giovedì 6 marzo 2014

UNA TRILOGIA DEL DELIRIO

UNA TRILOGIA DEL DELIRIO
Viridiana, Simon del deserto, La via lattea



«Non capisco l’indignazione. I mendicanti stanno cenando e per caso si dispongono come nel quadro di Leonardo». Ecco il momento clou di Viridiana (1961), quando, durante la cena (orgia) dei pezzenti, una di costoro decide di eseguire una foto ricordo e, non disponendo di fotocamera, ne allucina – con atto gaiamente sconcio – una sorta di vicario organico nel proprio sesso, per un attimo messo in piena luce dal rapido sollevamento della gonna. Cosí, invece che lo sguardo in macchina, richiesto come necessario dalla prassi canonica del ritratto di gruppo, quel gesto viene ad implicare un rovesciamento abissale della dinamica dell’imma­gine, in altri termini un inopinato sguardo-in-fica: allegorica mise-en-abîme della logica prospettica, dove l’occhio che vede si fa buco nero e imbuto di sprofondamento, capace di stravolgere la “folgorante” e i “folgorati”, ma anche – e non di meno – gli spettatori del film. Un fermo-immagine trasforma (di fatto) in fotografia filmica (incastonata nella pellicola) il “clic” allucinatorio, mentre l’obiettivo da cui muove lo sguardo che blocca il tempo (sguardo della fotografia, ma anche del cinematografo) viene a ribaltarsi in oggetto e tema della visione. Visione obbligata e al tempo stesso vietata, in cui tutto appunto si ferma: la storia narrata, la funzione dell’immagine narrativa e il senso delle immagini occidentali, che pretendono di estrarre la vita dal flusso del tempo. I mendicanti infatti sono sospesi in un tableau vivant, rimangono per un secondo “congelati” sotto l’occhio-sesso che li guarda e che li desidera guardanti, e altresí sotto l’occhio dello spettatore sottoposto alla medesima implosione ottico-sessuale, a sua volta “sbarrato” in un voyerismo estetico estremo... Ed è esattamente a quel punto, in quell’istan­te di sospensione e di sortilegio voyeristico, che – con un cortocircuito che (infatti) annulla il tempo – il Cenacolo Vinciano viene a reclamare i propri diritti, ossia una appropriazione totale dello spazio simbolico dell’e­vento (la cena, l’orgia). Per caso, infatti – sostiene il fazioso Buñuel – «i mendicanti si dispongono come nel quadro di Leonardo».
Già... per caso! Sicché, allo stesso titolo di casualità (e che casualità!) la cena in casa di Viridiana diviene esattamente la “Ultima Cena”, e l’orgia si sacralizza in cerimonia religiosa, in sacrum-faciere: laddove il pane e il vino son chiamati ad assumere il valore (sostanziale) del corpo e del sangue del Cristo, dell’auto-sacrifi­cante per eccellenza. Lo schianto è feroce! L’allucinazione trasloca lesta dalla vulva della donna alla mente dello spettatore, che non può che elaborare, di rimando, il proprio infarto visionario: fermi tutti, quegli sono gli apostoli, quello è Cristo! Scandalo supremo, ma privo di scandalo in fondo. Forse che non erano mendicanti anche i seguaci del dio incarnato? Forse che non erano questuanti di anime o accattoni d’amore? Il contrappasso, violento, si rende palese: Viridiana, la seguace di dio che tiene nella valigia il flagello e la corona di spine, determina con la propria fede un continuo (necessario) contrappasso paradossale delle ambizioni di santità che la vivificano. Lo zio Don Jaime sviluppa, a contatto con quelle pretese, una specie di incresciosa e travolgente eccitazione erotica, come un imbarazzante inturgidimento psichico che fa leva sulla fantasmatica resurrezione della moglie morta (zia di Viridiana) e però altresí (e con ogni probabilità) sul ricordo associativo di barocchi deliquii analoghi, come quelli di Santa Teresa d’Avila e della Beata Ludovica Albertoni, assecondando in sé una smania di coito divino-umano che lo porta dapprima allo stupro (quando gode notte tempo del corpo della devota dopo averla narcotizzata), poi a suicidarsi impiccandosi (nuova solenne erezione) con la corda da gioco di una bambina. E non a caso: di una bambina.
