UNA TRILOGIA DEL DELIRIO
Viridiana, Simon del deserto,
La via lattea
«Non
capisco l’indignazione. I mendicanti stanno cenando e per caso si dispongono come nel quadro di Leonardo». Ecco il momento
clou di Viridiana (1961), quando, durante
la cena (orgia) dei pezzenti, una di costoro decide di eseguire una foto
ricordo e, non disponendo di fotocamera, ne allucina – con atto gaiamente sconcio
– una sorta di vicario organico nel proprio sesso, per un attimo messo in piena
luce dal rapido sollevamento della gonna. Cosí, invece che lo sguardo in macchina, richiesto come
necessario dalla prassi canonica del ritratto di gruppo, quel gesto viene ad
implicare un rovesciamento abissale della
dinamica dell’immagine, in altri termini un inopinato sguardo-in-fica: allegorica mise-en-abîme
della logica prospettica, dove l’occhio che vede si fa buco nero e imbuto di
sprofondamento, capace di stravolgere la “folgorante” e i “folgorati”, ma anche
– e non di meno – gli spettatori del film. Un fermo-immagine trasforma (di
fatto) in fotografia filmica
(incastonata nella pellicola) il “clic” allucinatorio, mentre l’obiettivo da
cui muove lo sguardo che blocca il tempo (sguardo della fotografia, ma anche del
cinematografo) viene a ribaltarsi in oggetto e tema della visione. Visione obbligata
e al tempo stesso vietata, in cui tutto appunto si ferma: la storia narrata, la
funzione dell’immagine narrativa e il senso delle immagini occidentali, che
pretendono di estrarre la vita dal flusso del tempo. I mendicanti infatti sono sospesi
in un tableau vivant, rimangono per
un secondo “congelati” sotto l’occhio-sesso che li guarda e che li desidera
guardanti, e altresí sotto l’occhio dello spettatore sottoposto alla medesima implosione
ottico-sessuale, a sua volta “sbarrato” in un voyerismo estetico estremo... Ed è esattamente a quel punto, in
quell’istante di sospensione e di sortilegio voyeristico, che – con un cortocircuito che (infatti) annulla il
tempo – il Cenacolo Vinciano viene a
reclamare i propri diritti, ossia una appropriazione totale dello spazio
simbolico dell’evento (la cena, l’orgia). Per caso, infatti – sostiene il
fazioso Buñuel – «i mendicanti si dispongono come nel quadro di Leonardo».
Già... per caso! Sicché, allo
stesso titolo di casualità (e che casualità!) la cena in casa di Viridiana diviene
esattamente la “Ultima Cena”, e l’orgia si sacralizza in cerimonia religiosa,
in sacrum-faciere: laddove il pane e
il vino son chiamati ad assumere il valore (sostanziale) del corpo e del sangue
del Cristo, dell’auto-sacrificante per eccellenza. Lo schianto è feroce! L’allucinazione trasloca lesta dalla vulva
della donna alla mente dello spettatore, che non può che elaborare, di rimando,
il proprio infarto visionario: fermi tutti, quegli sono gli apostoli, quello è
Cristo! Scandalo supremo, ma privo di scandalo in fondo. Forse che non erano
mendicanti anche i seguaci del dio incarnato? Forse che non erano questuanti di
anime o accattoni d’amore? Il contrappasso, violento, si rende palese:
Viridiana, la seguace di dio che tiene nella valigia il flagello e la corona di
spine, determina con la propria fede un continuo (necessario) contrappasso
paradossale delle ambizioni di santità che la vivificano. Lo zio Don Jaime
sviluppa, a contatto con quelle pretese, una specie di incresciosa e travolgente
eccitazione erotica, come un imbarazzante inturgidimento psichico che fa leva
sulla fantasmatica resurrezione della moglie morta (zia di Viridiana) e però
altresí (e con ogni probabilità) sul ricordo associativo di barocchi deliquii analoghi,
come quelli di Santa Teresa d’Avila e della Beata Ludovica Albertoni, assecondando
in sé una smania di coito divino-umano che lo porta dapprima allo stupro (quando
gode notte tempo del corpo della devota dopo averla narcotizzata), poi a suicidarsi
impiccandosi (nuova solenne erezione) con la corda da gioco di una bambina. E
non a caso: di una bambina.
