dignità espressiva proprio dal fatto di
essere divenuto illeggibile, e di conseguenza si scopre interessante per un
aspetto materiale (e visuale) che pertiene principalmente alla deformazione
subita dal suo supporto cartaceo. Un fenomeno simile lo troviamo anche in Allegro, dello stesso 1962, benché qui
ci sia qualcosa di ulteriore, dato che il foglio recuperato è uno spartito
musicale, per cui il suo essere crepato e spiegazzato conferisce al testo che
contiene un inedito “ritmo”, determinato dalla rottura della linearità
ortogonale del pentagramma, la quale va cosí anche a suggerire nuove possibilità
di “notazione” musicale. Quasi come se un Adagio
(poniamo) del tutto inefficace, e perciò cestinato dal suo autore, potesse
rivelarsi un ottimo Allegro una volta
che il foglio è recuperato e riproposto con tutte le plateali sincopi visive dei danni che ha subíto.
Piú
tardi, Kolař giungerà al “poema-oggetto” vero e proprio, mettendo definitivamente
fuori causa la necessità della pagina: per esempio con questo lavoro che
vedete, intitolato alquanto sardonicamente La
mela (1970 ca.), nel quale la scrittura avvolge con le sue spire un piccolo
oggetto tridimensionale della forma e delle dimensioni, appunto, di una mela.
La scrittura ha dunque “coperto” un oggetto, e c’è il tentativo di ottenere
effetti poetici da strutture espressive che hanno ancora a che fare con la
poesia (proprio perché la scrittura c’è ancora) e tuttavia si affidano
all’incanto di piccoli oggetti ricreati, che possono avere perfino valenza
scultorea.
Ma è
un grandissimo poeta italiano – relativamente poco conosciuto data la sua
oggettiva importanza (ormai) storica – a produrre forse i primi “poemi-oggetto”
in senso completo. Sto parlando di Emilio Villa, che da qualche anno inizia a
emergere dalle nebbie della propria (in parte voluta) clandestinità, e, anche
se non si può certo dire che sia oggi popolare (ma del resto il nostro è un
Paese in cui sono popolari solo gli imbecilli, e dunque è meglio cosí... è meglio
che non lo sia), comincia ad essere citato, indagato, antologizzato (entro
certi limiti) e comunque studiato su riviste e libri specialistici. Coro della Schola Cantorum (1965 ca.) è
collage tipografico su disco di vinile, e pertanto ricorda da vicino i Rotorilievi di Marcel Duchamp; si tratta
tuttavia di un aggiornamento in chiave squisitamente poetica dell’idea
originaria dell’artista francese, dato che per Duchamp quel che contava era
l’illusione ottica data dalle curve rotanti sul piatto del grammofono, e dunque
un effetto e una grammatica in grado di anticipare semmai le esperienze della Optical Art, mentre in Villa c’è
piuttosto la riscoperta – attraverso la suggestione offerta dalla presenza
(come supporto al testo verbale) dell’oggetto di riproduzione musicale per
eccellenza, il disco di vinile – dell’implicita e fondativa dimensione
musicale del “canto poetico”, relazionata non al mito di Orfeo, come forse
sarebbe anche troppo banale e scontato, ma piuttosto alla sfera mistica del
“canto gregoriano” medioevale, le cui litanie vengono da Villa riscritte in
“controcanto”, ovvero nel dettato verbale di un francese quanto mai
trasgressivo e perfino osceno. Il disco andrebbe montato su un giradischi per
metterne in movimento il testo... naturalmente non si ode nulla, dato che il
pick-up non va usato, ma “si vede”... e si vede di piú di quanto non si veda
già cosí, a disco fermo, perché il carattere estroso della costruzione verbale
(che è una decostruzione della forma della scrittura convenzionale) viene
incrementato dalla rotazione e reso piú dinamico.
Le Idrologie, anch’esse del 1965-66, sono
invece sfere di vetro piene d’acqua, quasi alambicchi alchemici all’interno dei
quali fluttuano lettere alfabetiche e frammenti di testi che alludono a glosse misteriosofiche
sul rapporto primordiale dell’acqua con la vita... Uteri marino-materni forse,
opere di impervia decifrazione certamente, che tuttavia occorre segnalare per
la nuova grammatica verbo-visuale che allestiscono, a partire dalla già
sottolineata vistosa sostituzione della pagina con l’oggetto fisico e concreto,
come locus novus della scrittura.
