giovedì 13 giugno 2013

AMOUR: A MORT (HANEKE)


AMOUR: A MORT
Riflessioni su un tema di Haneke e sulla sua rappresentazione cinematografica



La morte è irrapresentabile, inenarrabile, indicibile... Non solo la propria morte, ché sarebbe fin troppo facile, ma la morte in generale, la morte altrui, la morte che ti sorprende, la morte che ricordi a lungo, i pensieri della morte che ti incombono vicini, l’ala della morte che fin dalla nascita muove freschi brividi dietro il tuo capo, gli effetti della morte sul corpo (che non è piú corpo ma cadavere) di chi hai amato e anche di chi non conoscevi affatto... La morte è l’indi­ci­bile. Giacché, con il pensiero e l’ardore di chi muore, annienta la parola di chi assiste, e rende memoria – vale a dire costruzione ingannevole di immagine, rappresentazione artificiosa, fasulla – il soffio ardente di colui o colei che ha vissuto, di chi è stato nel contatto della vita, presente in essa e ad essa.
La morte in Dostoëvskij è intravista, accarezzata, allusa, quasi rappresentata, ma solo perché Dostoëvskij ebbe l’orrendo privilegio di guardarla negli occhi: le canne dei fucili spianate contro di lui, la spada alzata del comandante di plotone, un attimo ancora e lo schianto luminoso che si abbatterà per sempre come un’esplosione cosmica, facendo sprofondare il tutto nel nulla... Poi nulla: solo uno scherzo “atroce”, degno letteralmente (questa volta sí) dell’infamia di Atreo. E tutta la vita che permane, che si riapre... ma per cosí dire: segnata per sempre da una morte conosciuta e dunque riconoscibile. Chi non ha provato questo, almeno questo, è in verità salvo, in quanto è “fuori” dal cerchio (dal buco nero) della morte e, per sua grazia, non la conosce affatto.
«D’altra parte sono sempre gli altri che muoiono», fece scrivere sulla propria lapide Marcel Duchamp («D’ailleurs c’est toujours les autres qui meurent», cimitero di Rouen), perfetta risposta al lascito funerario di John Keats: «Qui giace uno il cui nome era scritto sull’acqua» («Here Lies One Whose Name Was Writ in Water», cimitero protestante degli inglesi a Roma). Sono sempre gli altri che muoiono. E ciò non significa soltanto che della propria morte niente è dato sapere e nemmeno significare, e che di essa nessuna coscienza potrà mai realizzarsi, in nessun caso e in nessun modo, ma altresí – stante l’inconoscibilità della morte in assoluto – che solo se pronunciata da chi è già morto (sulla lapide, come emergente in superficie dal profondo della tomba) quella frase dice qualcosa. E infatti, in tal caso, dice che gli altri persistono a vivere, nulla di piú. Vivere è poter morire, morire non è (piú) nulla. L’istante in cui emana il soffio, l’ultimo singulto, il fiotto che svanisce, è quello in cui il nulla prende il sopravvento, e del quale – in definitiva – niente si può dire.
«Inspirò profondamente, si fermò a metà del respiro, stese le membra, e morí.» – sono le parole con cui si chiude il racconto di Tolstòj Morte di Ivàn Ilíč (1884-86), il quale tuttavia, un capoverso sopra, attribuisce al moribondo la seguente mozione psichica: «Finito! – disse, su di lui, una voce. Egli percepí quella parola, e la ripeté nel suo intimo. Finita la morte! – disse tra sé. – Essa non c’è piú.». Morire significa infatti far finire la morte... Ed è per questo che il racconto di Tolstòj non tematizza la vicenda di Ivàn Ilíč come atto del morire, come momento del trapasso (al quale, in effetti, il racconto non dedica che una riga e mezza di non detto, esattamente quel capoverso finale citato), bensí tematizza l’estenuante progressivo avvicinamento di Ivàn Ilíč verso quell’istante, cioè il suo muoversi in vita in quella direzione, il suo terrore del tutto vitale della morte, il suo chiamarla a sé con tutte le forze della vita che pulsa in lui: dato che soltanto questo è “morire”, solo questa è la morte di cui si può parlare. La mancata rappresentazione (la rappresentazione impossibile) si rovescia in rappresentazione della mancanza, ossia del terrore-desiderio dell’assenza estrema e finale. Poiché, d’altra parte, sono sempre gli altri che muoiono e, appunto, la morte è solo mancanza, assenza, vuoto definitivo.
«Quando aprí il settimo sigillo, ecco, si fece si fece silenzio in cielo...». Certo, anche Giovanni di Patmos (Apocalisse, II secolo d.C.) aveva tentato – senza riuscirvi – di narrare la morte. E cosí hanno fatto una moltitudine di opere d’arte, letterarie o d’altro genere, per i secoli dei secoli; ma forse, come Tolstòj, e tuttavia senza la sua consapevolezza, non hanno narrato null’altro che il terrore della morte, l’essere della morte dentro la vita che l’attende: cosí come che ciò che esiste, e per il fatto stesso di esserci, ha inscritta dentro di sé la propria fine, il proprio futuro non esserci. Proprio John Keats, l’uomo il cui nome era scritto sull’acqua, ha visto (e detto) con chiarezza, per contro, come solo ciò che non ha vita, ciò che è scolpito in un’immagine di pietra, potrà ambire alla felicità di una “stasi” che lo ponga al riparo dall’incessante movimento verso la scomparsa, il che poi vuol dire da ciò che rende la morte uno stato mentale della vita stessa. «Bel giovinetto, là, sotto le piante, tu non puoi lasciare / il tuo canto, né possono mai quelle piante esser nude; / audace amante, giammai, giammai tu puoi baciare, / pur se la meta quasi tocchi – eppure non averne affanno; / ella non può appassire, pur se la gioia tua non hai, / tu per sempre amerai, ed ella sarà bella!» (Ode sopra un’urna greca, 1819).
Il cinematografo può narrare la morte meno ancora di quanto possa farlo la scrit­tura. Le immagini vedono solo ciò che si pone dinanzi all’occhio della macchina da presa nella concretezza fisica di un oggetto vivo nel mondo; e l’assenza di vita – la sua scomparsa – si dà in immagine esclusivamente come vuoto, come omissione, ovvero non può darsi affatto... È un limite del linguaggio iconico (fotografico e non solo): la negazione gli è interdetta. Il cinema non narra certo la morte con i (finti) cadaveri stramazzati al suolo o con gli effetti speciali di sbudellamenti gratuiti! Forse può narrare la resurrezione – in Ordet di Dreyer (1954) – oppure può additare la morte come personaggio (simbolico) sulla base delle “personificazioni” medioevali, magari accessoriandola di cappuccio, scacchiera e falce da fieno, come in Il settimo sigillo di Bergman (1956)... Ed è perfino piú “onesta” quest’ul­tima scelta di quella di chi ci vorrebbe porre in presenza della morte, appunto, dopo duelli, sparatorie, massacri, carneficine varie... In quella presenza solenne, che si dà appunto solo come silenzio, in quel silente vuoto, che è presenza di un’assenza, l’immagine non potrà mai collocarci, al pari e ancor piú di quanto (non) può farlo la parola.
Amour di Haneke è un film violento. Di una violenza per cosí dire inaudita. Ha la pretesa di farci vivere la morte di una donna come se la morte fosse vivibile... Con spericolata audacissima caparbietà, il film ne segue il percorso: lo cerca, lo tenta, vi si muove attorno, quasi ne accarezza i bordi, lo assedia... Non potendo sprofondare nel suo tema, fa di tutto per delimitarlo e per aggredirlo dall’esterno. E lo fa scegliendo l’unica strada possibile, quella che mette al centro della rappresentazione il riflesso dell’agonia di quella donna, Anne, sulla vita e sul destino dell’uomo che la ama, Georges. Un lento supplizio, un declino fisico e psichico angosciante, un degrado progressivo tremendo – simile per certi tratti a quel cammino inarrestabile che già era stato di Ivàn Ilíč – viene descritto, anche senza gli eccessi di una non necessaria focalizzazione, a partire dallo sguardo dell’uomo, compagno in vita della morente e ora muto partecipe del di lei passo estremo... In questo modo, ed è indispensabile, la morte assume il nome di amore: forse proprio il nome che ha sempre avuto, l’uni­co che la individua come evento capace di accadere e che pertanto la può “pensare”; nel film di Haneke, in questa sua nuova stupefacente prova di forzatura del linguaggio, essa è nient’altro che amore, si materializza nell’a­more che piange (o forse ride) la sua assurda incombenza.
