Mizoguchi Kenji – Eros è Thanatos
Il classicismo
cinematografico giapponese trova in Kenji Mizoguchi il suo esponente forse piú
rappresentativo... sempre che per classicismo si voglia intendere una situazione
di piena maturità (congiunta a perfezione estetica) entro le coordinate di uno
storicamente conseguito valore di esemplarità assoluta – il che è quanto la
nozione, in fin dei conti, prevede e impone. Ciò significa che le opere di Mizoguchi
sondano la via di un paradigma linguistico che, in sede cinematografica,
si offre come squisitamente nipponico,
un modello al quale, a controprova, per molti anni non potrà e non vorrà
sottrarsi neppure il grande Akira Kurosawa. Ed esse lo fanno sia affidandosi a
“soggetti” totalmente affogati nella dimensione favolosa e tetra del Giappone feudale
premoderno (dal decimo al diciasettesimo secolo), sia ricercando per quei soggetti
cosí faticosamente tragici una peculiarità espressiva le cui atmosfere
trasudano da ogni immagine e da ogni sequenza dei films di Mizoguchi, ovvero una
sorta di “panneggio formale” complesso e ardito, a pieghe multiple, capace di
restituirne il climax ineffabile (la proiezione immaginosa a ritroso) prima
ancora che la presunta verità oggettiva: mai riducendo a storia – infatti – ciò che alla storia
non si acconcia poiché antistorico
per condizione intima.
Nato nel 1898, Mizoguchi
ha iniziato a produrre opere cinematografiche già poco piú che ventenne, ed esattamente
dal 1922, dapprima dedicandosi ad adattamenti di testi narrativi letterari, poi
– dopo l’avvento del sonoro – a films di carattere realistico-biografico.
Insieme a Yasujiro Ozu e Mikio Naruse, per tutti gli anni Trenta e Quaranta ha
tenuto ben saldo tra le mani il monopolio della qualità nel cinema della sua terra, benché sia il caso di
specificare che i capolavori piú persuasivi sono in verità da collocarsi negli
ultimi dieci anni della sua vita, cioè in quel periodo davvero “aureo” che va
dalla fine della catastrofe bellica alla morte del regista, distrutto dalla leucemia
il 24 agosto 1956. Il suo ultimo film, La
strada della vergogna, pur di apprezzabilissima fattura, certamente risente
della fase terminale della malattia, ma negli anni immediatamente precedenti
Mizoguchi aveva messo in fila una serie di lavori di straordinaria potenza linguistica,
come Vita di O-Haru, donna galante
(1952), I racconti della luna pallida di
agosto (1953), L’intendente Sansho
(1954), Gli amanti crocifissi (1954)
e L’imperatrice Yang Kwei-fei (1955).
In tali testi – i
quali, con i pressoché coevi Tarda
primavera (1949) e Viaggio a Tokio
(1953) di Ozu, hanno contribuito in maniera determinante alla “scoperta” del
cinema giapponese in Occidente – troviamo appunto irrobustita al massimo grado,
e quasi portata all’incandescenza, la temperie delirante dell’opera di Mizoguchi,
che si intrica intorno al fulcro tematico di uno sprofondamento
nell’irrazionalità “scatenata” del medioevo nipponico e che in parte vien fatta
propria anche dai primi films del giovane Kurosawa, da Rashomon (1950) a I sette
samurai (1957). La condizione letteralmente disumana a cui è piegato
l’intero universo femminile, il malinteso e quasi paranoide senso dell’onore nel
contesto di un classismo spietato,
banalmente orrendo, sempre declinante nell’idolatrico culto del potere e del denaro,
ossia nell’annichilimento di ogni plausibilità degli affetti e nel continuo
precipitare del sesso nella morte, sono la marca specifica di
interpretazione che Mizoguchi elabora intorno al proprio atroce abisso arcaico:
come una chiave di accesso al rapporto altrimenti impoetico che in sede di
linguaggio cinematografico viene a istituirsi, per qualsiasi soggetto, tra
soggetto e sua rappresentazione.