Cosí il senso di un sacrificio incessante imperversa proprio là dove aleggia lo spirito (santo) di Viridiana, carnefice autentica, immolatrice di anime, suscitatrice di elevazioni ambigue e redentrice di ogni peccato. Ma forse, piú diabolico ancora di quello di Viridiana, vola alto nel film lo spirito di Georges Bataille, che Buñuel a parole, ossia nelle interviste, non cita mai, ma che profusamente evoca nei fatti.
I mendicanti sono i destinatari indegni di una pietas che è fonte solo di sciagure, sono gli apostoli che non comprendono la Maestra e la tradiscono, ma sono anche i giusti vendicatori della sua arroganza, della sua hybris celestiale. Piú ancora che in Nazarin (Buñuel 1958) e quasi come in Justine di Sade, la religione e la bontà (che le compete) si dimostrano avocatrici di perdizione e morte, dove il male (ma in Buñuel il male è solo apparentemente il male) trionfa con il ghigno di un’ironica ineluttabilità. I pezzenti accolti con amore – ma anche con sussiego, occorre ammettere – le demoliscono la casa, e poi distruggono anche lei, stuprata per la seconda volta nell’arco di un solo film e quindi ricondotta a piú miti consigli, poiché in sostanza la trasformano nell’amante fiduciosa del cugino, un laico viveur tranquillo a cui approdare – con riconoscenza e disponibilità – come al porto pacifico di una vita banale ritrovata, senza cristi pantocratori e altre concitazioni deleterie.
La tesi di Buñuel, magnificamente sviluppata nella trilogia religiosa che va dal 1961 al 1969, è che il sentimento del divino implica il delirio nella realtà. E, poiché tale sentimento è sempre presente là dove vive l’uomo, il delirio è la vera marca distintiva del reale come dimensione umana. La follia non è affatto confinata agli ospedali psichiatrici, e tanto meno può essere il prodotto di chi la celebra in modo intenzionale per farne materia d’arte: il surrealismo non è una scelta, non è una poetica, non è un modo di espressione; il surrealismo – quanto meno in Buñuel – propone l’immagine autentica della vita, la quale è per definizione “surreale” ovunque vi sia una mente umana che la pensa e che la vive, vale a dire se vi è un “sur” (un sopra) che viene addotto a sua motivazione. Cosí l’ateo (Buñuel) sa che dio è ovunque, giacché la sua presenza immaginaria sovradetermi­na ogni gesto e ogni conoscenza dell’uomo. Il folle è colui che legge la realtà nella chiave di un “principio” (superiore per definizione) capace di spiegarla e di renderla significante, è colui che la vede e la vuole ricca di significato. Pertanto la follia dilaga nel mondo.

Simone lo stilita (Simon del deserto, 1965) è quintessenza fatta individuo del pazzo religioso tipico. Spiega Cristo – in un apologo senza dubbio capace di entusiasmare le alte gerarchie del Vaticano – che «a chi già ha, sarà dato di più, e costui vivrà nell’ab­bondanza; a chi non ha, sarà tolto anche quel poco che ha» (Matteo, XIII, 12). Padre Simone, come molti altri che nella stessa epoca (primo medioevo) la pensano come lui, applica alla lettera il precetto. Si spoglia di ogni cosa e sale in cima a una colonna, da dove può dialogare con dio assai piú da vicino e dove può sacrificare a lui ogni alito vitale del suo corpo. La sua follia è nella giustezza del suo pensiero e della sua determinazione. In piedi sulla colonna, per mesi e per anni (il tempo in tali frangenti non conta e dunque non è possibile sapere per quanto) si slancia verso la gran volta celeste, nutrendosi di scarse foglie di insalata (non condita) e bevendo solo acqua. Ad un certo punto del film, Simone comprende di non aver sacrificato abbastanza, e delibera di far poggiare su una sola gamba la propria elevazione. Prega dio... ma ovviamente riceve molteplici visite del demonio, il quale – in canonica forma di femmina procace – gli esibisce appetitose mammelle bionde e una carnalissima prospettiva di felicità, ricevendone tuttavia in risposta sempre e solo il classico «Vade retro, Satana!».
