AMOUR: A MORT
Riflessioni su un tema di Haneke e sulla
sua rappresentazione cinematografica
La morte è irrapresentabile,
inenarrabile, indicibile... Non solo la propria
morte, ché sarebbe fin troppo facile, ma la morte in generale, la morte altrui,
la morte che ti sorprende, la morte che ricordi a lungo, i pensieri della morte
che ti incombono vicini, l’ala della morte che fin dalla nascita muove freschi brividi
dietro il tuo capo, gli effetti della morte sul corpo (che non è piú corpo ma
cadavere) di chi hai amato e anche di chi non conoscevi affatto... La morte è
l’indicibile. Giacché, con il pensiero e l’ardore di chi muore, annienta la
parola di chi assiste, e rende memoria
– vale a dire costruzione ingannevole di immagine, rappresentazione artificiosa,
fasulla – il soffio ardente di colui o colei che ha vissuto, di chi è stato nel
contatto della vita, presente in essa e ad essa.
La morte in Dostoëvskij è intravista, accarezzata,
allusa, quasi rappresentata, ma solo perché Dostoëvskij ebbe l’orrendo
privilegio di guardarla negli occhi: le canne dei fucili spianate contro di
lui, la spada alzata del comandante di plotone, un attimo ancora e lo schianto
luminoso che si abbatterà per sempre come un’esplosione cosmica, facendo
sprofondare il tutto nel nulla... Poi nulla: solo uno scherzo “atroce”, degno letteralmente (questa volta sí) dell’infamia
di Atreo. E tutta la vita che permane, che si riapre... ma per cosí dire: segnata per sempre da una morte
conosciuta e dunque riconoscibile. Chi non ha provato questo, almeno questo, è in verità salvo, in
quanto è “fuori” dal cerchio (dal buco nero) della morte e, per sua grazia, non
la conosce affatto.
«D’altra parte sono sempre gli altri che
muoiono», fece scrivere sulla propria lapide Marcel Duchamp («D’ailleurs c’est
toujours les autres qui meurent», cimitero di Rouen), perfetta risposta al lascito
funerario di John Keats: «Qui
giace uno il cui nome era scritto sull’acqua» («Here Lies One Whose Name Was Writ in Water», cimitero protestante
degli inglesi a Roma). Sono sempre gli altri che muoiono. E ciò non significa
soltanto che della propria morte niente è dato sapere e nemmeno significare, e che
di essa nessuna coscienza potrà mai realizzarsi, in nessun caso e in nessun
modo, ma altresí – stante l’inconoscibilità della morte in assoluto – che solo
se pronunciata da chi è già morto (sulla lapide, come emergente in superficie
dal profondo della tomba) quella frase dice qualcosa. E infatti, in tal caso, dice
che gli altri persistono a vivere, nulla di piú. Vivere è poter morire, morire
non è (piú) nulla. L’istante in cui emana il soffio, l’ultimo singulto, il
fiotto che svanisce, è quello in cui il nulla prende il sopravvento, e del
quale – in definitiva – niente si può dire.
«Inspirò profondamente, si fermò a metà
del respiro, stese le membra, e morí.» – sono le parole con cui si chiude il
racconto di Tolstòj Morte di Ivàn Ilíč
(1884-86), il quale tuttavia, un capoverso sopra, attribuisce al moribondo la
seguente mozione psichica: «Finito! – disse, su di lui, una voce. Egli percepí
quella parola, e la ripeté nel suo intimo. Finita la morte! – disse tra sé. – Essa non c’è piú.». Morire significa infatti
far finire la morte... Ed è per questo che il racconto di Tolstòj non tematizza
la vicenda di Ivàn Ilíč come atto del morire, come momento del trapasso (al
quale, in effetti, il racconto non dedica che una riga e mezza di non detto, esattamente quel capoverso finale
citato), bensí tematizza l’estenuante progressivo avvicinamento di Ivàn Ilíč verso quell’istante, cioè il suo muoversi
in vita in quella direzione, il suo
terrore del tutto vitale della morte,
il suo chiamarla a sé con tutte le forze della vita che pulsa in lui: dato che
soltanto questo è “morire”, solo questa è la morte di cui si può parlare. La mancata
rappresentazione (la rappresentazione impossibile) si rovescia in rappresentazione
della mancanza, ossia del terrore-desiderio dell’assenza estrema e finale. Poiché,
d’altra parte, sono sempre gli altri che muoiono e, appunto, la morte è solo mancanza,
assenza, vuoto definitivo.