La violenza è qui, nel mettere a nudo, come un cuore palpitante nella mano di chi lo ha estratto dalle viscere di un corpo, l’amore: come agonia dell’amo­re nell’agonia della vita. La vecchiaia ne è il requisito imprescindibile. Se in Funny Games (1997) la violenza trovava nell’assurda imbecillità del gioco la sola rappresentazione materiale possibile, cioè se violento era il non-senso dell’esistenza in quanto tale (esistenza borghese e tranquilla della famigliola – odiosa – vittima; esistenza sfacciatamente aristocra­ti­ca, elitaria, banalmente dandistica e perciò orribile, della coppia di giovani carnefici), qui, in Amour, è violento il volto (ossia il significato) del tragitto, poi del tracollo medesimo, della figura vitale (la donna viva e vera, il suo corpo, la sua mente) nella rappresentazione dell’altro, dell’implicato, di colui che ne è l’osservatore-amante, il marito, il compagno, il complice... in fondo nella rappresentazione di chi quella vita ha reso un fatto autentico con il proprio amore, di colui che la rappresenta nei termini di quel proprio atto libidico fondamentale. Il desiderio (libido) crea la figura e la vede fiorire, e poi deperire e distruggersi, perché essa – in quanto reale e vivente – è anche in sé. In un certo senso, la dicotomia tra il per-sé (per l’altro) e l’in-sé (per se stesso) è la base drammatica su cui Haneke ha edificato il proprio capolavoro.
In Funny Games la violenza non è mai mostrata in modo diretto, gli occhi dello spettatore ne vengono in tal senso salvaguardati – contro la sciocca propensione agli spargimenti di budella e di meningi, oggi ampiamente diffusa, che sortisce effetti piú comici che impressionanti –, oppure, nell’unico caso in cui lo è, quando la donna vittima afferra un fucile e sfonda il petto di uno dei carnefici, un celebre e mai prima arrischiato “rewind” provvede ad abolirne l’immagine, a posteriori... quindi l’annulla dichiarandola erronea: si vede ma non è stata, non c’è (piú). Del resto la violenza è per Haneke nell’occultamento stesso, nel gesto con cui la si cancella per negarla, non facendo cosí che riaffermarla. La vita stessa è violenza, ed è impossibile non accorgersene, perché essa, la vita, soggiace alla minaccia puntuale della morte. Der Tod und das Mädchen, per dirlo nella lingua stessa di Haneke, ovvero nella lingua dell’amato Schubert (che ha dedicato al tema il suo piú drammatico “quartetto”) o – anche – in quella dei primi ideatori di tale luminoso nesso psico-filosofico, rappresentato infatti nei dipinti di Hans Baldung Grien e seguaci. La morte incombe sulla bellezza femminile, sull’orgasmo sessuale, sull’estasi erotica e sulla vita in quanto piacere ed energia biologica, rendendo tutto ciò mera e ingannevole “vanitas”.
In Amour c’è di piú. La violenza è mostrabile, ed è mostrata: ma come violenza, appunto, dell’essere in vita, come superiore stato di grazia assoluto (l’esistenza), nella sciagura che incombe: non come fato o avverso destino, non come infortunio, non come iattura individuale – ciò che siamo soliti figurarci, per un conforto senza il quale non potremmo r/esistere, accanto al retro-pensiero «càpita solo ad alcuni...» – ma come sbocco ineludibile e necessario, come esito tragico e perfino agghiacciante: nella consunzione biologica a cui l’uomo è votato da natura e senza rimedio. L’ontologia torna a farsi efficace: l’uomo muore, e il suo morire è la sua essenza, un po’ come è l’essenza (o, se si vuole, la definizione) di dio a imporre il fatto (l’attributo) della sua esistenza, secondo il gioco di Anselmo d’Aosta. L’ontologia che è elaborata in Amour non esclude tuttavia l’ateismo, ed anzi lo illustra, giacché non propone riscatto dalla morte, ma semmai spalanca gli occhi sul verificarsi della morte in vita attraverso lo sguardo che dovrebbe allontanarla, e che invece la coglie e la rivela, lo sguardo dell’a­more.
«Visioni sí funeste, se non son degne di Atreo son degne di Tieste» (per parafrasare Poe, e dunque Crebillon: «Un dessein si funeste / S’il n’est digne d’Atrée, est digne de Thyeste»). Solo una grande ingenuità, uno sguardo assai superficiale, forse anche il bisogno di facili consolazioni, possono produrre equivoco fino al punto da far leggere Amour come un’apologia dell’amore e della bellezza dei sentimenti che vengono per solito riassunti tra le stecche dell’ombrello (in verità pieno di buchi) di tale parola. L’amore nel film omonimo è la pre-condizione che consente non la vittoria sulla (schema cristiano) ma la visione della morte. Vale la pena di riflettere, allora, intorno alla critica che questa formidabile prova cinematografica innesca (quasi un “parallelo” tentato e poi mancato) a fronte delle posizioni drammaturgico-ideologiche di Ingmar Bergman: per sottolineare, innanzi tutto, che la “morte di dio” su cui Bergman fonda le proprie analisi umanistiche è oltrepassata dal luogo in cui si installa Haneke come uno stadio ormai obsoleto, una logora incognita, una impasse che non è piú tale lungo il processo millenario della coscienza verso l’ateismo: alle latitudini della “fase estrema” dell’umanità, quella in cui oggi siamo gettati. Se Bergman poneva la questione, ancora nietzschianamente, nei termini di un “lutto” – il silenzio di dio quale segno della sua scomparsa – Haneke si dispone (e ci dispone) oltre, laddove il fatto si è per cosí dire definitivamente compiuto. In Nietzsche e poi in Bergman, sentire l’assenza di dio non equivale infatti a negarne l’esistenza: il lutto è possibile solo là dove c’è la persuasione di una perdita, ossia di un evento di morte; ma un conto è, appunto, assistere alla morte di qualcosa che è stato, che si è visto (o sentito) morire, e un altro conto è prendere atto della semplice inesistenza di ciò che non è (neppure) mai stato. “La morte di dio” grida ovunque la disperazione di un’eclissi, di un silenzio inaspettato, ed è uno stato di rimpianto, un lutto pervicace, forse anche definitivo ma proprio e solo in quanto lutto. E cosí in Bergman (si veda Luci di inverno, 1962, ad esempio) quello è il nodo alla gola da cui muove la rappresentazione dell’u­mano. In Haneke l’assenza di dio è invece la sua totale insussistenza nell’uomo e nelle sue ragioni esistenziali: dio non c’è piú perché era un inganno, una costruzione artificiosa, un prodotto dell’uomo e dei suoi terrori... Come se Orfeo, dopo la discesa agli inferi per riavere l’amata sposa, nell’atto di girarsi a controllare il buon esito della propria impresa, perdesse non già Euridice testé risorta, ma la semplice e pura speranza di averla (anche solo per un attimo) fatta risorgere. Orfeo si volge, e non vede nulla... ciò che ha perduto è soltanto un’illusione.
Quel che muore in Amour non è dio, ma l’uomo. E l’uomo muore veramente solo allorché dio non è mai esistito. Nessun sentimentalismo: si tratta semmai di affondare con la freddezza di un carnefice la lama dello sguardo (il cinema è sopra tutto sguardo) ossia della coscienza (il linguaggio artistico genera coscienza) nella dimensione atroce del prodursi della morte come dissipazione definitiva; e per farlo – con Amour – si deve mostrare il disfacimento della vita nel suo essere ciò che la morte determina e alla morte prelude, ciò che la rende quindi rappresentabile. Alla crudeltà dei “fatti” occorre rispondere con la crudeltà del linguaggio.