La follia è contagiosa, e infatti ai piedi della colonna accadono eventi strani. Un uomo mutilato viene “miracolato” da Simone, e la prima cosa che fa, con le mani nuove di zecca, consiste nel tirare un ceffone a sua figlia. Non si meraviglia affatto del prodigio («è un santo miracoloso, deve aver pensato, è naturale che mi abbia fatto il miracolo», commenta Buñuel) e nessuno dà molta importanza alla faccenda («Del resto è come succede oggi con i miracoli di Lourdes, a cui nessuno fa caso, e che sono considerati ormai di routine», idem). Nemmeno la disputa teologica che si svolge tra i confratelli dello stilita, e il fatto che uno di essi venga preso tutt’a un tratto da convulsioni e si metta a bestemmiare, suscita l’imbarazzo che all’allucina­zio­ne spetterebbe. «Muoia la Sacra Ipostasi», grida l’indemoniato, e gli altri monaci gli oppongono il loro «viva!». «Muoia l’Anastasi!», insiste quello, e gli altri: «Viva!». Finché la demenza bizantina non prende il sopravvento: «Viva l’Apokatastasi!», urla, sbavando, il deviato, e gli altri – che cadono nella trappola: «Muoia... sì, muoia!». Un monaco chiede al vicino: «Ma che cos’è questa Apokatastasi?» e quello scuote la testa. Poiché il concetto è troppo complicato (ristabilimento dell’ordine divino originario dopo la fine di tutti i tempi) e il Male sembra prevalere, interviene Simone dall’alto della colonna, e con parole e gesti apotropaici scaccia (provvisoriamente) Belzebù dal corpo del disgraziato, in preda ora a un attacco epilettico. Il priore ordina quindi che lo psicopatico sia ricondotto al convento, dove – annuncia – finirà di esorcizzarlo a alla sua maniera (!).
Il demonio Silvia Pinal tenta un buffo travestimento da Gesù Cristo, una mise che ha uno strano sapore iconografico tra il biblico e il baracconesco. E dal basso arringa Simone stringendo tra le braccia un agnellino... Ma il santo, che del verbo di Satana via via intende il significato, finisce per smascherare la tentatrice; sicché costei (o costui), dopo aver cacciato l’agnello con una pedata, sbotta in una serie di bestemmie da osteria («Ma guarda un po’ che razza di stronzate mi tocca di sentire... faccia di cazzo! ... L’ostia di merda che sta nel ventre di quella figlia di puttana!», e poi: «Tornerò, pidocchioso, tornerò!»). E in effetti di lì a poco torna, questa volta all’interno di una cassa da morto trainata da funi ben visibili, per assumere, non appena la cassa si apre, le sembianze nude e autentiche di una gran femmina formosa. Dopo un attimo Silvia è sulla colonna insieme a Simone e gli annuncia una trasferta (in jet supersonico) al Sabbah del futuro... Ventesimo secolo: ateo e godereccio. La mitica sequenza finale vede i due in una discoteca di New York, dove il santo si è fatto esistenzialista, con tanto di pipa e barbetta corta, e la donna-demonio (assatanata nel ballo “carne radioattiva” tra urla lancinanti di chitarre elettriche) lo invita ad applicare finalmente il magnifico principio del Vade ultra! «È la vita, ubriacone, e devi sopportarla fino in fondo».

