Prima sequenza: il “volo a velo”...
Quadro fermo sul dettaglio di una
porta a vetri. Al centro geometrico: la maniglia di ottone che permette di
aprire. Nell’attesa, passi risuonano nella stanza, e una mano giunge a dare un senso
alla maniglia. Lo sguardo subisce, di spalle, l’ingresso della donna, invece di
cercarla frontalmente per ruotare con lei nello spazio. Da sinistra: il braccio
della donna, una mano che preme verso il basso: la prima spaccatura della
visione. Immobile, persistente. La porta viene aperta, la donna indugia, vi
transita e poi si blocca. Il quadro stretto (camera fissa) è ora diviso in due
dalla schiena massiccia: la testa è fuori campo in alto, le gambe fuoricampo in
basso. La mole dell’abito scuro, sbarrato dalla croce obliqua delle bretelle,
sembra notificare una preclusione. Invece la domestica riprende il movimento ed
esce dal campo verso destra, restaurando la visibilità totale. Stacco. Il
quadro, avanzato in ripresa di qualche metro, mostra ora il balcone, dove un dondolo
oscilla a vuoto mentre un tavolo sbanda e poi cade, senza una ragione, crollando
e facendo crollare un vaso di fiori. Il rumore incrementa il disagio dell’ellissi:
omissione d’atto d’ufficio, omissione dell’accaduto. Quadro fisso e rumore protagonista:
rumore del vaso, del tavolo, e poi – a suggerire l’idea disastrosa – la
pugnalata feroce di una frenata d’auto sulla strada (invisibile)... Al contempo
la donna rientra in campo, ancora da sinistra, e di nuovo si ferma, interdetta
quanto lo spettatore. Altro stacco. Veduta esterna, con il balcone in alto. Soave,
morbido, indicibilmente persuasivo, il volo-a-vela di uno scialle bianco che fluttua
in aria contro il cielo, disegnando un aprile crudele quanto un suicidio, e lentamente
perde quota. Il quadro è questa volta mobile, dacché, vacillando, asseconda il
candore per mantenerlo al centro. E altre brucianti frenate sulla strada stridono
in ossimoro, duramente, sfregando contro quest’immagine, tentando di sfregiarla
con il suono, ma senza riuscirvi. Ultimo stacco. Due automobili ingombrano il
quadro, ora orizzontale, e abbordano il marciapiede dopo le frenate. Sono
inquadrate una dietro l’altra: al bianco dell’una si aggiunge il rosso
dell’altra. Come a preannunciare un schiaffo bicromo sui nostri occhi esterrefatti,
ossia quando la cinepresa, ruotando verso destra e seguendo le gambe (nuova
sineddoche) degli automobilisti, raggiunge il corpo di una donna prona sul
selciato: il bianco della camicetta, il rosso del rivolo di sangue. Prospettiva
mantegnesca, ma due volte a rovescio: il corpo è veduto dal lato della testa,
ed è prono invece che supino. Gli apostoli sono ritti in piedi, ma non se ne
vedono che i piedi. Ugualmente a rovescio il tutto si spiega: la stanza, la domestica,
il balcone, il tavolo che oscilla, la sciarpa che cade, le frenate... Una
sciarada della tragedia, costruita su immagini parziali, frammentarie, spietatamente
allusive e mai prensili, sui quadri di una non-rappresentazione... e su un
tempo che è sempre in ritardo, su un affannoso inseguimento dell’accadere che
vale come un fallito tentativo di salvataggio.
[in “Rifrazioni”, n. 7, 2011]