Haneke allestisce la diegesi (di Amour, de la mort) mimando in parte Tolstòj, ovvero aprendo il film sul post-factum della storia, poiché pone in incipit Anne già defunta, e dunque il suo corpo ritrovato da un’irruzione “sociale” e “legale” dei vigili del fuoco, nell’appartamento sigillato e deserto che ne è divenuto la bara; e mette in evidenza – proprio all’inizio della pellicola, quasi come un risvolto di copertina – la ieratica politezza del cadavere, che è circondato da petali di margherita sul letto-catafalco, già in avanzato stato di decomposizione. Salvo poi non recuperare tutto l’avanzamento temporale e pertanto non chiudere affatto con l’evento che il film aveva inaugurato. A parte ciò, il movimento a ritroso imposto dallo schema prolettico funziona esattamente come nella Morte di Ivàn Ilíč: subito dopo la prolessi (la morte è avvenuta, essa è qui tra noi fin da subito, ed è il tema principale: «Signori, – disse a un tratto, – Ivàn Ilíč è morto»), uno stacco cospicuo sposta indietro di qualche mese il fuoco del testo, andando a districare il bandolo giusto di quella complicata matassa che è l’esistenza di due persone nella loro vita di anziani coniugi e complici. Nell’ellissi, il titolo del film si impone su fondo nero: «Amour». Poi le immagini descrivono l’evento in cui si manifestano i primi sintomi della malattia di Anne, seguendo il ritorno dei coniugi a casa dopo un concerto di musica a teatro (Schubert, Impromptus D 899, primo movimento, do minore) e la loro colazione del mattino. Ma ecco che, immediatamente, Haneke mette in campo tutta la potenza di una scrittura scenica d’acciaio, e lo fa adeguandosi all’arduo compito di una ricostruzione dei fatti: i corpi vivi in autobus, tra altri corpi vivi... a teatro e poi in autobus, le stanze dell’appar­tamento vivificate dai corpi, e in esse il campo e il fuori campo dei corpi, di Anne e di Georges, a seconda dei loro movimenti... Tutto è inquadrato da una cinpresa immobile, severa, che nulla concede al simbolico, che tutto oggettivizza nel suo obbiettivo fermo, prospettico, gelido e ortogonale come lo sguardo di Piero della Francesca... Il tono è lento, pacato, senza drammi, senza colpi di scena, senza vedute artificiose, senza “movimenti di macchina” implicativi, affinché l’algida bellezza di un’immagine spietata possa narrare la vita, ossia la vita nel suo progresso verso la morte, oltre gli sbalzi, oltre le emozioni, oltre i sussulti sentimentali: perché cosí è la vita nella sua fase terminale, e cosí sarà il film fino alla fine. Riclassicizzare la lingua del cinematografo, contro ogni tentazione di produrre scorciatoie psicologiche con mezzi ad effetto garantito, consente dunque di mettere lo spettatore dinanzi ai fatti. Alla crudeltà dei fatti – come già dicevo – Haneke risponde con la crudeltà del linguaggio. Novello Bresson, egli agisce come Bresson ne L’argent (1983): questa è la realtà, e questo è il cinema che può descriverla.
Anche dal punto di vista della sintassi diegetica, nelle sue grandi e piccole articolazioni, la scelta neoclassica prende il sopravvento su qualsiasi altra lusinga: le ellissi separano tra di loro una serie di brani narrativamente conchiusi, dove i piani lunghi sono montati in modo ritmicamente ineccepibile (e però sostanzialmente canonico) per dar vita a “scene omogenee” che rispondono, ciascuna, a uno stadio differente della malattia di Anne, la quale viene in tal modo presa per mano dalla cinepresa, nel suo tragitto odioso, e amorevolmente accompagnata fino alla distruzione della donna. E qui si innesta il potente teorema linguistico che sostanzia l’opera e la rende immensa: lo sguardo della cinepresa assume lo sguardo di Georges come chiave di comprensione dell’acca­dere – l’unica possibile. «Amore» ha per titolo quello sguardo, perché solo il coinvolgimento esistenziale ed affettivo può giust’appunto cogliere il senso della morte che lentamente si reifica... Senza alcuna esplicita “soggettiva”, le immagini ci mostrano le immagini prodotte dalla mente di un uomo coinvolto nel disfacimento di una vita altrui che è la vita della donna che ama, ed altresí, proprio per ciò, è il disfacimento della vita propria. Qui è questione di ritmo, di polso, di pulsazioni cardiache, di potenza dello sguardo dentro il ritmo... qui è la capacità indicibile (a parole) di un cinema che si pone come mezzo d’espressione non sussidiario, non parassita di altri linguaggi.
La scelta classicista (neo-bressoniana) non inibisce al film invenzioni di fascino e di stupore: al minuto 31.46 si apre una ripresa al buio, a camera fissa, sul volto di Georges in dormiveglia, senza musica, senza suoni, una sorta di meditazione notturna, pazzesca e inaccettabile in altri contesti, qui perfettamente efficace, perché è il film, nella sua costruzione geometrica e nel suo implacabile rigore, a renderla tale. I pochi dialoghi tra Anne e Georges, sempre in bilico tra il banale (il dire di circostanza) e il significativo assoluto (il logos al suo livello piú alto) hanno in sé il veleno della parola tragica, mentre la camera fissa accoglie il campo-controcampo e i primi piani dei volti devastati dalla vecchiaia come doni finalmente pieni di senso: come nello stupendo indugio che precede la dichiarazione di Anne sull’assurdità della continuazione della vita, al minuto 43. Ma, ancor piú sorprendenti, ecco altre invenzioni: una serie di “nature morte” della casa, con stanze e oggetti inquadrati a lungo in assenza di accadimenti, sempre in veduta ad altezza d’uomo, come per sospensioni descrittive che finiscono per attribuire al testo filmico facoltà che la semiologia gli nega, in linea di principio: la pausa, appunto, tipica del romanzo ma inattuabile al cinema (dicunt); addirittura la visione di una serie di dipinti romantici e post-romantici di paesaggio, a tutto quadro, tra il minuto 91 e il minuto 92, irrelata alla narrazione e perfino al contesto scenico (quei dipinti non si vedono, altrove, sui muri dell’appartamento); i lunghissimi arresti sui volti in silenzio, che colgono forse solo le rughe espressive di misteriche sindoni (e la grandezza di Haneke si nutre qui anche della grandezza dei suoi attori, Emmanuelle Riva e Jean-Louis Trintignant, entrambi giunti, ben oltre il culmine della loro carriera, alla loro prova piú persuasiva); e infine lo strazio infinito dell’album di fotografie, sfogliato da Anne e ripreso in diretta, ancora una volta a tutto campo, dalla camera fissa che si incarna nell’occhio stesso di uno spettatore invasivo, cosí invasivo da poter riconoscere, come per un ulteriore tributo alla costruzione di senso e d’angoscia, le immagini private dei due attori da giovani.
Lo sguardo del film, la sua macchina da presa, scava incessantemente il terreno dell’insignificanza, per cercarvi forse il tesoro di un lampo essenziale, e morale, qualcosa che potrebbe allignare anche nella banalità delle prese di posizione dei giovani amici e figli di Georges e Anne, ogni tanto in campo per portare aria fresca dall’e­ster­no e tuttavia capaci solo di arrecare dan­nazione alla dannazione. E alla fine è l’amore che dà la morte, è Georges che pone termine all’agonia di Anne, soffocandone sotto un cuscino a lungo premuto il rimasuglio inutile di alito vitale, il lacerto residuale di quella cosa che ancora dovrebbe essere vita e già da tempo non lo è piú. La morte metoni­mizza tutto, e infine metonimicamente descrive se stessa. Quel che Georges uccide non è piú Anne, ma solo quel respiro, quel rantolo penoso e insopportabile, quel filo assurdo d’aria che ancora si ostina ad esalare dal corpo di lei. Quel che Georges uccide è dunque la morte. La conclusione non può esserci e non c’è. Come in molti altri film di Haneke, il racconto non finisce, semplicemente si interrompe. Georges ha cosparso di petali il cadavere della moglie (lo vediamo recidere una a una le teste di molteplici margherite) e, dopo aver sigillato con nastro da pacchi le porte della stanza funebre, cattura con un panno un piccione che si è intrufolato in casa, quindi scrive una lunga lettera, nella quale narra tra l’altro di aver rimesso in libertà l’animale... Poi ode (o crede di udire) Anne che armeggia con i piatti in cucina, e con lei esce (o crede di uscire) di casa. Crede, non crede... esce, non esce, poco importa: le immagini che vediamo sono le immagini prodotte dalla psiche di Georges, e dunque “accade” esattamente quel che accade per lui. Di certo abbandona l’apparta­men­to, o almeno cosí si direbbe... Entra in casa (e nel campo visivo) la figlia dei due, Eva, la quale, dopo aver passeggiato tra le stanze vuote, siede sulla poltrona del salone, dove – forse spiandola con gli occhi Georges – la vediamo di profilo nel quadro della porta aperta.
Poi piú nulla.