«Quando aprí il settimo sigillo, ecco,
si fece si fece silenzio in cielo...». Certo, anche Giovanni di Patmos (Apocalisse, II secolo d.C.) aveva
tentato – senza riuscirvi – di narrare la morte. E cosí hanno fatto una
moltitudine di opere d’arte, letterarie o d’altro genere, per i secoli dei
secoli; ma forse, come Tolstòj, e tuttavia senza la sua consapevolezza, non
hanno narrato null’altro che il terrore della morte, l’essere della morte
dentro la vita che l’attende: cosí come che ciò che esiste, e per il fatto
stesso di esserci, ha inscritta dentro di sé la propria fine, il proprio futuro
non esserci. Proprio John Keats, l’uomo il cui nome era scritto sull’acqua, ha
visto (e detto) con chiarezza, per contro, come solo ciò che non ha vita, ciò
che è scolpito in un’immagine di pietra, potrà ambire alla felicità di una “stasi”
che lo ponga al riparo dall’incessante movimento verso la scomparsa, il che poi
vuol dire da ciò che rende la morte uno stato
mentale della vita stessa. «Bel giovinetto, là, sotto le piante, tu non
puoi lasciare / il tuo canto, né possono mai quelle piante esser nude; / audace
amante, giammai, giammai tu puoi baciare, / pur se la meta quasi tocchi – eppure
non averne affanno; / ella non può appassire, pur se la gioia tua non hai, / tu
per sempre amerai, ed ella sarà bella!» (Ode
sopra un’urna greca, 1819).
Il cinematografo può narrare la morte
meno ancora di quanto possa farlo la scrittura. Le immagini vedono solo ciò
che si pone dinanzi all’occhio della macchina da presa nella concretezza fisica
di un oggetto vivo nel mondo; e l’assenza di vita – la sua scomparsa – si dà in
immagine esclusivamente come vuoto, come omissione, ovvero non può darsi
affatto... È un limite del linguaggio iconico (fotografico e non solo): la
negazione gli è interdetta. Il cinema non narra certo la morte con i (finti)
cadaveri stramazzati al suolo o con gli effetti speciali di sbudellamenti gratuiti!
Forse può narrare la resurrezione – in Ordet
di Dreyer (1954) – oppure può additare la morte come personaggio (simbolico)
sulla base delle “personificazioni” medioevali, magari accessoriandola di
cappuccio, scacchiera e falce da fieno, come in Il settimo sigillo di Bergman (1956)... Ed è perfino piú “onesta”
quest’ultima scelta di quella di chi ci vorrebbe porre in presenza della morte,
appunto, dopo duelli, sparatorie, massacri, carneficine varie... In quella
presenza solenne, che si dà appunto solo come silenzio, in quel silente vuoto, che
è presenza di un’assenza, l’immagine non potrà mai collocarci, al pari e ancor
piú di quanto (non) può farlo la parola.