L’originalità
dell’arte di Mizoguchi si fonda su una rilettura del nesso di eros e thanatos nel quadro della violenza posta in atto dal potere in una
società barbaramente feudale com’è quella del Giappone antico. Il sesso vi precipita di continuo nella morte in quanto le motivazioni di ogni
atto individuale, entro tali coordinate culturali, rendono assurda la vita stessa
e la deprimono in non-vita. E andrò
poi a spiegare come una simile impostazione ideologica, che alligna in ogni film
come un traurig motiv unificante e
imprescindibile, si ripercuota sullo “stile” del regista sovradeterminandolo e
rendendo – appunto – esclusive e inconfondibili le scelte estetiche della sua
produzione terminale. Ciò che tiene insieme le opere di tale fase è una sorta
di idee fixe, una costante tematica
la quale, ben oltre la varietà delle situazioni letteralmente e in superficie
tematizzate, e dunque ben al di là (o al di qua) delle storie narrate, è sempre
presente e sempre incombente sul significato ultimo che i diversi films
propongono, da cui dipendono e a cui si assecondano, in esso e da esso
(soltanto) trovando il loro scopo e traendo la loro forza. Il “significato” si
crea, insomma, in tali opere, quasi per condensazione di pensieri (e di esempi)
che la costante tematica in oggetto coagula attorno a sé e al tempo stesso “illustra”,
facendosi carico di risolvere simbolicamente – con la propria sempre rinnovata epifania,
con il proprio ergersi a conclusione finale inevitabile – ogni accusa e ogni
denuncia circa l’insostenibilità della vita in generale, circa la tragedia
delle vite vissute in particolare, nel luogo tragico dell’arcaismo dei secoli
feudali.
Va da sé che tale
costante, tale idee fixe, è proprio e
precisamente la ricaduta letale di ogni tentativo di amore, la morte come
destino che segue e perseguita ogni slancio erotico che non sia stato
preliminarmente sottomesso a una regolamentazione precauzionale, sterilizzante
e dunque ugualmente mortifera, a una mortificazione,
pertanto, preventiva e castrante, entro regole sociali di casta (e di famiglia)
che non sembrano avere altro senso se non quello di impugnare le categorie
dell’onore e dell’obbedienza come armi capaci di inibire ogni libertà erotica, ovvero,
evidentemente, di scongiurare la pericolosità devastante – per la conservazione
ad aeternum del potere – dell’amore
in quanto tale.
Forse in maniera
del tutto indipendente dall’archetipo europeo del nesso amore-morte (archetipo greco, mitologico, melodrammatico, poi
infine anche psicanalitico) Mizoguchi arriva a una propria deliberata e matura
elaborazione del concetto. Ma vi arriva, con ogni probabilità, appunto perché libero
dall’archetipo e dalle sue implicazioni dialettiche... Voglio dire che il nesso in lui è il risultato di una riflessione
e di un’analisi critica, ed è altresí il prodotto di una scelta di metodo interpretativo
effettuata: sicché, nella sua visione, nulla mette al riparo, nulla giustifica,
nulla attenua, nulla fornisce alibi. La punizione dell’amore con la morte (Gli amanti crocifissi) o la sottrazione
dell’amore da parte della morte (Vita di
O-Haru), l’abbraccio mortifero o il coitus
morti interruptus, sono qualcosa che distrugge l’armonia della vita, niente
affatto ribadendola.
Mi spiego meglio,
o almeno ci provo. In Occidente l’archetipo
(lo chiamo cosí per comodità terminologica, quindi senza mettere in campo o dover
difendere alcuna professione di fede junghiana) agisce nel “bene” e nel “male”.
Il suo fondamento greco lo sottrae a qual si voglia accezione sbilanciata, a
qualunque monopolio del negativo. Del resto, esso non fa che ridurre la morte a
evento funzionale alla vita e alla sua riproduzione incessante e necessaria. Cosí
Narciso si riscatta ed è glorificato in un fiore (rinasce) attraverso la morte
che la sua maldiretta (eterodiretta?, omodiretta?) sessualità gli ha procurato;
cosí Isotta muore e trova nella morte la propria estasi, il piacere sessuale
piú sublime, una felicità definitiva (non diversamente dalla Santa Teresa della
cappella del Bernini); cosí si ricongiungono nella morte, in un amplesso eterno,
Paolo e Francesca, «quali colombe dal disïo chiamate / con l’ali alzate e ferme
al dolce nido», in un inferno tutto sommato tollerabile se Francesca,
rimarcando l’unificazione, può dire che «amor condusse noi ad una morte». Cosí, infine, per Georges
Bataille «l’erotismo è conferma della vita fin dentro la morte».