Qualcuno ha parlato per Villa di “oggetti di poesia del futuro”, di una
clandestinità di pensiero e di gesto che si pone esattamente come inadeguatezza
assoluta rispetto al tempo in cui ha vissuto questo artista-poeta (e anche critico
d’arte, linguista, biblista e grecista... a dirla tutta). Non v’ha dubbio, in
effetti, che la sua opera attenda sempre e ancora di essere compresa,
nonostante i bellissimi volumi che le sono stati dedicati da Aldo Tagliaferri
nel 2004 [Il clandestino,
DeriveApprodi, Roma] e da Cecilia Bello [Emilio
Villa, l’opera poetica, L’Orma, Roma].
Vi
propongo poi un lavoro di Mirella Bentivoglio, poetessa italiana abbastanza penalizzata,
in quanto donna, dal fatto stesso di esserlo, e che tuttavia deve essere considerata
una delle figure principali del panorama di cui ci stiamo occupando. Questo suo
lavoro si intitola Poema oggetto: vita,
è del 1968 e si avvale di una scrittura (la parola /vita/, appunto) realizzata
con chiodi su tavoletta lignea (invece che inchiostro su carta, per
intenderci). Volendo interpretare – o anche “sovra-interpretare” (dato che il
rischio c’è sempre in questi casi) – si potrebbe ipotizzare che la durezza e
crudeltà della materia del significante verbale (i grossi chiodi mal conficcati
sulla tavola, che veicolano sensazioni di sofferenza, forse anche per via di
rimandi subliminali a modi di tortura... e non voglio arrivare alla croce di
Cristo, ma insomma: violenza e dura penetrazione, di certo) vada a predicare
del significato della “vita” qualcosa che la semplice parola /vita/ non potrà
mai dire; questo implicherebbe anche che la scelta poetico-oggettuale è stata
fatta in modo da implementare le normali capacità semantiche della scrittura
attraverso estensioni improprie, cosí rafforzando un assunto che sta alla base
di tutta la tradizione verbo-visuale novecentesca, quello secondo cui la contaminazione
tra i codici moltiplica la forza espressiva del testo.
Anche
Arrigo Lora-Totino, grande sperimentatore di modalità inconsuete nel campo
della poesia su carta o su tavola bidimensionale (in sostanza ottimo poeta concreto, si potrebbe dire), si è
cimentato con forme di scrittura tridimensionale e oggettuale, come ad esempio
in questo suo ée e éeilli, un lavoro
che ugualmente si colloca intorno al 1968. Ma piú suggestivo e persuasivo ci
appare oggi Lightitude (1970) di
Mario Diacono, un “poema-oggetto” in cui la parola /lucentezza/ si illumina a
mezzo di un interruttore, essendo formata di valvole elettriche che recano
stampigliati i caratteri alfabetici della parola stessa, la quale trova in tal
modo ulteriori facoltà di esprimere il significato (per altro immateriale e
quasi astratto) a cui è dedita. E val la pena di notare come siano proprio
significanti verbali a scarsissima vocazione referenziale (il discorso vale anche
per Vita della Bentivoglio) ad essere
piegati, per mezzo del meccanismo visivo, a farsi pressoché “mimetici” del
concetto che veicolano... come se, appunto, la ricaduta cognitiva che la
visualizzazione comporta (la vista che coglie gli oggetti e non i concetti) potesse
rendere piú forte la presa del linguaggio simbolico della parola sulla realtà
fisica del mondo. Nel caso del lavoro di Diacono, che si può considerare degno
seguace di Villa, vi è però anche la contro-tesi di tutto ciò. La scritta in
effetti sparisce quando le valvole vengono accese, dato che la loro incandescenza
rende invisibili i caratteri alfabetici, di modo che il realizzarsi fisico (e
visivo) della “lightitude” coincide con l’impossibilità della sua descrizione
verbale. Si tratta di un gioco che mette in discussione proprio il rapporto tra
la nominazione di una cosa e la cosa in sé, ossia che sottopone a decostruzione
critica l’arcaico e immarcescibile assunto filosofico che il linguaggio sia
strumento di conoscenza della realtà. Un assunto che pare derivare addirittura
dalla Bibbia, se è vero che nel Genesi Dio, dopo aver creato Adamo, lo
invita a nominare ad uno a uno a tutti gli animali e gli oggetti già creati; e
in questo modo gli consegna le chiavi dell’universo, gli dice: tu avrai la conoscenza,
perché tu sai nominare, perché – solo tra tutti gli esseri viventi – possiedi
il linguaggio; e si tratta, poi, dell’assunto che sta alla base dell’episteme
dell’Occidente. In tal senso, mettere in discussione la possibilità di un
rapporto efficace tra la cosa in sé e la possibilità della sua conoscenza attraverso
la sua nominazione (noi sappiamo cos’è la luce perché ne possediamo il
concetto, dunque perché il linguaggio lo elabora per noi, e dunque solo perché
siamo in grado di dire “luce”) non è un giochino da bimbi, benché quasi come un
giocattolo si presenti il lavoro di Diacono, ma piuttosto un’operazione che
muove da una riflessione teorica profonda e importante.