Amour di Haneke è un film
violento. Di una violenza per cosí dire inaudita. Ha la pretesa di farci vivere
la morte di una donna come se la morte fosse vivibile... Con spericolata
audacissima caparbietà, il film ne segue il percorso: lo cerca, lo tenta, vi si
muove attorno, quasi ne accarezza i bordi, lo assedia... Non potendo
sprofondare nel suo tema, fa di tutto per delimitarlo e per aggredirlo
dall’esterno. E lo fa scegliendo l’unica strada possibile, quella che mette al
centro della rappresentazione il riflesso dell’agonia di quella donna, Anne,
sulla vita e sul destino dell’uomo che la ama, Georges. Un lento supplizio, un
declino fisico e psichico angosciante, un degrado progressivo tremendo – simile
per certi tratti a quel cammino inarrestabile che già era stato di Ivàn Ilíč – viene
descritto, anche senza gli eccessi di una non necessaria focalizzazione, a
partire dallo sguardo dell’uomo, compagno in vita della morente e ora muto
partecipe del di lei passo estremo... In questo modo, ed è indispensabile, la
morte assume il nome di amore: forse
proprio il nome che ha sempre avuto, l’unico che la individua come evento capace
di accadere e che pertanto la può “pensare”; nel film di Haneke, in questa sua nuova
stupefacente prova di forzatura del linguaggio, essa è nient’altro che amore,
si materializza nell’amore che piange (o forse ride) la sua assurda incombenza.
La violenza è qui, nel mettere a nudo,
come un cuore palpitante nella mano di chi lo ha estratto dalle viscere di un
corpo, l’amore: come agonia dell’amore nell’agonia della vita. La vecchiaia ne
è il requisito imprescindibile. Se in Funny
Games (1997) la violenza trovava nell’assurda imbecillità del gioco la sola rappresentazione materiale
possibile, cioè se violento era il non-senso
dell’esistenza in quanto tale (esistenza borghese e tranquilla della famigliola
– odiosa – vittima; esistenza sfacciatamente aristocratica, elitaria, banalmente
dandistica e perciò orribile, della coppia di giovani carnefici), qui, in Amour, è violento il volto (ossia il
significato) del tragitto, poi del tracollo medesimo, della figura vitale (la
donna viva e vera, il suo corpo, la sua mente) nella rappresentazione dell’altro, dell’implicato, di colui che ne è l’osservatore-amante,
il marito, il compagno, il complice... in fondo nella rappresentazione di chi quella vita ha reso un fatto autentico con
il proprio amore, di colui che la rappresenta nei termini di quel proprio atto
libidico fondamentale. Il desiderio (libido) crea la figura e la vede fiorire,
e poi deperire e distruggersi, perché essa – in quanto reale e vivente – è
anche in sé. In un certo senso, la
dicotomia tra il per-sé (per l’altro)
e l’in-sé (per se stesso) è la base
drammatica su cui Haneke ha edificato il proprio capolavoro.
In Funny
Games la violenza non è mai mostrata in modo diretto, gli occhi dello
spettatore ne vengono in tal senso salvaguardati – contro la sciocca
propensione agli spargimenti di budella e di meningi, oggi ampiamente diffusa, che
sortisce effetti piú comici che impressionanti –, oppure, nell’unico caso in
cui lo è, quando la donna vittima afferra un fucile e sfonda il petto di uno
dei carnefici, un celebre e mai prima arrischiato “rewind” provvede ad abolirne
l’immagine, a posteriori... quindi l’annulla dichiarandola erronea: si vede ma
non è stata, non c’è (piú). Del resto la violenza è per Haneke
nell’occultamento stesso, nel gesto con cui la si cancella per negarla, non facendo
cosí che riaffermarla. La vita stessa è violenza, ed è impossibile non
accorgersene, perché essa, la vita, soggiace alla minaccia puntuale della
morte. Der Tod und das Mädchen, per dirlo
nella lingua stessa di Haneke, ovvero nella lingua dell’amato Schubert (che ha
dedicato al tema il suo piú drammatico “quartetto”) o – anche – in quella dei
primi ideatori di tale luminoso nesso psico-filosofico, rappresentato infatti
nei dipinti di Hans Baldung Grien e seguaci. La morte incombe sulla bellezza
femminile, sull’orgasmo sessuale, sull’estasi erotica e sulla vita in quanto piacere
ed energia biologica, rendendo tutto ciò mera e ingannevole “vanitas”.