Va rimarcato: vita,
e non morte, fin dentro la morte eros
produce e procura! Laddove in Mizoguchi, al contrario, thanatos perseguita eros
come un nemico, come una punizione, come una nemesi preordinata e invincibile,
niente affatto necessaria e tuttavia puntualmente incombente come per un
meccanismo di causa-effetto, e altresí per un’incidenza solo deducibile a-posteriori: cosí accade perché cosí è (senza dover essere) alle latitudini
(anti)storico-culturali del Sol Cadente medievale.
Sarà bene qui
aprire una parentesi. Parrebbe di capire (ammesso di poterci capire qualcosa
guardando il tutto, ossia entrambi i “poli”, dall’Europa) che la valenza
archetipica, psico-antropologicamente motivabile, del nesso eros-thanatos, presso la cultura, che
muovendo dall’agorà greca, si è sviluppata nel cristianesimo (cultura della morte di dio stesso, a ben guardare),
sia esattamente quanto pone al riparo l’Occidente dalla declinazione totalmente
catastrofica che agisce in Mizoguchi. Non è facile comprendere – infatti – la
dinamica scellerata che nei films del giapponese tiene le redini del gioco e
determina la tragedia, e sicuramente non è facile proprio perché entro le nostre coordinate culturali quel nesso
sussiste in una dimensione psico-antropologia profonda e ha una certa valenza:
caduta sí, ma anche riscatto. Per la cultura cui apparteniamo, l’erotismo –
negazione dell’atto sessuale riproduttivo – ribadisce la continuità vitale esattamente là dove essa, se si presta fede alle
apparenze, sembrerebbe abolita: cosí è la morte, in quanto implicita trasgressione
del vivente e del perpetuo tramando, in quanto pura utopia nel seno di una
natura in incessante rigenerazione, è la morte come atto simbolico e assoluto,
che la pulsione erotica cerca di raggiungere, attraendo chi ne è posseduto nel
suo luogo misterioso, in un luogo prossimo a quello che la morte, come verità
ultima ma inesperibile, presidia: luogo della perdita dei sensi e della caduta
del senso, del cedimento e della vertigine, dell’esperienza panica (dionisiaca)
come fuoriuscita dall’io, luogo sempre adombrato e quasi allegorizzato
dall’emozione irrapresentabile dell’orgasmo. Per dirla con la stupefacente
“rivelazione” del Tasso, nel luogo del compianto
forse piú alto che la scrittura italiana abbia mai concepito:
Non morí già,
ché sue virtuti accolse
tutte
in quel punto e in guardia al cor le mise;
...
Mentre
egli il suon de’ sacri detti sciolse,
colei
di gioia trasmutossi, e rise:
e
in atto di morir lieta e vivace
dir
parea: “S’apre il ciel; io vado in pace”.
Estasi, orgasmo, morte. La
rinascita («a dar si volse vita con l’acqua») è tutta compresa nel cerchio
magico dell’estinzione e della rinuncia. Il culmine del possesso carnale, o
meglio la spirale ascendente dell’erotismo, è all’origine psicologica di ogni
mito di redenzione, di ogni esperienza estatica: ossia di ogni proiezione di
immediatamente percepiti e indissolubili legami tra la manifestazione massima
della vita e il suo contrario: l’amore, la morte.