Passando
attraverso Ugo Carrega, Piccola Liguria,
del 1970-71 (non lo commento per ragioni di tempo), andiamo a Kitasono Katué,
che è un interessante poeta visuale giapponese, il quale, con il suo Plastic Poem, realizzato intorno al
1970, ci presenta una sorta origami
verbo-visale. Ovviamente – come tutti gli origami – esso ha natura di oggetto
ed è fatto di carta, e poiché la carta impiegata dall’artista proviene dall’ambito
della stampa (giornali o riviste), va da sé che si tratta di un
“poema-oggetto”. Vediamo anche un bellissimo lavoro di Giulia Niccolai, Poema & Oggetto (1971 ca.), che
presenta una macchina da scrivere – strumento fondamentale dell’attività poetica
– sui cui rulli è stato reinserito un foglio di carta stropicciato (un po’ come
quelli di Kolař) che reca la scritta /poema/. Da un lato è quasi una
tautologia: c’è il poema in quanto c’è la parola che lo nomina, e c’è l’oggetto
perché c’è la macchina che serve a scrivere i poemi; dall’altro si potrebbe
supporre che vi sia stato in precedenza una sorta di simbolico pentimento
operativo: il poeta voleva scrivere un poema fatto di parole su un foglio di
carta A4, e dunque voleva realizzare un normale testo di poesia lineare, ma poi
ha con rabbia strappato via il foglio dalla macchina – dopo aver scritto il
titolo – e si è quindi reso conto che la relazione visiva tra quel foglio
spiegazzato (con quella parola carica di promesse) e la macchina stessa poteva
essere già in sé un’opera d’arte compiuta.
Molto
suggestivo è secondo me uno dei primi lavori di Maurizio Nannucci, un artista
che personalmente stimo molto. Egli realizza nel 1966 una specie di gioco per
ragazzi, intitolandolo Poema
idroitinerante: rosso, che è costituito, come vedete, da una scatola dai
bassi bordi riempita con un velo d’acqua, sulla cui superficie galleggiano
dieci biglie rosse di plastica. Ciascuna pallina mostra allo spettatore una
lettera dell’alfabeto stampigliata sulla sua calotta superiore, e piú
precisamente tutte le biglie insieme recano due volte le lettere che servono
per scrivere la parola /rosso/ (due «r», quattro «o», quattro «s»). Come è facile
intuire, il gioco consiste nel soffiare sulle palline spingendole ad accostarsi
in modo tale da costruire la parola in questione, e giungere – per cosí
dire – a “realizzare” il poema. Facile da intuire, ma pressoché impossibile da giocare…
Si comprende bene, in effetti, che infinite sono le possibilità di elaborare il
testo, che potrà assumere un qualunque lay-out
sulla superficie dell’acqua, e che sarà, oltre tutto, sempre estremamente
precario nella propria struttura, già pronta a mutare non appena trovata; ma è
chiaro, altresí, che tali possibilità sono solo teoriche, e che in pratica
nessuno ci riuscirà mai, oppure ci riuscirà soltanto grazie un intervento
miracoloso del caso. Tale testo in fieri
è comunque qualcosa di fortemente “creativo” proprio in chiave visuale,
essendovi in gioco la forma e il colore delle biglie, il loro movimento
sull’acqua, l’interazione operativa tra opera e fruitore, il moto delle
vibrazioni d’aria (soffiata) e i minuscoli fenomeni ondosi che ne derivano.