La dimensione spirituale, probabilmente congrua all’essere umano fino al punto da essergli consustanziale, è dunque l’insopprimibile causa di quell’impulso visionario che rende la realtà stessa un magnifico delirio degno di essere vissuto. Tale è la tesi, per lo meno, che Buñuel sviluppa amorosamente nel suo cinema, e che anche La via lattea (1969) espone nel modo più persuasivo. Può vedersi compiuto il desiderio piú alto che lo spirito di giustizia sia in grado di ispirare? È possibile, dunque, fucilare un papa? Qualcuno immagina la scena e subito essa si materializza (in immagine cine­matografica): un gruppo di rivoltosi comunisti conduce il pontefice al muro. È una donna ad assumere il comando del plotone d’esecuzio­ne... «Puntate... fuoco!», e il papa si accascia al suolo, scontando finalmente con il proprio sangue tutto il do­lore che secoli di tirannide della Chiesa hanno arrecato a milioni di uomini sulla terra. Trattasi – infine – di un papa che assume le vesti di un nuovo redentore, a ben vedere. Lo sguardo trasognato di colui che immagina la scena (un alter-ego del regista?) riconduce l’evento a sogno; e tuttavia: cos’è la vita se non sogno?
La fucilazione del papa interviene, al culmine de La via lattea, subito dopo che i pellegrini sono capitati nei paraggi di una scuola cattolica, dove le piccole educande risultano indotte (indottrinate) a lanciare patetici anatemi su l’universo mondo: «Ora, per dimostrare che nelle giovani anime che noi abbiamo il dovere di educare la religione è una cosa concreta ed attuale, eccovi le allieve piú piccole in un breve prologo». Tra incongrui muggiti di bovini (ma siamo in campagna...) le bimbe salgono sul palco, elevato di fronte al prato su cui i genitori stanno facendo il pic-nic, e già qualcuno, uno dei pellegrini, immagina qualcos’altro, ossia vede il plotone dei rivoluzionari marciare. La bimba Brigitte recita la sua parte: «Se qualcuno dice che ai cristiani è permesso avere piú di una moglie e che avere piú di una moglie non è vietato da nessuna legge divina...», e il coro infantile: «Su di lui anatema!». Un’altra bambina: «Se qualcuno dice che con il sacrificio della messa si commette sacrilegio contro il sacrificio di Gesù morto sulla croce...», «Su di lui anatema!». Di nuovo un brevissimo spezzone sulla marcia. Poi ancora altri anatemi, e finalmente il papa giustiziato. Chiede un genitore al pellegrino immaginifico: «Che succede? C’è un poligono qui intorno?». E questi: «No, no, ero io... Immaginavo che fucilavano un papa». Il buon padre di famiglia avrà udito gli spari, si presume, per confermare a noi la realtà del fatto, o quanto meno per farci comprendere quanta potenza creatrice risieda nella fantasia.
Il cinema per Buñuel è esattamente questo: immaginazione (desiderio) che modella la realtà, mentre la vita non è che il vaneggiamento di ciò che vogliamo che essa sia. La litania riprende: «Se qualcuno dice che dio sente odio per il fanciullo appena nato e che punisce in lui il peccato di Adamo...», «Su di lui anatema!». «Se qualcuno, perché giudica immonde le carni che dio ha donato all’uo­mo e non perché desidera mortificarsi, si astiene dal mangiare queste carni...», «Su di lui anatema!». La religione è fonte inesauribile di delirio, come sempre. Ma lo è, in fondo qualsiasi “religione”, ovvero qualsivoglia modello di interpretazione della realtà: il pensiero (in altri termini) che riconduce la pura e oggettiva esistenza a una coscienza umana capace di (e necessitata a) elaborarne il senso. E la cosí detta verosimiglianza – praticata come una sorta di dogma che discenderebbe direttamente dalla ragione (e per il cinema dalla natura stessa del “patto finzionale”) – altro non è che una costruzione artificiosa, convenzionale, infine del tutto inverosimile. Chiede la maestra all’ultima bambina: «Questo dove è stato stabilito?», e la piccola: «Al concilio di Nicea... No, al concilio di Braga... nell’anno 567».

                                                                                                               
N.B. Tutte le frasi di Luis Buñuel citate nel presente saggio sono tratte dal volume Buñuel secondo Buñuel, interviste a cura di Tomás Pérez Turrent e José de la Colina, Ubulibri, Milano 1993.