Ma questa,
appunto, è cultura (sensibilità psichicologica) europea, che poco ha da
spartire con il Giappone di Mizoguchi. Quando gli amanti vengono crocifissi,
nel racconto loro dedicato, e vengono crocifissi per il solo fatto di essere
amanti, non v’ha ombra di redenzione che aureoli i loro corpi legati insieme
sulla carretta del supplizio, e non c’è estasi che tenga in quei paraggi. La
morte si dà sí come effetto dell’amore, ma esattamente ed esclusivamente in una
chiave di destino perverso, e umanamente (per volontà tutta umana, per agghiacciante
dovere sociale) pervertito. Qui la morte rammenta piuttosto – volendo ricorrere
a un luogo topico del nostro
immaginario poetico – il pozzo di sangue in cui Lady Macbeth tuffa mani che niente
e nessuno potrà mai mondare. Si tratta insomma di quella morte che contrasta e
abbatte la vita, negandola, annientandola. Non c’è riscatto, non c’è motivo,
non c’è schema – se non falso e opprimente – che possa legittimare il rapporto:
eros produce distruzione perché a
mezzo della distruzione della vita viene grottescamente punito, e il “nesso” è
infatti da Mizoguchi interpretato come un increscioso esito della stupidità
umana.
In Vita di O-Haru, donna galante (da un
romanzo seicentesco di Ihara Saikaku) assistiamo alla disperante continua capitolazione
della protagonista, che di vicissitudine in vicissitudine è sempre piú umiliata
nella propria condizione di donna e nella propria sensualità femminile, la
quale viene descritta – in sé e per sé – come una sorta di colpa naturale e ciò nonostante (o perfino proprio per questo)
drasticamente irredimibile. Quello che a mio avviso è il capolavoro piú intenso
di Mizoguchi muove da una prolessi che coglie in incipit la matura età di O-Haru (Kinuyo Tanaka), ovvero la sua estrema
decadenza: quasi come una derelizione e uno schianto prefigurato nella morte
che incombe, in quella morte decretata, cioè, per la donna non piú giovane dalla
società dell’epoca. Una lunga sortita analettica (in sostanza il racconto
primario) consente di ripercorrere l’esistenza pregressa della cinquantenne,
che ebbe il torto – proprio al momento della consacrazione come cortigiana
imperiale – di innamorarsi di un maschio di bassa condizione sociale (Toshiro
Mifune) e la pena di veder subito applicata, a eterna vergogna dei due amanti, la
nemesi inesorabile: l’uomo viene decapitato e la donna è esiliata da Kyoto e declassata
al rango di puttana. Il via alla rammemorazione che il testo si accinge a
tematizzare è dato dalla pressoché mistica visione subita da O-Haru in un
tempio, dinnanzi a una statua buddista, nei cui tratti ella crede di scorgere
il volto di Katsunosuke, l’innamorato ucciso, e di cogliere – pertanto –
l’intero tragico senso della propria esistenza. Cosí quel che si era poco prima
rifiutata di narrare alle compagne di meretricio («Come ti sei potuta ridurre
cosí? Ho sentito che lavoravi alla Corte da giovane... come sei arrivata cosí
in basso?» – «Non chiedetemi niente del passato!») O-Haru prende a viverlo nel
ricordo... e con lei lo ripercorre, come un inesauribile tragitto di sciagura,
anche lo spettatore. Data la propria origine aristocratica e la fama di donna dai
facili costumi, O-Haru verrà chiamata da un feudatario potentissimo a partorire
per lui un figlio che poco dopo le sarà sottratto, per essere cosí espropriata
della maternità e subito ricacciata nella melma. L’arroganza della ferocia
maschile non cesserà di perseguitarla nemmeno quando la donna tenterà di farsi
monaca, poiché sarà sufficiente un attentato sessuale da parte di un
profittatore a ripiombarla nell’infamia e a riadditarla al pubblico ludibrio.
Occorre però mettere
innanzi, a questo punto, un’osservazione che a me pare assai importante. Il
rocambolesco susseguirsi di vicende sciagurate, di cui O-Haru è protagonista e
vittima, non sembra poter scalfire in nessun modo la dura, misurata e quasi
glaciale neutralità formale con cui Mizoguchi tali vicende
narra in immagini e a parole. Una specie di impassibilità dello sguardo, una
grammatica della visione scandita da un ritmo estetico di pura contemplazione,
una oggettivazione estrema – pur
nell’afflato pressoché onirico del presupposto rammemorativo – sottrae al film
la partecipazione emotiva dello spettatore (dato che gli nega di fatto l’immedesimazione
dell’io-narrante), mettendolo in condizione di valutare tutto con un distacco che nel cinema occidentale –
fatta forse eccezione per pochissimi autori, Robert Bresson ad esempio e solo
in parte – sarebbe pressoché inconcepibile. E qui sta forse la marca piú
autenticamente originale di Mizoguchi, nonché la sua grandezza.