Cosí il senso di un sacrificio
incessante imperversa proprio là dove aleggia lo spirito (santo) di Viridiana,
carnefice autentica, immolatrice di anime, suscitatrice di elevazioni ambigue e
redentrice di ogni peccato. Ma forse, piú diabolico ancora di quello di
Viridiana, vola alto nel film lo spirito di Georges Bataille, che Buñuel a
parole, ossia nelle interviste, non cita mai, ma che profusamente evoca nei
fatti.
I mendicanti sono i destinatari indegni di una pietas che è fonte solo di sciagure, sono gli apostoli che non
comprendono la Maestra e la tradiscono, ma sono anche i giusti vendicatori
della sua arroganza, della sua hybris
celestiale. Piú ancora che in Nazarin
(Buñuel 1958) e quasi come in Justine
di Sade, la religione e la bontà (che
le compete) si dimostrano avocatrici di perdizione e morte, dove il male (ma in
Buñuel il male è solo apparentemente il male) trionfa con il ghigno di un’ironica
ineluttabilità. I pezzenti accolti con amore – ma anche con sussiego, occorre ammettere
– le demoliscono la casa, e poi distruggono anche lei, stuprata per la seconda
volta nell’arco di un solo film e quindi ricondotta a piú miti consigli, poiché
in sostanza la trasformano nell’amante fiduciosa del cugino, un laico viveur tranquillo a cui approdare – con
riconoscenza e disponibilità – come al porto pacifico di una vita banale
ritrovata, senza cristi pantocratori e altre concitazioni deleterie.
La tesi di Buñuel, magnificamente sviluppata nella trilogia religiosa
che va dal 1961 al 1969, è che il sentimento del divino implica il delirio nella realtà. E, poiché tale sentimento è
sempre presente là dove vive l’uomo, il delirio è la vera marca distintiva del
reale come dimensione umana. La follia non è affatto confinata agli ospedali
psichiatrici, e tanto meno può essere il prodotto di chi la celebra in modo
intenzionale per farne materia d’arte: il surrealismo
non è una scelta, non è una poetica, non è un modo di espressione; il surrealismo – quanto meno in Buñuel –
propone l’immagine autentica della vita, la quale è per definizione “surreale” ovunque
vi sia una mente umana che la pensa e che la vive, vale a dire se vi è un “sur”
(un sopra) che viene addotto a sua motivazione.
Cosí l’ateo (Buñuel) sa che dio è ovunque, giacché la sua presenza immaginaria sovradetermina ogni gesto e ogni
conoscenza dell’uomo. Il folle è colui che legge la realtà nella chiave di un “principio”
(superiore per definizione) capace di
spiegarla e di renderla significante,
è colui che la vede e la vuole ricca di
significato. Pertanto la follia dilaga nel mondo.
Simone lo stilita (Simon del
deserto, 1965) è quintessenza fatta individuo del pazzo religioso tipico. Spiega
Cristo – in un apologo senza dubbio capace di entusiasmare le alte gerarchie
del Vaticano – che «a chi già ha, sarà dato di più, e costui vivrà nell’abbondanza;
a chi non ha, sarà tolto anche quel poco che ha» (Matteo, XIII, 12). Padre
Simone, come molti altri che nella stessa epoca (primo medioevo) la pensano
come lui, applica alla lettera il precetto. Si spoglia di ogni cosa e sale in
cima a una colonna, da dove può dialogare con dio assai piú da vicino e dove può
sacrificare a lui ogni alito vitale del suo corpo. La sua follia è nella
giustezza del suo pensiero e della sua determinazione. In piedi sulla colonna,
per mesi e per anni (il tempo in tali frangenti non conta e dunque non è
possibile sapere per quanto) si slancia verso la gran volta celeste, nutrendosi
di scarse foglie di insalata (non condita) e bevendo solo acqua. Ad un certo
punto del film, Simone comprende di non aver sacrificato abbastanza, e delibera
di far poggiare su una sola gamba la propria elevazione. Prega dio... ma ovviamente
riceve molteplici visite del demonio, il quale – in canonica forma di femmina
procace – gli esibisce appetitose mammelle bionde e una carnalissima prospettiva
di felicità, ricevendone tuttavia in risposta sempre e solo il classico «Vade
retro, Satana!».