Riferimenti bibliografici:
• Georges Bataille, L’erotismo, ed. it. Studio Editoriale, Milano 1997.
• Jacques Derrida, Il fattore della verità, ed. it. Adelphi, Milano 1978.
• Giovanni di Patmos (attribuito), Apocalisse (Apokálypsis), ed. it. a cura di Cesare Angelini, Einaudi, Torino 1972.
• John Keats, Ode sopra un urna greca (Ode on a Grecian Urn), in Poesie, trad. it. di Augusta Grosso-Guidetti, Utet, Torino 1967.
• Jacques Lacan, Il seminario su “La lettera rubata”, in La cosa freudiana e altri scritti, ed. it. Einaudi, Torino 1972.
• Edgar Allan Poe, La lettera rubata (The Purloined Letter), in I racconti, trad. it. di Giuseppe Sardelli, Feltrinelli, Milano 1971.
• Lev Tolstòj, Morte di Ivàn Ilíč (Smert’ Ivana Il’iča), in Quattro romanzi, trad. it. di Agostino Villa, Einaudi, Torino 1955.

[pubblicato in “Rifrazioni”, n. 12, Bologna, maggio 2013]

sabato 2 febbraio 2013

BRESSON – «Une femme douce» (1969)
Prima sequenza: il “volo a velo”...



Quadro fermo sul dettaglio di una porta a vetri. Al centro geometrico: la maniglia di ottone che permette di aprire. Nell’attesa, passi risuonano nella stanza, e una mano giunge a dare un senso alla maniglia. Lo sguardo subisce, di spalle, l’ingresso della donna, invece di cercarla frontalmente per ruotare con lei nello spazio. Da sinistra: il braccio della donna, una mano che preme verso il basso: la prima spaccatura della visione. Immobile, persistente. La porta viene aperta, la donna indugia, vi transita e poi si blocca. Il quadro stretto (camera fissa) è ora diviso in due dalla schiena massiccia: la testa è fuori campo in alto, le gambe fuoricampo in basso. La mole dell’abito scuro, sbarrato dalla croce obliqua delle bretelle, sembra notificare una preclusione. Invece la domestica riprende il movimento ed esce dal campo verso destra, restaurando la visibilità totale. Stacco. Il quadro, avanzato in ripresa di qualche metro, mostra ora il balcone, dove un dondolo oscilla a vuoto mentre un tavolo sbanda e poi cade, senza una ragione, crollando e facendo crollare un vaso di fiori. Il rumore incrementa il disagio dell’ellissi: omissione d’atto d’ufficio, omissione dell’accaduto. Quadro fisso e rumore protagonista: rumore del vaso, del tavolo, e poi – a suggerire l’idea disastrosa – la pugnalata feroce di una frenata d’auto sulla strada (invisibile)... Al contempo la donna rientra in campo, ancora da sinistra, e di nuovo si ferma, interdetta quanto lo spettatore. Altro stacco. Veduta esterna, con il balcone in alto. Soave, morbido, indicibilmente persuasivo, il volo-a-vela di uno scialle bianco che fluttua in aria contro il cielo, disegnando un aprile crudele quanto un suicidio, e lentamente perde quota. Il quadro è questa volta mobile, dacché, vacillando, asseconda il candore per mantenerlo al centro. E altre brucianti frenate sulla strada stridono in ossimoro, duramente, sfregando contro quest’immagine, tentando di sfregiarla con il suono, ma senza riuscirvi. Ultimo stacco. Due automobili ingombrano il quadro, ora orizzontale, e abbordano il marciapiede dopo le frenate. Sono inquadrate una dietro l’altra: al bianco dell’una si aggiunge il rosso dell’altra. Come a preannunciare un schiaffo bicromo sui nostri occhi esterrefatti, ossia quando la cinepresa, ruotando verso destra e seguendo le gambe (nuova sineddoche) degli automobilisti, raggiunge il corpo di una donna prona sul selciato: il bianco della camicetta, il rosso del rivolo di sangue. Prospettiva mantegnesca, ma due volte a rovescio: il corpo è veduto dal lato della testa, ed è prono invece che supino. Gli apostoli sono ritti in piedi, ma non se ne vedono che i piedi. Ugualmente a rovescio il tutto si spiega: la stanza, la domestica, il balcone, il tavolo che oscilla, la sciarpa che cade, le frenate... Una sciarada della tragedia, costruita su immagini parziali, frammentarie, spietatamente allusive e mai prensili, sui quadri di una non-rappresentazione... e su un tempo che è sempre in ritardo, su un affannoso inseguimento dell’accadere che vale come un fallito tentativo di salvataggio.

[in “Rifrazioni”, n. 7, 2011]