In Amour
c’è di piú. La violenza è mostrabile, ed è mostrata: ma come violenza, appunto,
dell’essere in vita, come superiore stato
di grazia assoluto (l’esistenza), nella sciagura che incombe: non come fato o avverso
destino, non come infortunio, non come iattura individuale – ciò che siamo
soliti figurarci, per un conforto senza il quale non potremmo r/esistere, accanto
al retro-pensiero «càpita solo ad alcuni...» – ma come sbocco ineludibile e
necessario, come esito tragico e perfino agghiacciante: nella consunzione
biologica a cui l’uomo è votato da natura e senza rimedio. L’ontologia torna a
farsi efficace: l’uomo muore, e il suo morire è la sua essenza, un po’ come è
l’essenza (o, se si vuole, la definizione) di dio a imporre il fatto
(l’attributo) della sua esistenza, secondo il gioco di Anselmo d’Aosta. L’ontologia
che è elaborata in Amour non esclude
tuttavia l’ateismo, ed anzi lo illustra, giacché non propone riscatto dalla
morte, ma semmai spalanca gli occhi sul verificarsi della morte in vita
attraverso lo sguardo che dovrebbe allontanarla, e che invece la coglie e la
rivela, lo sguardo dell’amore.
«Visioni sí funeste, se non son degne di
Atreo son degne di Tieste» (per parafrasare Poe, e dunque Crebillon: «Un
dessein si funeste / S’il n’est digne d’Atrée, est digne de Thyeste»). Solo una
grande ingenuità, uno sguardo assai superficiale, forse anche il bisogno di
facili consolazioni, possono produrre equivoco fino al punto da far leggere Amour come un’apologia dell’amore e della
bellezza dei sentimenti che vengono per solito riassunti tra le stecche dell’ombrello
(in verità pieno di buchi) di tale parola. L’amore nel film omonimo è la
pre-condizione che consente non la vittoria
sulla (schema cristiano) ma la visione
della morte. Vale la pena di riflettere, allora, intorno alla critica che
questa formidabile prova cinematografica innesca (quasi un “parallelo” tentato
e poi mancato) a fronte delle posizioni drammaturgico-ideologiche di Ingmar
Bergman: per sottolineare, innanzi tutto, che la “morte di dio” su cui Bergman fonda
le proprie analisi umanistiche è oltrepassata dal luogo in cui si installa Haneke
come uno stadio ormai obsoleto, una logora incognita, una impasse che non è piú tale lungo il processo millenario della
coscienza verso l’ateismo: alle latitudini della “fase estrema” dell’umanità,
quella in cui oggi siamo gettati. Se Bergman poneva la questione, ancora
nietzschianamente, nei termini di un “lutto” – il silenzio di dio quale segno della sua scomparsa – Haneke si dispone
(e ci dispone) oltre, laddove il fatto si è per cosí dire definitivamente compiuto.
In Nietzsche e poi in Bergman, sentire l’assenza di dio non equivale infatti a negarne
l’esistenza: il lutto è possibile solo là dove c’è la persuasione di una
perdita, ossia di un evento di morte; ma un conto è, appunto, assistere alla
morte di qualcosa che è stato, che si è visto (o sentito) morire, e un altro conto
è prendere atto della semplice inesistenza di ciò che non è (neppure) mai stato.
“La morte di dio” grida ovunque la disperazione di un’eclissi, di un silenzio inaspettato,
ed è uno stato di rimpianto, un lutto pervicace, forse anche definitivo ma
proprio e solo in quanto lutto. E cosí in Bergman (si veda Luci di inverno, 1962, ad esempio) quello è il nodo alla gola da cui muove la rappresentazione dell’umano.