La follia è contagiosa, e infatti ai piedi della colonna accadono eventi
strani. Un uomo mutilato viene “miracolato” da Simone, e la prima cosa che fa,
con le mani nuove di zecca, consiste nel tirare un ceffone a sua figlia. Non si
meraviglia affatto del prodigio («è un santo miracoloso, deve aver pensato, è
naturale che mi abbia fatto il miracolo», commenta Buñuel) e nessuno dà molta
importanza alla faccenda («Del resto è come succede oggi con i miracoli di
Lourdes, a cui nessuno fa caso, e che sono considerati ormai di routine», idem).
Nemmeno la disputa teologica che si svolge tra i confratelli dello stilita, e il
fatto che uno di essi venga preso tutt’a un tratto da convulsioni e si metta a bestemmiare,
suscita l’imbarazzo che all’allucinazione spetterebbe. «Muoia la Sacra
Ipostasi», grida l’indemoniato, e gli altri monaci gli oppongono il loro «viva!».
«Muoia l’Anastasi!», insiste quello, e gli altri: «Viva!». Finché la demenza
bizantina non prende il sopravvento: «Viva l’Apokatastasi!», urla, sbavando, il
deviato, e gli altri – che cadono nella trappola: «Muoia... sì, muoia!». Un monaco
chiede al vicino: «Ma che cos’è questa Apokatastasi?» e quello scuote la testa.
Poiché il concetto è troppo complicato (ristabilimento
dell’ordine divino originario dopo la fine di tutti i tempi) e il Male
sembra prevalere, interviene Simone dall’alto della colonna, e con parole e gesti
apotropaici scaccia (provvisoriamente) Belzebù dal corpo del disgraziato, in
preda ora a un attacco epilettico. Il priore ordina quindi che lo psicopatico
sia ricondotto al convento, dove – annuncia – finirà di esorcizzarlo a alla sua
maniera (!).
Il demonio Silvia Pinal tenta un buffo travestimento da Gesù Cristo, una
mise che ha uno strano sapore
iconografico tra il biblico e il baracconesco. E dal basso arringa Simone stringendo
tra le braccia un agnellino... Ma il santo, che del verbo di Satana via via intende
il significato, finisce per smascherare la tentatrice; sicché costei (o costui),
dopo aver cacciato l’agnello con una pedata, sbotta in una serie di bestemmie
da osteria («Ma guarda un po’ che razza di stronzate mi tocca di sentire...
faccia di cazzo! ... L’ostia di merda che sta nel ventre di quella figlia di
puttana!», e poi: «Tornerò, pidocchioso, tornerò!»). E in effetti di lì a poco torna,
questa volta all’interno di una cassa da morto trainata da funi ben visibili,
per assumere, non appena la cassa si apre, le sembianze nude e autentiche di
una gran femmina formosa. Dopo un attimo Silvia è sulla colonna insieme a
Simone e gli annuncia una trasferta (in jet supersonico) al Sabbah del futuro...
Ventesimo secolo: ateo e godereccio. La mitica sequenza finale vede i due in
una discoteca di New York, dove il santo si è fatto esistenzialista, con tanto di pipa e barbetta corta, e la donna-demonio
(assatanata nel ballo “carne radioattiva” tra urla lancinanti di chitarre
elettriche) lo invita ad applicare finalmente il magnifico principio del Vade ultra! «È la vita, ubriacone, e devi
sopportarla fino in fondo».