giovedì 24 gennaio 2013

EROS E THANATOS IN MIZOGUCHI



Mizoguchi Kenji – Eros è Thanatos


Il classicismo cinematografico giapponese trova in Kenji Mizoguchi il suo esponente forse piú rappresentativo... sempre che per classicismo si voglia intendere una situazione di piena maturità (congiunta a perfezione estetica) entro le coordinate di uno storicamente conseguito valore di esemplarità assoluta – il che è quanto la nozione, in fin dei conti, prevede e impone. Ciò significa che le opere di Mizoguchi sondano la via di un paradigma linguistico che, in sede cinematografica, si offre come squisitamente nipponico, un modello al quale, a controprova, per molti anni non potrà e non vorrà sottrarsi neppure il grande Akira Kurosawa. Ed esse lo fanno sia affidandosi a “soggetti” totalmente affogati nella dimensione favolosa e tetra del Giappone feudale premoderno (dal decimo al diciasettesimo secolo), sia ricercando per quei soggetti cosí faticosamente tragici una peculiarità espressiva le cui atmosfere trasudano da ogni immagine e da ogni sequenza dei films di Mizoguchi, ovvero una sorta di “panneggio formale” complesso e ardito, a pieghe multiple, capace di restituirne il climax ineffabile (la proiezione immaginosa a ritroso) prima ancora che la presunta verità oggettiva: mai riducendo a storia – infatti – ciò che alla storia non si acconcia poiché antistorico per condizione intima.
Nato nel 1898, Mizoguchi ha iniziato a produrre opere cinematografiche già poco piú che ventenne, ed esattamente dal 1922, dapprima dedicandosi ad adattamenti di testi narrativi letterari, poi – dopo l’avvento del sonoro – a films di carattere realistico-biografico. Insieme a Yasujiro Ozu e Mikio Naruse, per tutti gli anni Trenta e Quaranta ha tenuto ben saldo tra le mani il monopolio della qualità nel cinema della sua terra, benché sia il caso di specificare che i capolavori piú persuasivi sono in verità da collocarsi negli ultimi dieci anni della sua vita, cioè in quel periodo davvero “aureo” che va dalla fine della catastrofe bellica alla morte del regista, distrutto dalla leucemia il 24 agosto 1956. Il suo ultimo film, La strada della vergogna, pur di apprezzabilissima fattura, certamente risente della fase terminale della malattia, ma negli anni immediatamente precedenti Mizoguchi aveva messo in fila una serie di lavori di straordinaria potenza linguistica, come Vita di O-Haru, donna galante (1952), I racconti della luna pallida di agosto (1953), L’intendente Sansho (1954), Gli amanti crocifissi (1954) e L’imperatrice Yang Kwei-fei (1955).
In tali testi – i quali, con i pressoché coevi Tarda primavera (1949) e Viaggio a Tokio (1953) di Ozu, hanno contribuito in maniera determinante alla “scoperta” del cinema giapponese in Occidente – troviamo appunto irrobustita al massimo grado, e quasi portata all’incandescenza, la temperie delirante dell’opera di Mizoguchi, che si intrica intorno al fulcro tematico di uno sprofondamento nell’irrazionalità “scatenata” del medioevo nipponico e che in parte vien fatta propria anche dai primi films del giovane Kurosawa, da Rashomon (1950) a I sette samurai (1957). La condizione letteralmente disumana a cui è piegato l’intero universo femminile, il malinteso e quasi paranoide senso dell’onore nel contesto di un classismo spietato, banalmente orrendo, sempre declinante nell’idolatrico culto del potere e del denaro, ossia nell’annichilimento di ogni plausibilità degli affetti e nel continuo precipitare del sesso nella morte, sono la marca specifica di interpretazione che Mizoguchi elabora intorno al proprio atroce abisso arcaico: come una chiave di accesso al rapporto altrimenti impoetico che in sede di linguaggio cinematografico viene a istituirsi, per qualsiasi soggetto, tra soggetto e sua rappresentazione.

L’originalità dell’arte di Mizoguchi si fonda su una rilettura del nesso di eros e thanatos nel quadro della violenza posta in atto dal potere in una società barbaramente feudale com’è quella del Giappone antico. Il sesso vi precipita di continuo nella morte in quanto le motivazioni di ogni atto individuale, entro tali coordinate culturali, rendono assurda la vita stessa e la deprimono in non-vita. E andrò poi a spiegare come una simile impostazione ideologica, che alligna in ogni film come un traurig motiv unificante e imprescindibile, si ripercuota sullo “stile” del regista sovradeterminandolo e rendendo – appunto – esclusive e inconfondibili le scelte estetiche della sua produzione terminale. Ciò che tiene insieme le opere di tale fase è una sorta di idee fixe, una costante tematica la quale, ben oltre la varietà delle situazioni letteralmente e in superficie tematizzate, e dunque ben al di là (o al di qua) delle storie narrate, è sempre presente e sempre incombente sul significato ultimo che i diversi films propongono, da cui dipendono e a cui si assecondano, in esso e da esso (soltanto) trovando il loro scopo e traendo la loro forza. Il “significato” si crea, insomma, in tali opere, quasi per condensazione di pensieri (e di esempi) che la costante tematica in oggetto coagula attorno a sé e al tempo stesso “illustra”, facendosi carico di risolvere simbolicamente – con la propria sempre rinnovata epifania, con il proprio ergersi a conclusione finale inevitabile – ogni accusa e ogni denuncia circa l’insostenibilità della vita in generale, circa la tragedia delle vite vissute in particolare, nel luogo tragico dell’arcaismo dei secoli feudali.
Va da sé che tale costante, tale idee fixe, è proprio e precisamente la ricaduta letale di ogni tentativo di amore, la morte come destino che segue e perseguita ogni slancio erotico che non sia stato preliminarmente sottomesso a una regolamentazione precauzionale, sterilizzante e dunque ugualmente mortifera, a una mortificazione, pertanto, preventiva e castrante, entro regole sociali di casta (e di famiglia) che non sembrano avere altro senso se non quello di impugnare le categorie dell’onore e dell’obbedienza come armi capaci di inibire ogni libertà erotica, ovvero, evidentemente, di scongiurare la pericolosità devastante – per la conservazione ad aeternum del potere – dell’amore in quanto tale.
Forse in maniera del tutto indipendente dall’archetipo europeo del nesso amore-morte (archetipo greco, mitologico, melodrammatico, poi infine anche psicanalitico) Mizoguchi arriva a una propria deliberata e matura elaborazione del concetto. Ma vi arriva, con ogni probabilità, appunto perché libero dall’archetipo e dalle sue implicazioni dialettiche... Voglio dire che il nesso in lui è il risultato di una riflessione e di un’analisi critica, ed è altresí il prodotto di una scelta di metodo interpretativo effettuata: sicché, nella sua visione, nulla mette al riparo, nulla giustifica, nulla attenua, nulla fornisce alibi. La punizione dell’amore con la morte (Gli amanti crocifissi) o la sottrazione dell’amore da parte della morte (Vita di O-Haru), l’abbraccio mortifero o il coitus morti interruptus, sono qualcosa che distrugge l’armonia della vita, niente affatto ribadendola.
Mi spiego meglio, o almeno ci provo. In Occidente l’archetipo (lo chiamo cosí per comodità terminologica, quindi senza mettere in campo o dover difendere alcuna professione di fede junghiana) agisce nel “bene” e nel “male”. Il suo fondamento greco lo sottrae a qual si voglia accezione sbilanciata, a qualunque monopolio del negativo. Del resto, esso non fa che ridurre la morte a evento funzionale alla vita e alla sua riproduzione incessante e necessaria. Cosí Narciso si riscatta ed è glorificato in un fiore (rinasce) attraverso la morte che la sua maldiretta (eterodiretta?, omodiretta?) sessualità gli ha procurato; cosí Isotta muore e trova nella morte la propria estasi, il piacere sessuale piú sublime, una felicità definitiva (non diversamente dalla Santa Teresa della cappella del Bernini); cosí si ricongiungono nella morte, in un amplesso eterno, Paolo e Francesca, «quali colombe dal disïo chiamate / con l’ali alzate e ferme al dolce nido», in un inferno tutto sommato tollerabile se Francesca, rimarcando l’unificazione, può dire che «amor condusse noi ad una morte». Cosí, infine, per Georges Bataille «l’erotismo è conferma della vita fin dentro la morte».
Va rimarcato: vita, e non morte, fin dentro la morte eros produce e procura! Laddove in Mizoguchi, al contrario, thanatos perseguita eros come un nemico, come una punizione, come una nemesi preordinata e invincibile, niente affatto necessaria e tuttavia puntualmente incombente come per un meccanismo di causa-effetto, e altresí per un’incidenza solo deducibile a-posteriori: cosí accade perché cosí è (senza dover essere) alle latitudini (anti)storico-culturali del Sol Cadente medievale.
Sarà bene qui aprire una parentesi. Parrebbe di capire (ammesso di poterci capire qualcosa guardando il tutto, ossia entrambi i “poli”, dall’Europa) che la valenza archetipica, psico-antropologicamente motivabile, del nesso eros-thanatos, presso la cultura, che muovendo dall’agorà greca, si è sviluppata nel cristianesimo (cultura della morte di dio stesso, a ben guardare), sia esattamente quanto pone al riparo l’Occidente dalla declinazione totalmente catastrofica che agisce in Mizoguchi. Non è facile comprendere – infatti – la dinamica scellerata che nei films del giapponese tiene le redini del gioco e determina la tragedia, e sicuramente non è facile proprio perché entro le nostre coordinate culturali quel nesso sussiste in una dimensione psico-antropologia profonda e ha una certa valenza: caduta sí, ma anche riscatto. Per la cultura cui apparteniamo, l’erotismo – negazione dell’atto sessuale riproduttivo – ribadisce la continuità vitale esattamente là dove essa, se si presta fede alle apparenze, sembrerebbe abolita: cosí è la morte, in quanto implicita trasgressione del vivente e del perpetuo tramando, in quanto pura utopia nel seno di una natura in incessante rigenerazione, è la morte come atto simbolico e assoluto, che la pulsione erotica cerca di raggiungere, attraendo chi ne è posseduto nel suo luogo misterioso, in un luogo prossimo a quello che la morte, come verità ultima ma inesperibile, presidia: luogo della perdita dei sensi e della caduta del senso, del cedimento e della vertigine, dell’esperienza panica (dionisiaca) come fuoriuscita dall’io, luogo sempre adombrato e quasi allegorizzato dall’emozione irrapresentabile dell’orgasmo. Per dirla con la stupefacente “rivelazione” del Tasso, nel luogo del compianto forse piú alto che la scrittura italiana abbia mai concepito:
    