In Haneke l’assenza di dio è invece la sua totale insussistenza nell’uomo e
nelle sue ragioni esistenziali: dio non c’è piú perché era un inganno, una
costruzione artificiosa, un prodotto dell’uomo e dei suoi terrori... Come se
Orfeo, dopo la discesa agli inferi per riavere l’amata sposa, nell’atto di girarsi
a controllare il buon esito della propria impresa, perdesse non già Euridice
testé risorta, ma la semplice e pura speranza di averla (anche solo per un
attimo) fatta risorgere. Orfeo
si volge, e non vede nulla... ciò che ha perduto è soltanto un’illusione.
Quel che muore in Amour non è dio, ma l’uomo. E l’uomo muore veramente solo allorché
dio non è mai esistito. Nessun sentimentalismo: si tratta semmai di affondare con
la freddezza di un carnefice la lama dello sguardo (il cinema è sopra tutto
sguardo) ossia della coscienza (il linguaggio artistico genera coscienza) nella dimensione atroce del
prodursi della morte come dissipazione definitiva; e per farlo – con Amour – si deve mostrare il disfacimento
della vita nel suo essere ciò che la morte determina e alla morte prelude, ciò
che la rende quindi rappresentabile. Alla crudeltà dei “fatti” occorre rispondere
con la crudeltà del linguaggio.
Haneke allestisce la diegesi (di Amour, de la mort) mimando in parte Tolstòj, ovvero aprendo il film sul post-factum della storia, poiché pone in incipit Anne già defunta,
e dunque il suo corpo ritrovato da un’irruzione “sociale” e “legale” dei vigili
del fuoco, nell’appartamento sigillato e deserto che ne è divenuto la bara; e mette
in evidenza – proprio all’inizio della pellicola, quasi come un risvolto di
copertina – la ieratica politezza del cadavere, che è circondato da petali di
margherita sul letto-catafalco, già in avanzato stato di decomposizione. Salvo
poi non recuperare tutto
l’avanzamento temporale e pertanto non chiudere affatto con l’evento che il
film aveva inaugurato. A parte ciò, il movimento a ritroso imposto dallo schema
prolettico funziona esattamente come nella Morte
di Ivàn Ilíč: subito dopo la prolessi (la morte è avvenuta, essa è qui tra
noi fin da subito, ed è il tema principale: «Signori, – disse a un tratto, – Ivàn
Ilíč è morto»), uno stacco cospicuo sposta indietro di qualche mese il fuoco del
testo, andando a districare il bandolo giusto di quella complicata matassa che è
l’esistenza di due persone nella loro vita di anziani coniugi e complici.
Nell’ellissi, il titolo del film si impone su fondo nero: «Amour». Poi le
immagini descrivono l’evento in cui si manifestano i primi sintomi della
malattia di Anne, seguendo il ritorno dei coniugi a casa dopo un concerto di
musica a teatro (Schubert, Impromptus D
899, primo movimento, do minore) e la loro colazione del mattino. Ma ecco
che, immediatamente, Haneke mette in campo tutta la potenza di una scrittura
scenica d’acciaio, e lo fa adeguandosi all’arduo compito di una ricostruzione dei fatti: i corpi vivi in
autobus, tra altri corpi vivi... a teatro e poi in autobus, le stanze
dell’appartamento vivificate dai corpi, e in esse il campo e il fuori campo dei
corpi, di Anne e di Georges, a seconda dei loro movimenti... Tutto è inquadrato
da una cinpresa immobile, severa, che nulla concede al simbolico, che tutto
oggettivizza nel suo obbiettivo fermo, prospettico, gelido e ortogonale come lo
sguardo di Piero della Francesca... Il tono è lento, pacato, senza drammi,
senza colpi di scena, senza vedute artificiose, senza “movimenti di macchina” implicativi,
affinché l’algida bellezza di un’immagine spietata possa narrare la vita, ossia
la vita nel suo progresso verso la morte, oltre gli sbalzi, oltre le emozioni, oltre
i sussulti sentimentali: perché cosí è la vita nella sua fase terminale, e cosí
sarà il film fino alla fine. Riclassicizzare la lingua del cinematografo, contro
ogni tentazione di produrre scorciatoie psicologiche con mezzi ad effetto
garantito, consente dunque di mettere lo spettatore dinanzi ai fatti. Alla crudeltà dei fatti – come già dicevo – Haneke risponde
con la crudeltà del linguaggio. Novello Bresson, egli agisce come Bresson ne L’argent (1983): questa è la realtà, e
questo è il cinema che può descriverla.