Tale
lavoro giovanile di Maurizio Nannucci ci introduce ad altre opere di natura
verbo-visuale dell’artista, in cui egli utilizza però la fotografia, e che
dunque non sono esattamente “poemi-oggetto”, ma che io trovo assolutamente
interessanti e anche assai pertinenti rispetto all’argomento di cui ci stiamo
occupando. Ve ne mostrerò due. La prima si intitola Leggere, parlare, scrivere, ed è del 1973. Si tratta di una tavola
fotografica riconducibile a una “performance”, la quale tuttavia è stata
eseguita sostanzialmente per ottenere la fotografia, nella quale vediamo
l’artista di spalle che tiene di fronte a sé un libro aperto (dalla parte della
mano sinistra) e una sorta di blocco per appunti (sotto la mano destra): egli
visibilmente si accinge a ricopiare sul blocco la scrittura a stampa del libro
che sta leggendo... Nannucci stesso ha sempre tenuto a precisare che quello che
per lui conta non è la “performance” in sé, bensí la tavola fotografica che ne
ha ricavato. È bene distinguere con estrema nettezza quelle azioni performative
che esistono come opere (solo) esattamente nel momento in cui vengono eseguite
– il modello è in questo caso il teatro,
dato che rispetto ad esse un’eventuale “documentazione” audiovisiva, o anche
fotografica, è solo indice di memoria – da quelle che vengono invece eseguite con
il chiaro ed esplicito scopo di ottenere l’opera definitiva, che coincide
proprio con l’audiovisivo che se ne ricava – e il modello sarà in questo caso
il cinematografo. Ma in Leggere, parlare,
scrivere, c’è una situazione ancora piú particolare, perché qui la
fotografia funziona come una specie di scrittura,
dato che essa sta al gesto dal vivo, di cui è “ricaduta grafica”, esattamente
come la scrittura starebbe alla parola parlata. Il rapporto tra scrittura e parola
parlata è però anche il tema dell’opera: il titolo ci dice infatti che nel
testo fotografico c’è la scrittura (letta e scritta) – visivamente percepibile
– e che c’è anche la voce, la parola dell’artista che legge ad alta voce –
visivamente non percepibile. La fotografia “scrive” l’azione per intero, anche
se (a differenza di come potrebbe fare un video) non può che restituire sensorialmente
solo una parte dell’evento. E nel suo “scrivere” un’azione che ha a che fare
con la scrittura, è chiaro che l’opera si fa momento di riflessione profonda
sul rapporto tra la scrittura e l’immagine: la fotografia è appunto (infatti) immagine
che scrive l’immagine della scrittura
nel suo essere (in qualche misura e a sua volta) immagine della voce. Poesia
visuale, dunque? Probabilmente sí, anche se decisamente al limite...
Altrettanto
interessante, secondo me, è altro lavoro di Nannucci, sempre del 1973: Scrivere sull’acqua. Si tratta di
un’opera capace di una “poeticità” miracolosa. Scrivere sull’acqua, lo
sappiamo, è un’utopia; le parole scritte sull’acqua sono quelle che nessuno può
leggere, sono quelle che sono già perdute nel momento stesso in cui vengono
scritte. Ma la scrittura, sappiamo anche questo, è esattamente ciò che nasce,
presso gli esseri umani, ad un certo punto della loro storia sulla terra,
proprio per porre rimedio alla dispersione e alla precarietà della parola
parlata («verba volant, scripta manent»)... Un grande poeta romantico, John
Keats, fece scrivere sulla propria tomba «Qui giace uno il cui nome era scritto
sull’acqua», e ovviamente lo fece scrivere, con profonda incisione definitiva,
su una lapide del Cimitero degli Inglesi a Roma, non certo sull’acqua del
Tevere che scorreva (e scorre tuttora) lí appresso... Nell’opera di Nannucci, che
anche in questo caso prevede una “performance” propedeutica a un testo che è solo
fotografico, un individuo tenta di tracciare dei caratteri alfabetici sulla
superficie di uno stagno; è chiaro che man mano che il suo dito procede per dar