Non morí già, ché sue virtuti accolse
       tutte in quel punto e in guardia al cor le mise;
       ...
       Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse,
       colei di gioia trasmutossi, e rise:
       e in atto di morir lieta e vivace
       dir parea: “S’apre il ciel; io vado in pace”.

Estasi, orgasmo, morte. La rinascita («a dar si volse vita con l’acqua») è tutta compresa nel cerchio magico dell’estinzione e della rinuncia. Il culmine del possesso carnale, o meglio la spirale ascendente dell’erotismo, è all’origine psicologica di ogni mito di redenzione, di ogni esperienza estatica: ossia di ogni proiezione di immediatamente percepiti e indissolubili legami tra la manifestazione massima della vita e il suo contrario: l’amore, la morte.
Ma questa, appunto, è cultura (sensibilità psichicologica) europea, che poco ha da spartire con il Giappone di Mizoguchi. Quando gli amanti vengono crocifissi, nel racconto loro dedicato, e vengono crocifissi per il solo fatto di essere amanti, non v’ha ombra di redenzione che aureoli i loro corpi legati insieme sulla carretta del supplizio, e non c’è estasi che tenga in quei paraggi. La morte si dà sí come effetto dell’amore, ma esattamente ed esclusivamente in una chiave di destino perverso, e umanamente (per volontà tutta umana, per agghiacciante dovere sociale) pervertito. Qui la morte rammenta piuttosto – volendo ricorrere a un luogo topico del nostro immaginario poetico – il pozzo di sangue in cui Lady Macbeth tuffa mani che niente e nessuno potrà mai mondare. Si tratta insomma di quella morte che contrasta e abbatte la vita, negandola, annientandola. Non c’è riscatto, non c’è motivo, non c’è schema – se non falso e opprimente – che possa legittimare il rapporto: eros produce distruzione perché a mezzo della distruzione della vita viene grottescamente punito, e il “nesso” è infatti da Mizoguchi interpretato come un increscioso esito della stupidità umana.
In Vita di O-Haru, donna galante (da un romanzo seicentesco di Ihara Saikaku) assistiamo alla disperante continua capitolazione della protagonista, che di vicissitudine in vicissitudine è sempre piú umiliata nella propria condizione di donna e nella propria sensualità femminile, la quale viene descritta – in sé e per sé – come una sorta di colpa naturale e ciò nonostante (o perfino proprio per questo) drasticamente irredimibile. Quello che a mio avviso è il capolavoro piú intenso di Mizoguchi muove da una prolessi che coglie in incipit la matura età di O-Haru (Kinuyo Tanaka), ovvero la sua estrema decadenza: quasi come una derelizione e uno schianto prefigurato nella morte che incombe, in quella morte decretata, cioè, per la donna non piú giovane dalla società dell’epoca. Una lunga sortita analettica (in sostanza il racconto primario) consente di ripercorrere l’esistenza pregressa della cinquantenne, che ebbe il torto – proprio al momento della consacrazione come cortigiana imperiale – di innamorarsi di un maschio di bassa condizione sociale (Toshiro Mifune) e la pena di veder subito applicata, a eterna vergogna dei due amanti, la nemesi inesorabile: l’uomo viene decapitato e la donna è esiliata da Kyoto e declassata al rango di puttana. Il via alla rammemorazione che il testo si accinge a tematizzare è dato dalla pressoché mistica visione subita da O-Haru in un tempio, dinnanzi a una statua buddista, nei cui tratti ella crede di scorgere il volto di Katsunosuke, l’innamorato ucciso, e di cogliere – pertanto – l’intero tragico senso della propria esistenza. Cosí quel che si era poco prima rifiutata di narrare alle compagne di meretricio («Come ti sei potuta ridurre cosí? Ho sentito che lavoravi alla Corte da giovane... come sei arrivata cosí in basso?» – «Non chiedetemi niente del passato!») O-Haru prende a viverlo nel ricordo... e con lei lo ripercorre, come un inesauribile tragitto di sciagura, anche lo spettatore. Data la propria origine aristocratica e la fama di donna dai facili costumi, O-Haru verrà chiamata da un feudatario potentissimo a partorire per lui un figlio che poco dopo le sarà sottratto, per essere cosí espropriata della maternità e subito ricacciata nella melma. L’arroganza della ferocia maschile non cesserà di perseguitarla nemmeno quando la donna tenterà di farsi monaca, poiché sarà sufficiente un attentato sessuale da parte di un profittatore a ripiombarla nell’infamia e a riadditarla al pubblico ludibrio.
Occorre però mettere innanzi, a questo punto, un’osservazione che a me pare assai importante. Il rocambolesco susseguirsi di vicende sciagurate, di cui O-Haru è protagonista e vittima, non sembra poter scalfire in nessun modo la dura, misurata e quasi glaciale neutralità formale con cui Mizoguchi tali vicende narra in immagini e a parole. Una specie di impassibilità dello sguardo, una grammatica della visione scandita da un ritmo estetico di pura contemplazione, una oggettivazione estrema – pur nell’afflato pressoché onirico del presupposto rammemorativo – sottrae al film la partecipazione emotiva dello spettatore (dato che gli nega di fatto l’immedesimazione dell’io-narrante), mettendolo in condizione di valutare tutto con un distacco che nel cinema occidentale – fatta forse eccezione per pochissimi autori, Robert Bresson ad esempio e solo in parte – sarebbe pressoché inconcepibile. E qui sta forse la marca piú autenticamente originale di Mizoguchi, nonché la sua grandezza.
A livello prettamente tecnico-linguistico: l’alternarsi in tutte le scene di piani lunghi e brevi secondo un preciso impianto ritmico, la scelta di una distanza focale media per tutti i personaggi e per tutte le situazioni, con campi mai ravvicinati e conseguenti figure ogni volta inquadrate per intero, i movimenti di macchina lenti e concepiti “a seguire” gli attori nei loro brevi spostamenti trasversali o di fuga, la quasi assoluta assenza di primi piani frontali dei volti a favore di riprese di profilo, e sovente addirittura di spalle, sono tutti elementi di rappresentazione scelti come altrettanti indispensabili mezzi per la piena e adeguata funzionalità linguistica del film: una funzionalità linguistica che per Mizoguchi è garanzia di efficace produzione di contenuto critico da parte del materiale narrativo, da parte della storia allestita in spettacolo. Uno stile calibratissimo, dunque, teso a realizzare un assoluto rigore della rappresentazione, la quale viene concepita come semplice esposizione di fatti e di ripercussioni di fatti, giacché (come già sottolineato) non si tratta per nulla di contingenze soggettive, di personali emozioni e umane reazioni, di dati da descrivere entro il quadro di una casistica particolare, ma piuttosto di oggettive istanze del potere e della cultura, iperdominanti e ipostatiche, sublimate – quasi – nella loro ieratica legalità, in altre parole di inevitabili e già da sempre prevedibili meccanismi di un accadere che non potrebbe essere diverso da ciò che è, che non potrebbe manifestarsi diversamente da come si manifesta, entro quei presupposti (anti)storici dogmatici e violenti.
«Spero che arrivi un tempo in cui ci si potrà amare senza preoccuparsi della classe sociale», sono le ultime parole di Katsunosuke, pochi secondi prima che la sua testa sia mozzata; ma il colpo di spada che la recide è lí a dimostrare che quel tempo non potrà mai giungere, è lí a sancire la stasi pantocratica di una società che non conosce il divenire e il mutamento. E le parole di Katsunosuke, da quel colpo, sono messe a tacere per sempre.
L’unico concetto disponibile alla nostra psicologia che possa indicare il modo in cui gli avvenimenti accadono in Vita di O-Haru è dunque – alla fine – quello di fato, nell’accezione mitica del termine. Ma vi è ancora una differenza, una difficoltà. Nei greci antichi, nelle narrazioni omeriche, il fato è sovrumano, si muove secondo logiche impersonali perché correlate al divino, insediate in un altrove della volontà che all’uomo non compete né comprendere né mutare; mentre in Mizoguchi sono gli uomini, la vita sociale degli esseri umani (una vita che sembrerebbe addirittura da loro scelta) a determinare la stessa ineluttabile predestinazione dell’accadere... E allora qui c’è qualcosa che per noi non torna. Nulla ci è detto delle emozioni dei personaggi del film, nessuna psicologia si applica alla recitazione e alle tecniche di ripresa, che non concedono nemmeno la piena visione dei volti, degli sguardi, delle espressioni facciali. Nella narrativa cinematografica occidentale, classica e no, lo spettatore sa sempre (è di continuo chiamato a sapere) quel che i protagonisti della storia provano sentimentalmente, al di là di quello che fanno o dicono. In Mizoguchi, al contrario, apprendiamo dalle sole parole e dai soli fatti tutto quel che c’è da sapere (invero pochissimo) circa le emozioni e i sentimenti di uomini e donne. La psicologia è bandita giacché, con ogni evidenza, nulla essa conta ai sensi dei destini e delle tragedie che incombono, nella disumanazione totale di cui gli esseri umani sono vittime! Si ama per coazione disperata, si muore per conseguenza predestinata. Eros è thanatos perché né erosthanatos – nella classica ricostruzione che Mizoguchi propone della non-vita nipponica arcaica – avranno mai il benché minimo valore.