Anche dal punto di vista della sintassi
diegetica, nelle sue grandi e piccole articolazioni, la scelta neoclassica
prende il sopravvento su qualsiasi altra lusinga: le ellissi separano tra di
loro una serie di brani narrativamente conchiusi, dove i piani lunghi sono
montati in modo ritmicamente ineccepibile (e però sostanzialmente canonico) per
dar vita a “scene omogenee” che rispondono, ciascuna, a uno stadio differente
della malattia di Anne, la quale viene in tal modo presa per mano dalla
cinepresa, nel suo tragitto odioso, e amorevolmente accompagnata fino alla
distruzione della donna. E qui si innesta il potente teorema linguistico che sostanzia
l’opera e la rende immensa: lo sguardo della cinepresa assume lo sguardo di
Georges come chiave di comprensione dell’accadere – l’unica possibile. «Amore»
ha per titolo quello sguardo, perché solo il coinvolgimento esistenziale ed
affettivo può giust’appunto cogliere il senso della morte che lentamente si reifica...
Senza alcuna esplicita “soggettiva”, le immagini ci mostrano le immagini prodotte
dalla mente di un uomo coinvolto nel disfacimento di una vita altrui che è la
vita della donna che ama, ed altresí, proprio per ciò, è il disfacimento della
vita propria. Qui è questione di ritmo, di polso, di pulsazioni cardiache, di potenza
dello sguardo dentro il ritmo... qui è la capacità indicibile (a parole) di un
cinema che si pone come mezzo d’espressione non sussidiario, non parassita di
altri linguaggi.
La scelta classicista (neo-bressoniana)
non inibisce al film invenzioni di fascino e di stupore: al minuto 31.46 si
apre una ripresa al buio, a camera fissa, sul volto di Georges in dormiveglia,
senza musica, senza suoni, una sorta di meditazione notturna, pazzesca e
inaccettabile in altri contesti, qui perfettamente efficace, perché è il film,
nella sua costruzione geometrica e nel suo implacabile rigore, a renderla tale.
I pochi dialoghi tra Anne e Georges, sempre in bilico tra il banale (il dire di
circostanza) e il significativo assoluto (il logos al suo livello piú alto) hanno in sé il veleno della parola
tragica, mentre la camera fissa accoglie il campo-controcampo e i primi piani
dei volti devastati dalla vecchiaia come doni finalmente pieni di senso: come
nello stupendo indugio che precede la dichiarazione di Anne sull’assurdità
della continuazione della vita, al minuto 43. Ma, ancor piú sorprendenti, ecco altre
invenzioni: una serie di “nature morte” della casa, con stanze e oggetti
inquadrati a lungo in assenza di accadimenti, sempre in veduta ad altezza
d’uomo, come per sospensioni descrittive che finiscono per attribuire al testo
filmico facoltà che la semiologia gli nega, in linea di principio: la pausa,
appunto, tipica del romanzo ma inattuabile al cinema (dicunt); addirittura la
visione di una serie di dipinti romantici e post-romantici di paesaggio, a tutto
quadro, tra il minuto 91 e il minuto 92, irrelata alla narrazione e perfino al
contesto scenico (quei dipinti non si vedono, altrove, sui muri
dell’appartamento); i lunghissimi arresti sui volti in silenzio, che colgono
forse solo le rughe espressive di misteriche sindoni (e la grandezza di Haneke
si nutre qui anche della grandezza dei suoi attori, Emmanuelle Riva e
Jean-Louis Trintignant, entrambi giunti, ben oltre il culmine della loro
carriera, alla loro prova piú persuasiva); e infine lo strazio infinito
dell’album di fotografie, sfogliato da Anne e ripreso in diretta, ancora una
volta a tutto campo, dalla camera fissa che si incarna nell’occhio stesso di
uno spettatore invasivo, cosí invasivo da poter riconoscere, come per un
ulteriore tributo alla costruzione di senso e d’angoscia, le immagini private
dei due attori da giovani.