forma al segno, l’acqua cancella – quasi istantaneamente – ciò che egli ha
tracciato un attimo prima... Nessuna scrittura è possibile sull’acqua! A meno
che un fotografo non scatti via via immagini di quelle (tentate e impossibili)
azioni, cosí finendo per cogliere, in istantanea, il formarsi e l’esistere
precarissimo dei segni alfabetici. Di fatto la fotografia – che anche in questo
caso (e piú che mai in questo caso) si dà come modalità nuova di scrittura – riesce, almeno in parte, ad
annullare la precarietà proverbiale della scrittura sull’acqua e a renderla
possibile. L’immagine della scrittura impossibile
diviene una scrittura possibile. E
non è un caso che le sei tavole fotografiche dell’opera (le sei istantanee
del dito in azione) siano montate in una sorta di “polittico” che riprende –
con la propria struttura ortogonale – esattamente la processualità
consequenziale (da sinistra a destra e dall’alto in basso) della scrittura
verbale. Cosí se la “scrittura acquatica” non sarà mai riducibile alla
necessaria dimensione della pagina, perfettamente impaginata diviene viceversa
la “scrittura fotografica” di quella scrittura e di quella pagina mancate. La
fotografia tenta di “narrare” (lettera dopo lettera, riducendo la dimensione
cronologica a dimensione spaziale, esattamente come fa la scrittura) l’azione
di scrittura che c’è stata, di farci ricostruire – o quanto meno intuire – che
cosa è stato scritto sull’acqua... Tenta, ma temo che non vi riesca... E la
“poesia” di questo lavoro di Nunnucci sta proprio nel suo proporci quella
scrittura fotografica come qualcosa di pragmatico e di utopistico in un sol
tempo, poiché neanche la scrittura fotografica riesce a vincere la vocazione
all’autodissolvimento che è prerogativa radicale dello scrivere sull’acqua... e
pertanto nel suo proporci il desiderio come qualcosa di piú forte di qualsiasi
ostacolo, l’idea di un tentativo (che è tentativo di conservazione, di memoria,
di comprensione) messo in campo nonostante la piena consapevolezza del suo carattere
fallimentare.
Concludiamo
con alcuni esempi tratti dall’ambito dell’Arte
Povera, nei quali si possono rinvenire interessanti occorrenze di un felice
rapporto tra scrittura e oggetto artistico. Non possiamo qui parlare di
“poemi-oggetto”, dato che l’ambito non è quello della poesia visiva, ma siamo
comunque di fronte a modalità di
espressione verbo-visuale declinate – per cosí dire – partendo dalla logica
di arti plastiche (piú nei pressi della scultura che in quelli della pittura)
che utilizzano elementi di linguaggio verbale quasi come se fossero materiali
aggiuntivi. Ciò, precisamente nel contesto piú generale di quel tripudio di
materiali insoliti, ossia tradizionalmente estranei alle attività estetiche,
che caratterizza l’ultima importante stagione dell’avanguardia artistica italiana.
Si possono citare opere come Ping Pong
di Alighiero Boetti (1966), in cui le due parole del titolo si accendono
(rendendosi visibili) in modo alternato sul muro, a breve distanza l’una
dall’altra e secondo un ritmo preciso, dando cosí luogo a una sorta di “ping pong”
verbo-visuale. Oppure si possono ricordare molti dei lavori di Mario Merz (Sitin, del 1968, le varie versioni di Objet caché toi, dello stesso anno, o anche Città irreale, del 1969), tutti decisamente ispirati, nella loro
ideazione, da quelle forme di scrittura luminosa che inglobano nelle proprie
trame polimateriche, e che rendono operative anche in chiave sinestesica... In Sitin, ad esempio, la scritta al neon ha
il compito anche di intiepidire lo strato di cera d’api su cui riposa,
producendo l’esalazione del forte profumo dolciastro della cera riscaldata, cosí
che al segno iconico (visivo) dell’istallazione oggettuale vadano ad
aggiungersi il segno simbolico (verbale) della scritta e perfino il segno
(para)indexicale del profumo sprigionato.