A livello prettamente
tecnico-linguistico: l’alternarsi in tutte le scene di piani lunghi e brevi
secondo un preciso impianto ritmico, la scelta di una distanza focale media per
tutti i personaggi e per tutte le situazioni, con campi mai ravvicinati e conseguenti
figure ogni volta inquadrate per intero, i movimenti di macchina lenti e concepiti
“a seguire” gli attori nei loro brevi spostamenti trasversali o di fuga, la
quasi assoluta assenza di primi piani frontali dei volti a favore di riprese di
profilo, e sovente addirittura di spalle, sono tutti elementi di
rappresentazione scelti come altrettanti indispensabili mezzi per la piena e
adeguata funzionalità linguistica del film: una funzionalità linguistica che
per Mizoguchi è garanzia di efficace produzione di contenuto critico da parte
del materiale narrativo, da parte della storia
allestita in spettacolo. Uno stile calibratissimo, dunque, teso a realizzare un
assoluto rigore della rappresentazione,
la quale viene concepita come semplice esposizione di fatti e di ripercussioni
di fatti, giacché (come già sottolineato) non si tratta per nulla di
contingenze soggettive, di personali emozioni e umane reazioni, di dati da
descrivere entro il quadro di una casistica particolare, ma piuttosto di oggettive
istanze del potere e della cultura, iperdominanti e ipostatiche, sublimate –
quasi – nella loro ieratica legalità, in altre parole di inevitabili e già da
sempre prevedibili meccanismi di un accadere che non potrebbe essere diverso da
ciò che è, che non potrebbe manifestarsi diversamente da come si manifesta, entro
quei presupposti (anti)storici dogmatici e violenti.
«Spero che
arrivi un tempo in cui ci si potrà amare senza preoccuparsi della classe
sociale», sono le ultime parole di Katsunosuke, pochi secondi prima che la sua
testa sia mozzata; ma il colpo di spada che la recide è lí a dimostrare che
quel tempo non potrà mai giungere, è lí a sancire la stasi pantocratica di una
società che non conosce il divenire e il mutamento. E le parole di Katsunosuke,
da quel colpo, sono messe a tacere per sempre.
L’unico concetto
disponibile alla nostra psicologia che possa indicare il modo in cui gli
avvenimenti accadono in Vita di O-Haru
è dunque – alla fine – quello di fato,
nell’accezione mitica del termine. Ma vi è ancora una differenza, una
difficoltà. Nei greci antichi, nelle narrazioni omeriche, il fato è sovrumano,
si muove secondo logiche impersonali perché correlate al divino, insediate in
un altrove della volontà che all’uomo non compete né comprendere né mutare; mentre
in Mizoguchi sono gli uomini, la vita sociale degli esseri umani (una vita che
sembrerebbe addirittura da loro scelta) a determinare la stessa ineluttabile
predestinazione dell’accadere... E allora qui c’è qualcosa che per noi non torna. Nulla ci è detto
delle emozioni dei personaggi del film, nessuna psicologia si applica alla
recitazione e alle tecniche di ripresa, che non concedono nemmeno la piena
visione dei volti, degli sguardi, delle espressioni facciali. Nella narrativa
cinematografica occidentale, classica e no, lo spettatore sa sempre (è di
continuo chiamato a sapere) quel che
i protagonisti della storia provano sentimentalmente, al di là di quello che
fanno o dicono. In Mizoguchi, al contrario, apprendiamo dalle sole parole e dai
soli fatti tutto quel che c’è da sapere (invero pochissimo) circa le emozioni e
i sentimenti di uomini e donne. La psicologia è bandita giacché, con ogni
evidenza, nulla essa conta ai sensi dei destini e delle tragedie che incombono,
nella disumanazione totale di cui gli esseri umani sono vittime! Si ama per
coazione disperata, si muore per conseguenza predestinata. Eros è thanatos perché né
eros né thanatos – nella classica ricostruzione che Mizoguchi propone della
non-vita nipponica arcaica – avranno mai il benché minimo valore.