 [“Rifrazioni” n. 11, Bologna, 2013]

«IL GRIDO» DI ANTONIONI


Psicovisione del vuoto: il Grido del paesaggio


Ho ancora viva la memoria di quando, ragazzo poco piú che tredicenne, mi trovai per caso a passare con mio padre in una zona di Ferrara che amavo già allora e che ho sempre amato in sèguito, sbalorditiva per quella sua ovvia e facilmente interiorizzabile tristezza, bella come la malinconia, paese e città in un sol tempo, mesta e terribilmente nobile, arrogante nella sua delicatezza: con case basse, di epoca indefinita, antiche e semplici, uniformi, piú che sobrie... pressoché sussurrate dal tempo come in un alito di luce scialba: silenti e come vaghe nella prospettiva di strade difettose e lievemente concave al centro, dove al piede e all’occhio si oppongono ispidi acciottolati onnipresenti. Non era la bella Ferrara medievale in senso proprio, non la città dei monumenti dico, ma un’immagine piú dimessa (e per me piú vera) della magnificenza degli estensi: era quell’estremo lembo della zona vecchia che sta tra il corso della Ghiara – cosí detto perché un ramo del Po vi fu coperto da Biagio Rossetti all’alba del Rinascimento – e la via Scandiana, al temine della quale, negli stessi anni, i pittori di Borso si arrabattavano a suscitare Mesi sulle vaste pareti di Schifanoia.
E non avrei il ricordo di quel transito mio specifico – io, che in quella zona ci ritorno ogni qual volta approdo alla città dell’infanzia e del rimpianto, alla mia Ferrara odiata con amore, come si possono cordialmente odiare solo i rimorsi – se mio padre non mi avesse indicato, quel giorno, una casa in particolare – non so piú quale – come la casa di Michelangelo Antonioni... e se non avesse aggiunto, in tono tra la deferenza e il compiacimento, che si trattava del piú grande autore cinematografico nostro paesano, ovvero di un ferrarese tra i piú grandi in assoluto. Osservo qui – e anche questo partecipa ai rimpianti – che alla fine degli anni Sessanta il medico di campagna, mezzo contadino e mezzo chirurgo, già conosceva le opere del regista piú difficile e introverso, del piú complicato e anche contestato tra i creatori del cinema italiano! Io no, ovviamente, ma quel nome mi è rimasto dentro come un segno di fuoco nell’immaginario, come un mito resistente, fino alle successive visioni di Blow Up e di Professione: reporter, nella fase d’entusiasmo dei miei anni liceali e poi universitari, e quindi fino alla passione, susseguente, del recupero delle opere piú classiche, quelle cioè che dovevano aver prodotto l’alta opinione nella mente di mio padre, tra i Cinquanta e i Sessanta: Cronaca di un amore, I vinti, Il grido, L’avventura...
Quel che vorrei azzardare è che vi sia un rapporto, anche al di fuori della suggestione di cui son vittima, tra il paese che Antonioni ha sempre vissuto come irrinunciabilmente suo – ovvero anche quando soggiornava a Roma e a Londra – e le atmosfere ansiose, i cieli pallidi, gli strazi urbani, i campi deserti e sconfortanti, le rovine quotidiane, opprimenti e tormentate, che fanno da sustrato psicovisivo alle indicibili sofferenze esistenziali dei suoi personaggi. Tali “visioni”, in parte uscenti dal soggetto appositamente filmato, ossia da quei paesaggi, in parte create a mezzo di sapienti tecniche di ripresa, ossia capaci di rendere tali quei luoghi, concorrono in modo essenziale a determinare la forza mostruosa del cinema di Antonioni, ovvero a costituirne l’efficacia in relazione a ciò che egli vuole narrare. In base a una “poetica” condivisa con un’area importante della poesia del Novecento, da Thomas Stearns Eliot in poi, le immagini della desolazione sono infatti in Michelangelo correlativi oggettivi di ciò che altrimenti non si potrebbe dire affatto, a meno di dirlo in maniera letterale, banale e didattica, del tutto inefficace: la profonda disperazione che è nella vita dell’uomo (occidentale) contemporaneo, la sciagura della sua deviazione tecnicistica e consumistica, la sua perdita di spiritualità e di autenticità nel rapporto sociale e intersoggettivo. Insomma quel che, a fianco di Antonioni, anche se con mezzi assai diversi, andava dicendo nella stessa traiettoria storica – con altrettale e anche piú cupo sconforto – Pier Paolo Pasolini.
Che in Antonioni, come in molti altri registi degni del titolo, si contempli l’urgenza di spremere dal quadro visivo (qui inteso come sfondo, e dunque completamento dell’azione scenica) tutto ciò che esso può conseguire nella definizione di un senso morale, di una persuasione indotta, tale da riqualificare gli atti, i gesti, gli sguardi, le parole e ancor più i silenzi, dei personaggi, come qualcosa che ne determina – non per convenzione simbolica: per convergenza e per correlazione oggettiva, e pertanto, semmai, nel flusso potente di una produzione allegorica – la temperie psichica, è dato ovvio e che non metterebbe conto di sottolineare, in linea di massima... Ma in lui, diversamente che in altri – e in ciò è il punctum – non è tanto la ricerca dell’eccezione, dell’insolita visuale, a fare testo, quanto piuttosto l’adesione a una norma paesistica già data, ritrovata senza troppo sforzo nella realtà vissuta e nella memoria, che è “normalità” (appunto) per chi ha sentito sulla pelle propria e di tutti, fin da quando è nato, la gravità opprimente di un vuoto dell’aria e delle cose, dell’orizzonte lontano e del cielo sempre pallido che lo sovrasta (e su di esso preme), nelle lande inospitali della campagna ferrarese e nelle vie deserte per definizione della piccola capitale di una “bassa” che è tra le padane la piú bassa di tutte.
Si noti che nei films di Antonioni sono assai rare le costruzioni temerarie di inquadratura, e che l’azzardo pirotecnico a forte impatto emotivo è quasi del tutto assente dalla sua opera. Dico – per farmi intendere – le riprese alla Welles (come il bastione di Acapulco visto dall’alto di un elicottero in The Lady from Shanghai, o i soffitti minacciosi di Citizen Kane, o i quadri sghembi a chiaroscuro espressionista in The third man, tutto wellesiano anche se firmato da Carol Reed... per non parlare delle acrobazie di cinepresa in Touch of Evil o dei montaggi a fotocollage impazzito di F for Fake), oppure potrei dire ancora il simbolismo visivo delle rotazioni doppie e triple di ripresa in Fassbinder (Martha e Roulette cinese), o ancora le zoomate rapaci in Hitchcock... E potrei continuare a lungo, se solo osassi sfiorare i nomi di Jean-Luc Godard o di Dziga Vertov. Certo, anche nel ferrarese troviamo esempi notevoli di gestione sperimentale della tecnica di ripresa – e basterebbe rammentare il piano-sequenza finale di Professione: reporter, con la lentissima, magica e necro-metaforica, avanzata dell’occhio della macchina (e dunque dello spettatore stupefatto) oltre la grata della finestra, dall’interno all’esterno, oppure il ralenti infinito dell’esplosione della villa in Zabriski Point – ma è come se queste prove d’abilità non fossero del tutto indispensabili alla definizione del suo cinema.