Affascinanti
sono ancora le opere di Pierpaolo Calzolari, che utilizza il ghiaccio artificiale
(ossia le serpentine gelate dei frigoriferi) per comporre frasi nell’ambito
di istallazioni in cui le scritte stesse fanno la parte del leone, come Impazza angelo artista, Il mio letto cosí come deve essere, Un flauto dolce per farmi suonare, tutte
del 1968. In esse la scrittura si dà in un sol tempo come dato materiale forte
(il tubo della serpentina) e come evento fisico concreto a grande impatto
visivo (la glaciazione della medesima). E c’è anche un piccolo capolavoro di
Giovanni Anselmo che mi preme segnalarvi, Invisibile,
del 1973, che come vedete (o forse non vedete, data l’invisibilità) è formato
da un parallelepipedo di metallo che sembra essere stato spezzato in due, o
meglio da due parallelepipedi di metallo che sembrano provenire da uno solo. Il
sentimento di questa ambiguità tra il blocco
unico e i due blocchi deriva
direttamente dal rapporto che agisce tra il fatto che i due solidi hanno le
basi identiche, allineate in perfetta continuità spaziale, e il fatto che su
quello piú lungo, a destra, campeggia la scritta /visibile/. Naturalmente è il
titolo (“invisibile”) che agisce ai fini di realizzare l’effetto: perché la
distanza (il vuoto) che separa i due blocchi corrisponde esattamente allo
spazio che occuperebbero i caratteri alfabetici del prefisso /in/ se ci
fossero; e se quella porzione assente – che cosí però viene ad essere
ugualmente letta! – ci fosse, ecco
che la scritta /invisibile/ si farebbe (sul blocco unico) tautologia del titolo;
benché sia poi proprio il fatto che il prefisso non c’è, e che dunque manchi un
frammento, ovvero il fatto che i blocchi siano effettivamente due, a rendere
realmente “invisibile” il prefisso. Volendosi accanire ulteriormente, si potrebbe
ipotizzare che l’opera venga a sostenere che la parola /invisibile/ non potrà
essere vista (e quindi nemmeno scritta) se non qualora sia preventivamente
orbata di ciò che la renderebbe cosa “invisibile”, ovvero proprio quel prefisso
“in” che non può far altro che precipitare nel nulla. Ma l’accanimento è
necessario a comprendere un altro aspetto del lavoro in questione: e cioè che
esso tratta la parola (la scrittura) come qualcosa di materiale, oltre che di
simbolico, dato che è solo in una dimensione materiale, e non simbolica, che
l’invisibile è ciò che “non si vede”. Contaminazione tra la parola e l’oggetto
spinta ai massimi livelli, dunque, e materialità della scrittura presa “alla
lettera” (per cosí dire, ossia per pasticciare fino in fondo con il
linguaggio), e pertanto realizzazione trionfale delle ragioni di fondo che
sostengono la logica del “poema-oggetto”. Il tutto poi, se si parla di logica, giunge
a scatenare un paradosso gödeliano: visibilità e invisibilità giocano tra loro
un gioco inestricabile di smentite reciproche e di ritorni pleonastici sul
nulla che c’è da dire, per mezzo
della parola, e che c’è da vedere,
quanto al corpo della parola stessa e dell’oggetto che la comprende. Indecidibile, potrebbe essere allora il
titolo (taciuto) di quest’opera.
Infine,
ecco un lavoro di Gilberto Zorio che mi sembra degno di rappresentare l’epigrafe
di questa chiacchierata: Odio (colpi
d’ascia sul muro), 1969. Un’opera oggettuale che è al tempo stesso una
performance, e della quale, infatti rimane oggi solo una foto di documentazione.
Sul muro di una galleria d’arte Zorio ha espresso tutto il proprio odio (forse
per la mercificazione degli oggetti estetici, forse in generale per l’umanità,
forse per una persona particolare che non conosciamo, o forse anche solo per se
stesso) scrivendo la parola /odio/ con un’ascia, ossia con l’unico attrezzo che
può lasciare nel muro profonde ferite, in forma di caratteri alfabetici stravolti
dall’ira, e che simultaneamente può rendere bene l’idea di violenza furiosa a
cui il concetto di “odio” si lega. E anche qui siamo di fronte a una perfetta
esaltazione della forma materiale della parola – che si spinge fino a farsi
effetto fisico (e perfino istigazione operativa) del concetto che
simbolicamente esprime – come realizzazione piena della poetica della
verbo-visualità.
[pubblicato in in Aa.Vv., Verbovisioni, atti del convegno di Venezia 2015 (a cura di Riccardo Caldura), Mimesis, Milano 2017]
[pubblicato in in Aa.Vv., Verbovisioni, atti del convegno di Venezia 2015 (a cura di Riccardo Caldura), Mimesis, Milano 2017]