La dimensione spirituale, probabilmente congrua all’essere umano fino
al punto da essergli consustanziale, è
dunque l’insopprimibile causa di quell’impulso visionario che rende la realtà stessa
un magnifico delirio degno di essere vissuto. Tale è la tesi, per lo meno, che
Buñuel sviluppa amorosamente nel suo cinema, e che anche La via lattea (1969) espone nel modo più persuasivo. Può vedersi compiuto
il desiderio piú alto che lo spirito di giustizia sia in grado di ispirare? È
possibile, dunque, fucilare un papa? Qualcuno immagina la scena e subito essa
si materializza (in immagine cinematografica): un gruppo di rivoltosi
comunisti conduce il pontefice al muro. È una donna ad assumere il comando del
plotone d’esecuzione... «Puntate... fuoco!», e il papa si accascia al suolo, scontando
finalmente con il proprio sangue tutto il dolore che secoli di tirannide della
Chiesa hanno arrecato a milioni di uomini sulla terra. Trattasi – infine – di
un papa che assume le vesti di un nuovo redentore, a ben vedere. Lo sguardo
trasognato di colui che immagina la scena (un alter-ego del regista?) riconduce
l’evento a sogno; e tuttavia: cos’è la vita se non sogno?
La fucilazione del papa interviene, al culmine de La via lattea, subito dopo che i pellegrini sono capitati nei
paraggi di una scuola cattolica, dove le piccole educande risultano indotte
(indottrinate) a lanciare patetici anatemi su l’universo mondo: «Ora, per
dimostrare che nelle giovani anime che noi abbiamo il dovere di educare la
religione è una cosa concreta ed attuale, eccovi le allieve piú piccole in un
breve prologo». Tra incongrui muggiti di bovini (ma siamo in campagna...) le
bimbe salgono sul palco, elevato di fronte al prato su cui i genitori stanno
facendo il pic-nic, e già qualcuno, uno dei pellegrini, immagina qualcos’altro,
ossia vede il plotone dei rivoluzionari marciare. La bimba Brigitte recita la
sua parte: «Se qualcuno dice che ai cristiani è permesso avere piú di una
moglie e che avere piú di una moglie non è vietato da nessuna legge divina...»,
e il coro infantile: «Su di lui anatema!». Un’altra bambina: «Se qualcuno dice
che con il sacrificio della messa si commette sacrilegio contro il sacrificio
di Gesù morto sulla croce...», «Su di lui anatema!». Di nuovo un brevissimo
spezzone sulla marcia. Poi ancora altri anatemi, e finalmente il papa giustiziato.
Chiede un genitore al pellegrino immaginifico: «Che succede? C’è un poligono
qui intorno?». E questi: «No, no, ero io... Immaginavo che fucilavano un papa».
Il buon padre di famiglia avrà udito gli spari, si presume, per confermare a
noi la realtà del fatto, o quanto meno per farci comprendere quanta potenza creatrice
risieda nella fantasia.
Il cinema per Buñuel è esattamente questo: immaginazione (desiderio)
che modella la realtà, mentre la vita non è che il vaneggiamento di ciò che
vogliamo che essa sia. La litania riprende: «Se qualcuno dice che dio sente
odio per il fanciullo appena nato e che punisce in lui il peccato di Adamo...»,
«Su di lui anatema!». «Se qualcuno, perché giudica immonde le carni che dio ha
donato all’uomo e non perché desidera mortificarsi, si astiene dal mangiare
queste carni...», «Su di lui anatema!». La religione è fonte inesauribile di
delirio, come sempre. Ma lo è, in fondo qualsiasi
“religione”, ovvero qualsivoglia modello di interpretazione della realtà: il pensiero (in altri termini) che riconduce
la pura e oggettiva esistenza a una coscienza
umana capace di (e necessitata a) elaborarne il senso. E la cosí detta verosimiglianza
– praticata come una sorta di dogma che discenderebbe direttamente dalla
ragione (e per il cinema dalla natura stessa del “patto finzionale”) – altro non
è che una costruzione artificiosa, convenzionale, infine del tutto inverosimile.
Chiede la maestra all’ultima bambina: «Questo dove è stato stabilito?», e la piccola:
«Al concilio di Nicea... No, al concilio di Braga... nell’anno 567».
N.B. Tutte le frasi di Luis Buñuel citate nel presente saggio sono
tratte dal volume Buñuel secondo Buñuel,
interviste a cura di Tomás Pérez Turrent e José de la Colina, Ubulibri, Milano
1993.