Lo sguardo del film, la sua macchina da
presa, scava incessantemente il terreno dell’insignificanza, per cercarvi forse
il tesoro di un lampo essenziale, e morale, qualcosa che potrebbe allignare
anche nella banalità delle prese di posizione dei giovani amici e figli di
Georges e Anne, ogni tanto in campo per portare aria fresca dall’esterno e
tuttavia capaci solo di arrecare dannazione alla dannazione. E alla fine è
l’amore che dà la morte, è Georges che pone termine all’agonia di Anne,
soffocandone sotto un cuscino a lungo premuto il rimasuglio inutile di alito
vitale, il lacerto residuale di quella cosa
che ancora dovrebbe essere vita e già da tempo non lo è piú. La morte metonimizza
tutto, e infine metonimicamente descrive se stessa. Quel che Georges uccide non
è piú Anne, ma solo quel respiro, quel rantolo penoso e insopportabile, quel
filo assurdo d’aria che ancora si ostina ad esalare dal corpo di lei. Quel che
Georges uccide è dunque la morte. La conclusione non può esserci e non c’è.
Come in molti altri film di Haneke, il racconto non finisce, semplicemente si
interrompe. Georges ha cosparso di petali il cadavere della moglie (lo vediamo
recidere una a una le teste di molteplici margherite) e, dopo aver sigillato
con nastro da pacchi le porte della stanza funebre, cattura con un panno un
piccione che si è intrufolato in casa, quindi scrive una lunga lettera, nella
quale narra tra l’altro di aver rimesso in libertà l’animale... Poi ode (o
crede di udire) Anne che armeggia con i piatti in cucina, e con lei esce (o
crede di uscire) di casa. Crede, non crede... esce, non esce, poco importa: le
immagini che vediamo sono le immagini prodotte dalla psiche di Georges, e
dunque “accade” esattamente quel che
accade per lui. Di certo abbandona l’appartamento, o almeno cosí si
direbbe... Entra in casa (e nel campo visivo) la figlia dei due, Eva, la quale,
dopo aver passeggiato tra le stanze vuote, siede sulla poltrona del salone, dove
– forse spiandola con gli occhi Georges – la vediamo di profilo nel quadro della
porta aperta.
Poi piú nulla.
Riferimenti bibliografici:
• Georges Bataille, L’erotismo, ed. it. Studio Editoriale,
Milano 1997.
• Jacques Derrida, Il fattore della verità, ed. it. Adelphi,
Milano 1978.
• Giovanni di Patmos
(attribuito), Apocalisse (Apokálypsis), ed. it. a cura di
Cesare Angelini, Einaudi, Torino 1972.
• John Keats, Ode sopra un urna greca (Ode
on a Grecian Urn), in Poesie, trad. it. di Augusta
Grosso-Guidetti, Utet, Torino 1967.
• Jacques Lacan, Il seminario su “La lettera rubata”, in La cosa freudiana e altri scritti, ed.
it. Einaudi, Torino 1972.
• Edgar Allan Poe, La lettera rubata (The Purloined Letter),
in I racconti, trad. it. di Giuseppe
Sardelli, Feltrinelli, Milano 1971.
• Lev Tolstòj, Morte di Ivàn Ilíč (Smert’ Ivana Il’iča),
in Quattro romanzi, trad. it. di
Agostino Villa, Einaudi, Torino 1955.
[pubblicato in “Rifrazioni”, n. 12, Bologna, maggio 2013]
[pubblicato in “Rifrazioni”, n. 12, Bologna, maggio 2013]