Il fatto è che, di fatto, non lo sono, poiché non su di esse si basa l’energia (incredibile energia!) del linguaggio di Antonioni. Diciamo piuttosto che ciò che rende uniche e fortemente espressive le calme e calibratissime inquadrature dei suoi primi films, e piú in generale di tutto il suo cinema, è la capacità di creare attraverso di esse (per mezzo di sfondi paesistici che sono là a surdeterminarne il senso – sur o sub... anche in modo subliminale, plausibilmente) atmosfere interiori di una densità che si pone ai limiti dello psicologicamente tollerabile. Ne Il grido – che è probabilmente il suo piú alto capolavoro giovanile (1957) – una mano tesa nel vuoto, ad esempio, è qualcosa che si staglia sopra un varco visivo effettivo, un vuoto dell’anima trasferito al vuoto dello scenario rurale piatto e privo di volumi, dove in verticale si stagliano – quasi a costituire la migliore delle ipotesi – linee sottili e senza spessore di pali elettrici o di spogli filari di pioppi schierati in parate spettrali lungo canali stretti e a loro volta rettilinei in fuga trasversale verso l’invisibile...
Pianura sconciamente disumana, giacché disumanata, depravata dalle opere violente di insediamenti spietati e spietatamente improvvidi, lungo i secoli, che reca la memoria del proprio smarrimento progressivo: pianura maledetta da accanimenti di abuso intenso di ogni zolla coltivabile e resa ancor piú “sterile” dal carico infinito di un’infinita e dolorosa (umana o disumana) rassegnazione: prodotto incongruo e increscioso di bonifiche che la malaria hanno solo trasferita, per cosí dire, in una ubiquità pervasiva, travasando la palude del disincanto fin dentro le midolla delle cose e delle case. Oppure case e paesi interi di inospitale infelicità, come Francolino sul Po, in mezzo a quelle lande: case che son piú tetre – dietro facciate di parvenze di un piccolo benessere – dell’inferno del villaggio di Kurz nel fitto della giungla, nel Cuore di tenebra, e comunque tenebrose come l’inferno della vita insensata che accudiscono.
Il grido! L’allegoria vi agisce su tutti i piani e su tutti i livelli: nell’estenuante risposta che le sequenze dànno alla lentezza del paesaggio, nell’influenza reciproca di quadri e situazioni narrative, nel richiamo continuo a “spine nel fianco” (della vita) che il visivo in quanto tale, in quanto contesto, infligge a tutto ciò che di umano esso ammette (ma per tolleranza, si direbbe, piú che per ospitalità), e nello scontro e nel conflitto – infine – tra gli atti e le parole dei personaggi e la “divina Indifferenza” di quelle non-cose, non-oggetti, che sono le cose e le case della campagna ferrarese. Francolino e Stienta rappresentano Goriano: una crasi, non solo lessicale, di Goro e Ariano, entrambi situati sul Po ma a un diverso grado di “altitudine”: in quella voragine progressiva che il fascino malato della foce apre su ciò che finge di fecondare, per inghiottirvi – si direbbe – tutto il vegetale e l’animale che la contaminazione richiama a sé. E poi Ravenna, giustamente a far le vesti di Ferrara, in quanto essa stessa (simile nell’atmosfera, ma forse per il regista meno “marcata” di fastidiosi sentimenti) padana e palustre nel piú profondo delle viscere, e altresí nel piú liscio della pelle.
Centrale, perché ripetuto come un’ossessione, è il non-luogo della pompa di benzina, dove Aldo per un poco si rifugia nel suo falso movimento: lievemente rialzato per l’argine di un canale, tale “punctum” della catastrofe non può che leggersi come ripetizione differente di un’altra e piú antica Ossessione fluviale: quella dell’osteria della Dogana, 1943, nel primevo stupendo grido di consenso alle “tematiche della miseria” da parte del piú aristocratico dei maestri del cinema italiano, Luchino Visconti, che era stato preparato a quel fatale coup de dés – in piena guerra, in pieno fascismo moribondo, in piena catastrofe della patria – dai realisti poetici francesi, da Vigo, da Renoir e da Carné, i primi (forse) ad allegorizzare in dimensione di tragedia l’ambiente fisico di una società di miserabili. Ma in Antonioni, nel suo Grido, lo sconfinato squallore del paesaggio (umano e disumano) fornisce il significante allegorico con solerzia ancor piú immediata. Quasi elementare, visto oggi... ma bisognava accorgersene! Muovendo in doppia direzione dalla pompa di benzina, dalla casa della benzinaia, vagamente opulenta e perfino carnalmente ospitale, ma tuttavia disperata, la strada parte dirigendosi nel vuoto: ovunque si vada, si cade nel nulla. E la fuga è sempre e solo sconfitta, ritorno inopinato, circolo vizioso.
E poi quella torre industriale da cui Aldo si getta, quell’ambiente (umano e disumano) che fa da sfondo al compianto finale dell’opera, quell’alberello spoglio – a sinistra della madonna china sul suo cristo – che richiama consimili arbusti simbolici nelle Pietà del Quattrocento belliniano, dove il grido è già lanciato nel vuoto prima ancora che Irma possa emettere un suono, e anche dopo che il suono si è fatto silenzio mortale, tutti questi elementi non fanno che “realizzare” per il cinema quel che forse la pittura “realizza” da sempre (non potendo in vero disporre d’altra forma linguistica di descrizione): che il dramma degli esseri viventi è specchiato nei luoghi in cui essi vivono o son gettati a vivere. «L’accordo straziante tra la spoglia livida del Cristo, come corazzato dalla morte, e il picco immobile della Vergine impietrita che sovrasta i monti lontani; il funereo pennacchio e lo sterpo attoscato sulla roccia levata di quinta a stringere l’intarsio freddo e rigato del cielo dopo la tempesta d’autunno; i monti di verde lavato presso il borgo pallido; ogni cosa si rilega in una lettura netta e crudele, senza comparazione a quei tempi.» (Roberto Longhi, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, sulla Pietà di Giovanni Buonconsiglio, poeta di un solo dipinto, 1495 ca., Vicenza, Musei Civici).

[In “Rifrazioni” n.10, Bologna, 2012]